Aspettando Tutankhamon. L’ultima mostra, al cinema il 9, 10 e 11 maggio

Ernesto Pagano racconta Tutankhamon, il faraone che affascinò il mondo con il suo messaggio di rinascita

Tutankhamon. L'ultima mostra, Cofanetto canopico intarsiato dedicato a Imseti e Isis | © Laboratoriorosso Productions | Courtesy Nexo Digital
 

Samantha De Martin

06/05/2022

Secondo gli Egizi l’eternità di un uomo cesserà soltanto quando non ci sarà più nessuno al mondo a pronunciare il suo nome.
Eppure la maschera d’oro di Tutankhamon rimase scolpita nella memoria dell’umanità, divenendo, ben 3342 anni dopo la sua sepoltura, leggenda.
Il mito del ragazzino elevato al rango di semidio, morto prematuramente e accompagnato in una tomba di fortuna per intraprendere il viaggio verso l’eternità insieme al suo ricchissimo corredo funerario, si appresta a uscire dalla camera sepolcrale scoperta il 26 novembre 1922 dall’egittologo britannico Howard Carter (“Vedo cose meravigliose” fu il suo grido di stupore), per brillare sul grande schermo.
In occasione del centenario di quella rivoluzionaria scoperta arriva al cinema il 9, 10 e 11 maggio Tutankhamon. L’ultima mostra, un racconto avvincente attraverso le immagini ad altissima definizione realizzate in esclusiva mondiale da Sandro Vannini che ha seguito lo spostamento di 150 oggetti di questo prezioso tesoro in vista dell’ultima grande mostra internazionale dedicata al giovane faraone.


Tutankhamon. L’ultima mostra, un film di Ernesto Pagano I Courtesy Nexo Digital

Mentre il poderoso tesoro del Golden Boy si accinge a diventare inamovibile, e visitabile, per volontà del governo egiziano, solo nella sua sede del Cairo, il docufilm diretto da Ernesto Pagano offre la rara possibilità di ammirare sul grande schermo l’ultima “apparizione pubblica” del tesoro del faraone, parte di quei 5398 oggetti ritrovati ammucchiati, ormai un secolo fa, dentro una tomba angusta.
Prodotto da Laboratoriorosso e Nexo Digital, affidato alla voce di Manuel Agnelli, il racconto offre un accesso esclusivo ad alcuni dei luoghi che ancora oggi rappresentano il cuore pulsante della leggenda di Tutankhamon. 
Dai dipartimenti dell’area restauro del nuovo Grand Egyptian Museum di Giza, ancora chiuso al pubblico, e dal chiassoso Museo Egizio di Piazza Tahrir del Cairo, il regista ci accompagna a pochi centimetri di distanza dagli oggetti del tesoro del faraone, consentendoci quasi di sfiorarli. Uno dei più ricchi archivi fotografici privati del mondo dedicati al tesoro e i materiali fotografici e cinematografici originali raccolti tra il Metropolitan Museum di New York e il Griffith Institute di Oxford ci restituiscono i momenti più emozionanti della scoperta di Carter e ancora l’eco della maledizione di Tutankhamon, il cui nome, dopo un regno effimero dimenticato dopo la morte, fu trasformato in leggenda da un intreccio di casualità, 3342 anni dopo la sepoltura.

Abbiamo chiesto al regista di svelarci qualcosa in più sul docufilm presto in sala.


Il regista Ernesto Pagano sul set di Tutankhamon. L’ultima mostra | Courtesy Nexo Digital

Che cos’è, secondo lei, che rende ancora oggi Tutankhamon un “fenomeno culturale”?
“Il fenomeno Tutankhamon ha preso corpo in un momento storico che, a distanza di un secolo, presenta dei rimandi molto forti col nostro oggi. Nel 1922 il mondo si stava risollevando dal primo conflitto mondiale e veniva fuori da una pandemia devastante: l’influenza spagnola. Il ritrovamento di un tesoro appartenuto a un giovane re, vissuto tremila anni prima, investì la società occidentale con una forza dirompente. Ricordiamoci che fu trovato un tesoro, fatto di una miriade di oggetti d’uso quotidiano, inclusi letti e contenitori per il cibo, ma anche un corpo incredibilmente preservato. Fu come se questo giovane avesse attraversato i millenni all’interno di una macchina del tempo per consegnare all’umanità un messaggio di rinascita. E in qualche modo a tutti quelli che avevano perso i loro cari (spesso giovani caduti in guerra) offriva un segnale attorno al quale alimentare la propria speranza, come a confermarci che una forma d’eternità è possibile. Oggi, a cento anni esatti, l’umanità viene fuori da una terribile pandemia e si interroga su come evitare di scivolare verso un terzo conflitto mondiale. Il nome di Tutankhamon resta lì, scolpito nella memoria collettiva come a metterci di fronte a questo secolo così veloce. Perché se ci fermiamo a riflettere, le nostre speranze, la nostra voglia di sopravvivere a noi stessi non è cambiata. Esisteva già ai tempi di Tutankhamon, perché gli egizi credevano che sarai eterno fino a quando l’ultima persona su questa terra pronuncerà il tuo nome”.

