Le donne del digiuno contro la mafia. Fotografie di Francesco Francaviglia
Dal 13 Ottobre 2014 al 09 Novembre 2014
Firenze
Luogo: Galleria degli Uffizi
Indirizzo: piazzale degli Uffizi 6
Orari: da martedì a domenica 10-17
Curatori: Tiziana Faraoni, Audio project Giuditta Perriera e Carlo Gargano
Enti promotori:
- MiBACT
- SSPAE PMCF
- Città di Palermo - Assessorato alla Cultura
- Galleria degli Uffizi
Costo del biglietto: ingresso gratuito
E-Mail info: info@polomuseale.firenze.it
Sito ufficiale: http://polomuseale.firenze.it
Ci sono due opere che agli Uffizi badano a serbare memoria tangibile dell’attentato mafioso del 27 maggio 1993. Memorie lasciate a chi nel tempo verrà in Galleria e non avrà nozione della tragedia di quella notte. La nostra è, infatti, una stagione portata a dimenticare. E non ci sono garanzie che in futuro l’inclinazione muti. D’altronde è fors’anche comprensibile che la mente istintivamente si chiuda al ricordo d’una sofferenza troppo grande. Ma a questo servono i poeti: a elevare gli accadimenti (anche quelli più drammatici) dalla contingenza cruda all’aura sospesa degli affetti.
A metà della scala di pietra serena che dal corridoio di ponente scende per immettere nella via aerea che Vasari s’inventò per collegare gli Uffizi a Palazzo Pitti – là dove i gradini per un breve tratto si fermano – s’alza (ora, come nella caligine cupa del ‘93) l’Adorazione dei pastori dipinta fra il 1619 e il 1620 da Gherardo della Notti per l’abside della chiesa di Santa Felicita (chiesa su cui il percorso vasariano prospetta dalla controfacciata). Quella tela – non lacerata dai vetri esplosi, ma abrasa dalla furia d’un vento di tempesta – subito parve, alla luce delle fotocellule, irrimediabilmente, e per intero, guastata. Né, col giorno che venne, il senso della perdita si ridimensionò. Fu, anzi, lampante la devastazione. Al segno che quel quadro monumentale rischiò un confino senza speranze nei vani della riserva del museo.
Ma, passati i mesi di tanti restauri, quella stessa tela reclamò una considerazione nuova: nel buio d’un cielo caravaggesco, che le veline messe immediatamente dopo l’attentato inducevano a reputare totalmente scomparso, si manifestò, come in un’epifania inattesa, uno spazio di conservazione intatta; che, viepiù allargato, dette adito alla fiducia in un pur flebile risarcimento. Da lì partì un intervento che portò al recupero di quasi metà del colore. Una metà purtroppo casuale, però; da cui usciva penalizzato proprio il fulcro della figurazione: a principiare dal bimbo sul giaciglio di paglia, che in origine era la fonte di luce, quella che illuminava nelle tenebre i volti di Maria e dei convenuti chiamati dagli angeli.
Qualche superstite lacerto d’anatomia tuttora gode dei riverberi di quel lume (come càpita dopo che una stella s’è spenta, e per anni la luce séguita a pioverne). La poesia non è più quella d’un testo compiuto; ma lo stesso s’avverte. E forse ancor più struggente: alla stregua d’un epigramma mutilo, che la testa e il cuore del lettore, commossi ricuciono. Chi entri dunque nel Corridoio vasariano è toccato da quell’Adorazione, ch’è lì accompagnata dalle parole di Mario Luzi incise nella pietra: ricordo indelebile dei crimini di cui l’uomo è capace, ma anche segno d’una volontà di riscatto.
Il medesimo spirito è sotteso al bronzo dorato di Roberto Barni che s’è voluto collocare sulla parete esterna del museo prospiciente al luogo dove l’esplosivo fu posto. Un uomo – di grandezza quanto il vivo – avanza su una lama ficcata nella parete a più di venti metri da terra. Sul suo corpo parimenti incedono le cinque animule di chi in quella notte perse la vita: vittime innocenti del caso. Un caso però prodotto dalla mente scellerata di gente che voleva colpire lo Stato (annichilendone il patrimonio) e non si dette cura dei morti che ne sarebbero tuttavia venuti. L’uomo d’oro cammina coi suoi compagni di viaggio, movendosi in alto, e la luce del sole lo fa brillare agli occhi dei riguardanti. Quando poi il giorno declina e si fa buio, una luce s’accende, sul muro dipingendo un occhio luminoso di cui è lui il fulcro. Per tutte le ventiquattr’ore, chiunque sosti nella piccola strada dei Georgofili e si commuova leggendo l’epigrafe incassata nell’intonaco d’una dimora contigua, ricostruita dopo il crollo, potrà volgere lo sguardo all’insù e indovinare nella bronzea scultura un monito e insieme un auspicio per gli operatori di pace.
