Activism. Giovane Fotografia Italiana #06

© Marina Caneve | Marina Caneve, Are they rocks or clouds, 2018

 

Dal 20 Aprile 2018 al 17 Giugno 2018

Reggio nell'Emilia | Reggio Emilia

Luogo: Spazio U30Cinque

Indirizzo: piazza Scapinelli

Curatori: Daniele De Luigi

Enti promotori:

  • Comune di Reggio Emilia
  • GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani



Activism  
Marina Caneve, Alice Caracciolo e Cemre Yesil, Valeria Cherchi, Tomaso Clavarino, Lorenza Demata, Carlo Lombardi, Zoe Paterniani
 
Progetti selezionati da Daniele De Luigi, Carine Dolek, Shoair Mavlian
Promosso da Comune di Reggio Emilia, GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani, in collaborazione con  Fetart - Circulation(s) Festival de la Jeune Photographie Européenne di Parigi, Photoworks - Brighton Photo Biennial e Fondazione Palazzo Magnani - Fotografia Europea. Iniziativa co-finanziata da Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale e ANCI. Con il contributo di Reire s.r.l.

Marina Caneve
Are they Rocks or Clouds?

Marina Caneve (Belluno, 1988) è un’artista visiva che lavora con un approccio interdisciplinare. Si è laureata allo IUAV – Università di Architettura di Venezia, 2013 e alla KABK – Royal Academy of Arts, Den Haag, 2017. Il suo lavoro è stato esposto in ambito internazionale in istituzioni quali Fondazione Bevilacqua La Masa, La Biennale di Venezia, la galleria Matèria, ALT.+1000, Svizzera, 2015, Fondazione Benetton di Treviso, Savignano Immagini Festival.
Il dummy Are they Rocks or Clouds? è stato nominato nel 2017 per l’Unseen Dummy Award e La Fàbrica – Photo London Book Dummy. Successivamente è stato esposto ad Amsterdam, e nel 2018 a Londra e Madrid. Con il progetto Bridges are Beautiful è stata nominata per una residenza artistica presso Docking Station, Amsterdam, primavera 2018. Marina Caneve è co-fondatrice di CALAMITA/Á, una piattaforma di ricerca che pone la sua attenzione sui temi delle catastrofi, i grossi cambiamenti, la memoria e la politica. Nel 2016 ha curato la pubblicazione di The Walking Mountain/CALAMITA/Á.
 
Are they Rocks or Clouds? è un’indagine territoriale nelle Dolomiti che mira, attraverso l’interazione tra osservazione, memoria e scienza, alla costruzione di una conoscenza del rischio idrogeologico. I concetti messi in gioco sono quelli della contaminazione, l’overlayering e la mappa spaziale.
Allontanandoci da una naturale fascinazione per la montagna il progetto osserva con lucidità il territorio, ricercando la possibilità di misurazione del rischio per gli abitanti dei luoghi dove è supposta accadere una catastrofe. 
Nel corso del tempo - secondo Amitav Ghosh in La grande cecità - la natura è stata consegnata alla scienza, rimanendo preclusa alla cultura. Non siamo finiti in questa condizione per un abbaglio: l’abisso che oggi divide la natura dalla cultura è il risultato di uno degli impulsi originari della modernità. Una divisione che ha portato al distacco dell’arte dalle questioni scientifiche, climatiche e dal dibattito politico e culturale. Are they Rocks or Clouds? sperimenta l’utilizzo della fotografia come strumento di osservazione autonomo all’interno di un processo di ricerca interdisciplinare, mettendo in discussione la sua stessa collocazione nei confronti degli altri strumenti.
Le catastrofi naturali hanno tempi di ritorno ciclici. In particolare, secondo alcuni studi geologici, la catastrofe idrogeologica del 1966 avrà un tempo di ritorno di 100 anni, 50 da oggi. I danni stimati saranno 2 o 3 volte superiori. Il progetto nasce in vista di tale evento ed è realizzato in collaborazione con il geologo Emiliano Oddone e l’antropologo Annibale Salsa.
Alice Caracciolo e Cemre Yeşil
Piet[r]à