In cosa consiste l’unicità di questo docufilm?
“Abbiamo avuto la fortuna di viaggiare fianco a fianco con alcuni tra gli oggetti più belli del tesoro di Tutankhamon, l’unico corredo funerario della Valle dei Re ad essere rinvenuto ancora intatto nel 1922, esattamente un secolo fa. L’unicità di questo documentario sta proprio nella grande occasione costruita negli anni con pazienza e tenacia da Sandro Vannini che ha prodotto questo film e che è stato coinvolto in prima persona nel racconto fotografico degli oggetti di quella che, con ogni probabilità, sarà l’ultima mostra itinerante del tesoro di Tutankhamon, dal momento che il governo egiziano ha deciso che il tesoro del faraone non viaggerà mai più".


Da "Tutankhamon. L'ultima mostra": Gilded Wooden Figure of Tutankahmun on a Skiff, Throwing Harpoon © Laboratoriorosso Productions I Courtesy Nexo Digital

In che modo il docufilm dialoga con gli scatti di Sandro Vannini?
“Da fotografo e creativo, Sandro Vannini non ha mai smesso di esplorare la possibilità di integrare la fotografia con nuovi linguaggi. Da diversi anni ci interroghiamo su come rendere la fotografia parte integrante di un racconto audiovisivo che rievoca il passato, e in questo caso la vita del giovane faraone, il simbolismo inciso negli oggetti rinvenuti insieme alla sua tomba. La direzione che abbiamo iniziato a percorrere con questo film, e che stiamo proseguendo insieme al team di Laboratoriorosso in altri lavori, è quella di portare la fotografia a “espandere” le sue potenzialità narrative attraverso le tecniche d’animazione. Facciamo muovere gli oggetti, li vediamo da molto vicino, da prospettive inedite, facendoli funzionare un po’ come pagine illustrate di sequenze che rievocano la vita, la morte, il viaggio oltre le tenebre di quel faraone così effimero in vita e di così grande ispirazione per gli uomini del ventesimo e del ventunesimo secolo”.

Ci racconta un aneddoto o un oggetto particolarmente sorprendente nel quale si è imbattuto durante le riprese?
“Uno dei pezzi di cui mi sono innamorato è il guardiano in legno. Una statua alta quasi due metri e ricoperta in alcuni punti da un sottile strato d’oro. Il suo viso è di un’espressività quasi ipnotica. Fu ritrovata all’ingresso della camera sepolcrale di Tutankhamon. Il guardiano, che è a tutti gli effetti un ritratto ideale del faraone (ne simboleggia il ka, l’anima) non era mai stato mosso dal museo egizio da quando Carter l’aveva installato in una vetrina, poco meno di un secolo fa. Nessuno aveva un’idea davvero precisa del suo stato di conservazione e di come avrebbe reagito ad uno spostamento a quasi cento anni dal suo ultimo viaggio da Luxor al Cairo. Quando l’abbiamo spostato (e dico abbiamo perché anche noi, filmando quel momento ci siamo sentiti parte di quell’operazione) c’era una tensione palpabile tra operai e curatori".


Statua in legno del Guardiano del Ka con il copricapo di Nemes © Laboratoriorosso Productions | Courtesy Nexo Digital

E poi cos'è successo?
"Il guardiano è stato messo su una pedana mobile a rotelle e trasportato a mano con estrema delicatezza lungo i corridoi del museo fino al luogo dell’imballaggio. La statua si spostava quindi nei padiglioni del museo in posizione eretta. Ho percepito che filmarla seguendola di spalle aveva un senso del tutto nuovo, perché, posizionata com’era fino a quel momento nel museo egizio (contro un muro), nessun contemporaneo aveva mai visto il guardiano da quella prospettiva. Attorno alla statua eravamo una ventina di persone che si muovevano e la circondavano in silenzio, con concentrazione ma anche con estremo rispetto. Ho avuto l’impressione di trovarmi a filmare una sorta di processione pagana che mi ha ricordato in piccolo la processione della madonna nera del mio paese d’origine”.

Come si sviluppa il racconto cinematografico?
“Il racconto intreccia tre filoni narrativi. Il primo è la storia della scoperta, in cui facciamo ricorso a immagini e filmati d’archivio e ai diari di Howard Carter, lo scopritore della tomba, di cui rievochiamo la voce attraverso un attore. Ricordiamo che gli anni Venti videro un vero e proprio boom dei media, incluso il cinegiornale, e offrirono la possibilità di raccontare questo ritrovamento straordinario come non era mai stato fatto prima e questo generò anche le prime leggende metropolitane, come la maledizione di Tutankhamon e l’ondata di “Tutmania”, dove il faraone divenne protagonista di pezzi ballabili, di spot pubblicitari, della famosa mostra di repliche a Wembley, che fece infuriare Carter... Il secondo filone è quello delle sequenze animate costruite con le foto di Sandro Vannini, che ci danno la possibilità di esplorare gli oggetti del tesoro da prospettive assolutamente inedite. Queste sequenze ci portano più vicino al mondo di Tutankhamon, al senso dell’essere sepolto insieme a tutti quegli oggetti che fungevano da bagaglio per un viaggio ciclico e perpetuo nel mondo della Duat, l’oltretomba egizio.
A guidarci lungo questi viaggi è la voce di un testimone d’eccezione: Manuel Agnelli, che ha avuto la capacità di far crescere, col suo timbro vocale, quel mondo sospeso in una dimensione eterna e un po’ oscura".