Ecco, oggi, in virtù delle fotografie di Francesco Francaviglia, i volti d’alcuni di quelli operatori si manifestano a noi. Volti di donne coraggiose che vent’anni or sono, disprezzando il male (compreso quello che poteva per ritorsione ricadere su di loro), si schierarono a viso aperto contro la criminalità empia e brutale che insanguinava quella stagione (e tuttora insanguina e corrompe). Volti che il trascorrere del tempo ha solcato di rughe; ma pur sempre belli. Belli d’una fierezza antica. Fisionomie ineluttabilmente mutate; e però, proprio per questo, in grado d’attestare che l’audacia, la ribellione, la resistenza, rimangono le stesse.
Il coraggio e la generosità, d’altronde, sono virtù che allignano nell’animo delle donne. E quasi d’istinto alla mente torna quello che capitò dopo la morte di Cristo. La sconfitta, la paura, l’inutilità di tutto quanto era stato detto e fatto, pervasero il cuore degli uomini ch’erano stati fino a poco prima con Gesù e ne provocarono lo sconcerto e la fuga. Eppure era dalla sua bocca medesima che avevano saputo ciò che avrebbero dovuto affrontare. Ma l’incapacità d’intendere appieno le parole di lui e lo sgomento per quella morte scandalosa a cui non avevano saputo rassegnarsi, li aveva sopraffatti. Le donne no. Sentono la durezza del colpo inferto; ma lo reggono.
Loro non fuggono. Accettano l’accaduto, fiduciose che le promesse sarebbero state mantenute. Vanno al sepolcro e lo trovano vuoto. L’angelo le avverte di quanto era successo e loro, dopo un attimo di smarrimento inevitabile, credono a quella notizia prodigiosa. Sono le donne a rivelare agli uomini, esitanti e impauriti, la verità umanamente inammissibile della resurrezione e a infondere nei loro cuori vacillanti una speranza nuova.
I volti di quelle donne di Palestina, provate dal dolore per una perdita insopportabile e però animate da un ardimento risoluto, me li figuro oggi con le fattezze severe delle ‘donne del digiuno’, che Francaviglia ha impresso nei suoi ritratti vibranti di lirica alta.
A metà della scala di pietra serena che dal corridoio di ponente scende per immettere nella via aerea che Vasari s’inventò per collegare gli Uffizi a Palazzo Pitti – là dove i gradini per un breve tratto si fermano – s’alza (ora, come nella caligine cupa del ‘93) l’Adorazione dei pastori dipinta fra il 1619 e il 1620 da Gherardo della Notti per l’abside della chiesa di Santa Felicita (chiesa su cui il percorso vasariano prospetta dalla controfacciata). Quella tela – non lacerata dai vetri esplosi, ma abrasa dalla furia d’un vento di tempesta – subito parve, alla luce delle fotocellule, irrimediabilmente, e per intero, guastata. Né, col giorno che venne, il senso della perdita si ridimensionò. Fu, anzi, lampante la devastazione. Al segno che quel quadro monumentale rischiò un confino senza speranze nei vani della riserva del museo.
Ma, passati i mesi di tanti restauri, quella stessa tela reclamò una considerazione nuova: nel buio d’un cielo caravaggesco, che le veline messe immediatamente dopo l’attentato inducevano a reputare totalmente scomparso, si manifestò, come in un’epifania inattesa, uno spazio di conservazione intatta; che, viepiù allargato, dette adito alla fiducia in un pur flebile risarcimento. Da lì partì un intervento che portò al recupero di quasi metà del colore. Una metà purtroppo casuale, però; da cui usciva penalizzato proprio il fulcro della figurazione: a principiare dal bimbo sul giaciglio di paglia, che in origine era la fonte di luce, quella che illuminava nelle tenebre i volti di Maria e dei convenuti chiamati dagli angeli.