Alice Caracciolo (Pisa, 1986)ha conseguito la laurea in storia dell'arte e un diploma in fotografia e visual design. I suoi lavori sono stati recentemente selezionati al Guernsey Photography Festival, Dummy Book Award, 999. Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo promosso da MiBACT/La Triennale di Milano/MUFOCO. I suoi lavori sono stati pubblicati su “Icon”, “YET Magazine”, “iGNANT”, “PHmuseum”, “Phroom magazine”, “Documentary Platform”. È docente di fotografia, redattrice editoriale e co-fondatrice di LO.FT, uno spazio polifunzionale dedicato alla fotografia contemporanea, a Lecce. 
Cemre Yesil (Istanbul, 1987) è una fotografa turca che vive a Istanbul. Si è diplomata in fotografia e successivamente in arti visive presso la Sabanci University. È stata nominata nel 2014 al Paul Huf Award e nel 2016 al ING Unseen Talent Award, il Lead Awards, il Prix du Livre d'Auteur de Les Rencontres d'Arles. Le sue recenti pubblicazioni includono OCC Retrospective,  in “Orta Format Magazine”, The House We Used to Call HomeFor Birds Sake con Maria Sturm - La Fabrica, Piet[r]à, 2017. Ha fondato FiLBooks a Karaköy, Istanbul, uno spazio dedicato ai libri fotografici, che accoglie talk e workshop con artisti. Insegna fotografia presso la Istanbul Bilgi University e la Koç University.
Dal 2017 Alice e Cemre lavorano insieme per promuovere il progetto Piet[r]à, commissionato dalla Sezione Turismo Regione Puglia lo stesso anno. 
 
Castro, seconda metà del '400. Le coste di questo piccolo borgo sono messe a dura prova dai costanti saccheggi turchi. Alice Caracciolo e Cemre Yesil si confrontano a 600 anni di distanza, prendendo spunto dalla leggenda La moglie del turco. Le autrici indagano il valore mistico e spirituale della pietra, il suo essere custode silenzioso del nostro passato, come una torre di avvistamento durante le incursioni turche all’interno di una terra-ventre, il suo corrodersi e farsi granello di sabbia, pronto a essere mosso dal vento verso direzioni ignote, il suo essere roccia e grotta primordiale che contiene segreti. Le pietre sono rese vive dall’uomo che le ha rivestite di valori importanti, storia collettiva. Piet[r]à è anche una storia d’immigrazione. L'immigrato di Piet[r]à è una donna, è il popolo castriota e quello turco. I personaggi di questa storia hanno un mondo del passato cui ne appartiene uno del presente. Il processo d’integrazione in Piet[r]à è interrotto da diversi fattori: convinzioni popolari, usi e costumi degli antichi popoli, istituzioni antropologiche ancora oggi ben radicate. La donna diventa “oggetto” di scambio, di contesa, o redenzione dai peccati? E lo straniero, in fondo, chi è? Piet[r]à svela una storia le cui radici si trovano nella ricerca di contatto tra popoli, costantemente interrotta dall'impossibilità degli uomini di scendere a compromessi. La storia si ripete uguale a se stessa, anche a distanza di secoli.

Valeria Cherchi
Some of you killed Luisa
 
Valeria Cherchi (Sassari, 1986) è laureata in Disegno Industriale alla Sapienza di Roma e ha conseguito un master in Fashion Photography all’University of The Arts London. Nel 2016 è stata selezionata per l’ISSP International Masterclass di Simon Norfolk. La sua ricerca fotografica si sviluppa su temi sociali e culturali, motivata dalla necessità di esplorare temi come tempo, memoria e storia, connessi alle sue esperienze personali. È interessata a storie vere e tangibili che ama raccontare attraverso la complessità dei protagonisti, spesso unendo fotografia e testo. Vive e lavora a Milano. 
 