Manuel Agnelli in "Tutankhamon. L'ultima mostra" © Laboratoriorosso Productions I Courtesy Nexo Digital

L’ultimo filone è quello del “qui e ora” della mostra. La sua macchina organizzativa, la sfida di fronte alla quale sono messi i curatori e il team logistico. In questi momenti c’è la possibilità di vedere gli oggetti da davvero molto vicino, osservare anche il lavoro dei restauratori che registrano ogni singola crepa, anche perché questi 150 pezzi hanno viaggiato con una polizza assicurativa da circa un miliardo di dollari e l’obiettivo prioritario era farli rientrare in Egitto nelle stesse esatte condizioni di come erano usciti”.

Cosa di Tutankhamon lo spettatore porterà per sempre con sé dopo aver visto il docufilm?
“Io credo che dopo quest’esperienza gli spettatori avranno imparato a guardare più in profondità al nome di Tutankhamon, comprendendo da un lato il senso del suo meraviglioso tesoro, e dall’altro di come la società occidentale abbia generato un mito contemporaneo sull’onda d’entusiasmo dei “roraring ‘20s”.

Il docufilm si sofferma anche sull’archeologo inglese autore della scoperta. Che cos’è che colpisce della figura di Howard Carter?
“Howard Carter era un autodidatta e nasceva come illustratore. All’epoca l’egittologia non era comunque una disciplina strutturata come oggi. Molti facoltosi uomini occidentali arrivavano nella Valle dei Re più con l’approccio dei cacciatori di tesori che degli archeologi. Nel film riproponiamo stralci dei diari di Carter e anche i bozzetti e le piantine della tomba che inventariò con cura maniacale. Carter impiegò dieci anni a catalogare e spostare dalla tomba tutti gli oggetti del tesoro. Dai materiali d’archivio si percepisce che fosse inizialmente stuzzicato da tutto il clamore mediatico legato alla scoperta: era l’uomo giusto al posto giusto. Nei filmati originali lo vediamo ad esempio sollevare la bombetta e imitare Charlot in segno di saluto e scherzo ai cineoperatori che lo riprendevano. Poi però l’importanza di quella scoperta sembrò tormentare la sua coscienza: ne sentiva chiaramente il peso. E la maniera in cui affrontò lo spostamento di quel tesoro, usando in maniera sistematica anche la fotografia come strumento di documentazione, credo abbia fatto scuola per le generazioni successive di egittologi”.



Tutankhamon. L'ultima mostra: Gold mask of the King © Laboratoriorosso Productions I Courtesy Nexo Digital

Quali sono state le difficoltà nell’affrontare e raccontare un personaggio così potente? E quali le difficoltà materiali durante le riprese?
“Raccontare Tutankhamon vuol dire affrontare il racconto di un “classico” della cultura popolare mondiale. Penso che la possibilità di viaggiare insieme ai suoi oggetti costituisca un unicum nelle esperienze documentaristiche legate al faraone. E poi, questo film è stato un percorso durato anni, che ha collezionato pezzo dopo pezzo una serie di tappe che sono parte integrante del “progetto Egitto” di Sandro Vannini che da fotografo ha accumulato migliaia di scatti sul tesoro e sul resto delle antichità egizie e a cui devo la scoperta del mondo dell’egittologia. Le difficoltà in fase di ripresa sono state tante perché bisognava sempre stare attenti a non pestare i piedi ai curatori e agli uomini del team logistico. Muoversi con microfoni e telecamere nel mezzo di una macchina logistica comporta sempre diversi rischi, in primis per la sicurezza dei pezzi del tesoro. Per fortuna non è avvenuto nessun incidente. Tutankhamon ci ha protetti, o forse ha protetto il suo tesoro”.

La Grande Arte al Cinema è un progetto originale ed esclusivo di Nexo Digital. Per il 2022 la Grande Arte al Cinema è distribuita in esclusiva per l’Italia da Nexo Digital con i media partner Radio Capital, Sky Arte, MYmovies.it e in collaborazione con Abbonamento Musei.


Tutankhamon. L'ultima mostra: la Valle dei Re © Laboratoriorosso Productions I Courtesy Nexo Digital

 Leggi anche:
• Tra storia e mito. Il mistero di Tutankhamon diventa un film
• FOTO - Tutankhamon. L’ultima mostra
• Nel regno di Tutankhamon al Grand Egyptian Museum di Giza
• Gli archeofisici italiani alla ricerca di Nefertiti

COMMENTI