Qualche superstite lacerto d’anatomia tuttora gode dei riverberi di quel lume (come càpita dopo che una stella s’è spenta, e per anni la luce séguita a pioverne). La poesia non è più quella d’un testo compiuto; ma lo stesso s’avverte. E forse ancor più struggente: alla stregua d’un epigramma mutilo, che la testa e il cuore del lettore, commossi ricuciono. Chi entri dunque nel Corridoio vasariano è toccato da quell’Adorazione, ch’è lì accompagnata dalle parole di Mario Luzi incise nella pietra: ricordo indelebile dei crimini di cui l’uomo è capace, ma anche segno d’una volontà di riscatto.
Il medesimo spirito è sotteso al bronzo dorato di Roberto Barni che s’è voluto collocare sulla parete esterna del museo prospiciente al luogo dove l’esplosivo fu posto. Un uomo – di grandezza quanto il vivo – avanza su una lama ficcata nella parete a più di venti metri da terra. Sul suo corpo parimenti incedono le cinque animule di chi in quella notte perse la vita: vittime innocenti del caso. Un caso però prodotto dalla mente scellerata di gente che voleva colpire lo Stato (annichilendone il patrimonio) e non si dette cura dei morti che ne sarebbero tuttavia venuti. L’uomo d’oro cammina coi suoi compagni di viaggio, movendosi in alto, e la luce del sole lo fa brillare agli occhi dei riguardanti. Quando poi il giorno declina e si fa buio, una luce s’accende, sul muro dipingendo un occhio luminoso di cui è lui il fulcro. Per tutte le ventiquattr’ore, chiunque sosti nella piccola strada dei Georgofili e si commuova leggendo l’epigrafe incassata nell’intonaco d’una dimora contigua, ricostruita dopo il crollo, potrà volgere lo sguardo all’insù e indovinare nella bronzea scultura un monito e insieme un auspicio per gli operatori di pace.
Ecco, oggi, in virtù delle fotografie di Francesco Francaviglia, i volti d’alcuni di quelli operatori si manifestano a noi. Volti di donne coraggiose che vent’anni or sono, disprezzando il male (compreso quello che poteva per ritorsione ricadere su di loro), si schierarono a viso aperto contro la criminalità empia e brutale che insanguinava quella stagione (e tuttora insanguina e corrompe). Volti che il trascorrere del tempo ha solcato di rughe; ma pur sempre belli. Belli d’una fierezza antica. Fisionomie ineluttabilmente mutate; e però, proprio per questo, in grado d’attestare che l’audacia, la ribellione, la resistenza, rimangono le stesse.
Il coraggio e la generosità, d’altronde, sono virtù che allignano nell’animo delle donne. E quasi d’istinto alla mente torna quello che capitò dopo la morte di Cristo. La sconfitta, la paura, l’inutilità di tutto quanto era stato detto e fatto, pervasero il cuore degli uomini ch’erano stati fino a poco prima con Gesù e ne provocarono lo sconcerto e la fuga. Eppure era dalla sua bocca medesima che avevano saputo ciò che avrebbero dovuto affrontare. Ma l’incapacità d’intendere appieno le parole di lui e lo sgomento per quella morte scandalosa a cui non avevano saputo rassegnarsi, li aveva sopraffatti. Le donne no. Sentono la durezza del colpo inferto; ma lo reggono.
Loro non fuggono. Accettano l’accaduto, fiduciose che le promesse sarebbero state mantenute. Vanno al sepolcro e lo trovano vuoto. L’angelo le avverte di quanto era successo e loro, dopo un attimo di smarrimento inevitabile, credono a quella notizia prodigiosa. Sono le donne a rivelare agli uomini, esitanti e impauriti, la verità umanamente inammissibile della resurrezione e a infondere nei loro cuori vacillanti una speranza nuova.
I volti di quelle donne di Palestina, provate dal dolore per una perdita insopportabile e però animate da un ardimento risoluto, me li figuro oggi con le fattezze severe delle ‘donne del digiuno’, che Francaviglia ha impresso nei suoi ritratti vibranti di lirica alta.
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