16 giugno 1992: Don Monni trova parte di un orecchio umano sul ciglio di una strada in Barbagia, Sardegna centrale. Un ragazzino, Farouk Kassam, trascorre il suo quinto mese in una grotta, prigioniero di un gruppo di sconosciuti mascherati. Nei balconi del mio paese sventolano lenzuola bianche in segno di solidarietà. Abbiamo più o meno la stessa età, sei anni, e come la maggior parte dei bambini anche io ho il terrore di essere rapita. Undici anni più tardi Luisa Manfredi si affaccia al balcone della sua casa e viene uccisa con una fucilata. Aveva 14 anni ed era la figlia di Matteo Boe, il rapitore di Farouk. Nessuno è stato mai condannato per il suo omicidio che rimane, ancora oggi, un mistero.
Tra il 1960 e il 1997, in Sardegna 162 persone sono state rapite a scopo di estorsione. L’ Anonima sequestri sarda seguiva inizialmente una serie di norme non scritte chiamate Il Codice barbaricino: una sorta di giustizia parallela sancita per preservare l’onore e la dignità dell’individuo. 
Lo scopo del progetto è quello di provare ad analizzare e capire la complessa struttura del fenomeno dei rapimenti in Sardegna. Il processo inizia con una ricerca all’interno delle piccole comunità sarde, ancora segnate da un passato di isolamento e colonizzazione. Si evolve poi verso un livello individuale, riflettendo sulla disperazione di due madri: una inerme rispetto al destino del figlio rapito, l’altra incapace di rendere giustizia alla figlia uccisa.
La storia viene raccontata attraverso screenshots di archivi video familiari e di notiziari su casi di rapimento; include anche scatti effettuati durante il processo di ricerca in Barbagia e immagini ispirate a memorie dei rapiti. Inoltre il progetto raccoglie gli scritti che raccontano l’indagine, incluse le mie difficoltà nell’abbattere il muro di omertà presente tuttora.
 
Tomaso Clavarino
Confiteor (io confesso)
 
Tomaso Clavarino (Torino, 1986) è un fotografo documentarista con una laurea in Storia Contemporanea. Dopo alcuni anni passati a lavorare come giornalista e redattore per le maggiori testate italiane ha deciso di concentrarsi sulla fotografia. A partire dal 2014 i suoi lavori sono stati pubblicati su numerose riviste, quotidiani e media, sia internazionali che italiani, tra i quali “Newsweek”, “Washington Post”, “The Atlantic”, “Der Spiegel”, “Al Jazeera”, “Vice”, “Vanity Fair”, “The Guardian”, “D-La Repubblica”, “Internazionale”, “SportWeek”.
Parallelamente ai lavori per media e magazine sviluppa progetti più personali e a lungo termine che sono stati esposti in gallerie, festival e spazi pubblici. Nel corso degli anni ha ricevuto svariati finanziamenti da fondazioni ed istituzioni, tra le quali il Pulitzer Center e lo European Journalism Center/Bill&Melinda Gates Foundation. È co-fondatore del collettivo Latitude Visual, un laboratorio di produzione multimediale.
 
A partire dal 2004 più di 3.500 casi di abusi su minori commessi da preti e membri della Chiesa sono stati riportati al Vaticano che ha intrapreso quasi 2.500 azioni disciplinari. Papa Francesco ha rivelato, in un’intervista, che un prete ogni cinquanta è pedofilo, comparando la pedofilia alla lebbra che infesta la Chiesa.
Nel 2014 un report delle Nazioni Unite ha accusato il Vaticano di adottare sistematicamente azioni che hanno permesso a preti e membri della Chiesa di abusare e molestare migliaia di bambini in tutto il mondo, non denunciando i casi alle autorità e trasferendo i colpevoli in nuove diocesi, dove potevano commettere nuovamente abusi. 
Centinaia di casi sono stati commessi, e continuano ad essere commessi, in Italia, dove l’influenza del Vaticano è più forte che altrove, e pervade vari livelli della società italiana.
Spesso gli abusi cadono nel silenzio, i casi vengono nascosti, le vittime hanno paura di far sentire la loro voce. Hanno paura della reazione delle persone, dei loro cari, dei loro amici, delle comunità nelle quali vivono. Le vittime sono barricate in un silenzio agonizzante, non vogliono far sapere nulla sulle violenze che hanno subito. Costretti a vivere con un peso che si porteranno dentro tutta la vita, incapaci di dimenticare il passato. Le ferite sono profonde, le memorie pesanti, il silenzio assordante.
Confiteor è un viaggio in queste memorie, in queste ferite, in questi silenzi.
  Lorenza Demata 
It all started when some of us left the Country

