Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma fino al 30 gennaio

Antonietta Raphaël, la "straniera del paesaggio", si racconta attraverso lo specchio

Antonietta Raphaël, Autoritratto scrivendo una lettera a Mario, 1942, Olio su tela, 84 x 123 cm, Collezione privata, Roma | Courtesy Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea
 

Samantha De Martin

18/11/2021

Roma - Con la sua valigia carica di echi di un Oriente mitico e lontano, l’amato violino avvolto in un tappeto berbero, la prima edizione dell’Ulisse di Joyce e, in un telo di lino, la ‘Hanukkiah, eredità della forte spiritualità ebraica, Antonietta Raphaël nel 1924 lasciava Londra per arrivare a Parigi e poi, dalla Costa Azzurra, puntare dritta verso Roma.
E proprio nelle sonnacchiose e stagnanti acque dell’arte romana di quegli anni, la pittrice e scultrice di origini lituane avrebbe provocato una svolta profonda.
Rimasta orfana a cinque anni, arrivata a Londra come emigrante dopo aver lasciato la terra dello Zar di tutte le Russie, senza documenti, senza casa né lingua, Raphaël aveva rotto con il passato e la famiglia ortodossa, aveva scorciato le gonne, tagliato i capelli, studiato con impegno, per trasformarsi in una rivoluzionaria controcorrente.
Attraverso queste storie tradotte in pittura l’esponente di spicco della Scuola romana si racconta, fino al 30 gennaio, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, tra dipinti, sculture e opere su carta, accompagnati da documenti, fotografie di famiglia, lettere e pagine dei suoi diari, una selezione di opere del compagno di una vita Mario Mafai e un video documentario inedito realizzato per la mostra.


Antonietta Raphaël, La sognatrice, 1946, gesso, Roma,  Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

“Ogni dipinto della Raphaël è uno specchio sul quale la pittrice si china per vederci riflessa la propria immagine” scriveva nel 1970 Alberto Moravia. E proprio questo specchio, inteso come autorappresentazione, sdoppiamento, diventa il filo conduttore di un percorso espositivo che esplora la ricca produzione dell’artista, con una serie di nuclei tematici individuati dalle curatrici Giorgia Calò e Alessandra Troncone.
Lo specchio allude all’attitudine di Raphaël a trasformare la pratica artistica in uno strumento di indagine sul proprio mondo interiore, evocando dimensioni oniriche che vedono protagonista la figura femminile.
“Questa mostra - commenta Cristiana Collu, direttrice della Galleria Nazionale - restituisce i frammenti di un corpus di opere molto articolato e di una vita intensa, devota all’arte. Racconta di un’artista che ha detto la verità, in modo olimpico, animale senza illusioni, con ferocia e con determinazione”.


Antonietta Raphaël, Sirena, 1943, Olio su tavola, 33 x 20 cm, Galleria del Laocoonte, Roma/Londra | Courtesy Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea

Attraverso una serie di nuclei tematici, che spaziano dall’autoritratto ai concetti chiave della femminilità e maternità, senza tralasciare le origini ebraiche e gettando infine uno sguardo alle personalità cruciali della sua epoca, dagli artisti Giacomo Manzù e Renato Guttuso ai mecenati e collezionisti che hanno sostenuto la sua pratica, la mostra offre un’immagine sfaccettata della pittrice. Tralasciando un andamento cronologico, il percorso si sviluppa per sezioni impostate su specifici temi. Se l’Autoritratto con tuta blu degli anni Quaranta - che introduce lo sguardo “alternativo” dell’artista sul suo lavoro e sulla scultura - vede Raphaël all’opera con gli strumenti da lavoro, i ritratti dedicati alle figlie Miriam, Simona e Giulia, le Tre sorelle, alle quali è dedicata la scultura omonima del 1936, elevano la donna a Dio per la medesima capacità di “creare qualcosa dal nulla”.


Antonietta Raphaël, Autoritratto con tuta blu, 1940 ca., Olio su tavola, 63 x 77 cm, Galleria del Laocoonte, Roma/Londra | Courtesy Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea

Le origini lituane ed ebraiche trovano invece espressione nei ritratti intensi dei genitori, Mio padre e Mia madre (1932-1958), nel dipinto Mia madre, ma anche nelle figure di Giuditta e Tamar, eroine bibliche capaci di sovvertire un contesto dominato da logiche patriarcali, o ancora nelle sculture Re David piange la morte di Assalonne (1947-69) e in Salomè (1969).

La mostra è anche l’occasione per rendere omaggio a una delle figlie dell’artista, Giulia Mafai, scomparsa lo scorso 25 settembre, che ha fortemente creduto nel progetto.
Mario Mafai, compagno di Antonietta, nella vita e nell’arte, è presente nel percorso attraverso diverse opere, come il Ritratto di Mario (1928), nel quale Raphaël dipinge il compagno intento a disegnare un suo ritratto, o Lezione di piano di Mafai (1934) che evidenzia l’importante ruolo della musica nella vita di Antonietta. Il confronto si gioca anche nei rispettivi studi d’artista: Mario dipinge Antonietta in abito da sera nel suo studio di scultura (Antonietta nello studio di scultura, 1934) mentre Raphaël, all’indomani della sua morte, dedica al pittore un ultimo omaggio ritraendolo mentre dipinge una natura morta (Mafai nello studio, 1966).


Antonietta Raphaël, Ritratto di Mario, 1928, Olio su tela, 48.5 x 67.5, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea

L’incontro con Antonietta - “fiera, solare, salutista, senza un filo di trucco, i piedi nudi nei sandali anche in pieno inverno, un’ingenua assetata di vita quando in quegli anni era di moda mostrarsi “scettici”, annoiati di tutto”, come la descriveva lo stesso Mafai - fu casuale. Questa “straniera di passaggio” portò fuori  il timido, riservato Mario dal mondo polveroso, piccolo borghese dal quale la famiglia di origine contadina cercava faticosamente di liberarsi.

“Due cose mi tormentavano da piccola: la religione e il sogno”, scriveva Raphaël nel suo diario. Tormenti che prendono colore in opere come La sognatrice (1942-45), Poltrona verde: l’incubo (1950) e Io e i miei fantasmi (1961).
La mostra è aperta dal martedì alla domenica dalle 9 alle 19, con ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura.

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