Lorenza (Lori) Demata (Napoli, 1988) è una fotografa e artista visiva. Cresciuta a Firenze, si è laureata nel 2012 in Cooperazione Internazionale e Gestione dei Conflitti. Ha frequentato il corso triennale di fotografia presso la Fondazione Studio Marangoni di Firenze e si è laureata nel 2016. Attualmente vive a Londra, dove lavora come freelance, dopo il master in Fotografia, 2017, al London College of Communication.
Le sue aree di interesse sono la fotografia documentaria, scenica e concettuale. Il suo lavoro è principalmente dedicato all'analisi di rilevanti temi sociali e problemi di identità.
Ha lavorato e collaborato con diversi artisti, fotografi e istituzioni tra Firenze e Londra: Estorick Collection, La Compagnia, 50 Giorni di Cinema Internazionale, Korea Film Festival, RiveGauche ArteCinema, Coexist Store, Giorgio Barrera, PrimoToys, Unseen Photo Festival Residency, Lana Mesic, Marie Camara, Nodo.
 
Si stima che gli stranieri costituiscano approssimativamente il 40% della popolazione totale di Londra. Allo stesso tempo, nel Regno Unito quasi il 50% del consumo totale di risorse alimentari dipende dall'importazione di frutta e verdura da altri paesi.
Questo progetto è un'investigazione sul concetto di identità nel contesto migratorio contemporaneo.
Il dislocamento di risorse umane viene esplorato tramite un'analogia visiva con frutta e verdura d'importazione. Creando questa relazione parallela tra persone e merci alimentari, Lorenza intende mettere allo scoperto il processo di ridefinizione dell'identità, che spesso avviene nell'esperienza degli espatriati.
Questa serie fotografica chiede allo spettatore di riflettere criticamente sul ruolo della forza lavoro umana nel contesto politico delle migrazioni globali.
  Carlo Lombardi
 
Dead Sea
 
Carlo Lombardi (Pescara, 1988) è un fotografo freelance che si occupa di progetti indipendenti a lungo termine affidandosi al linguaggio della fotografia contemporanea. Il suo metodo si fonda su un indefinito periodo di studio, ricerca e classificazione di tutti gli elementi necessari a definire una storia. Il suo interesse si focalizza sulla complessa relazione che esiste tra l’uomo e l’ambiente e sull’esplorazione della loro fragilità. Nel 2015 ha completato Jörg e Cam, un progetto fotografico a cui è giunto dopo l’incontro con Jörg e Cam, che ha suscitato il desiderio di raccontare la loro intima relazione. Nel 2016 ha iniziato a lavorare su Dead sea.
 
Dead Seaè una ricerca sulle cause che stanno portando all'estinzione della tartaruga Caretta caretta nel bacino del Mediterraneo. Questi animali sono sensibili a molte delle attività umane: l'antropizzazione delle coste, la cementificazione, il disorientamento causato dalla luce artificiale nei siti di riproduzione, l'inquinamento, i patogeni, il riscaldamento globale il turismo e la pesca accidentale costituiscono le principali minacce per questa specie. 
 
La Caretta caretta è diffusa nei mari e negli oceani di tutto il mondo e sceglie di nidificare nelle regioni temperate e subtropicali. Dal 2015 è stata inserita nella lista rossa dell'IUCN ed è stata classificata come vulnerabile: si stima infatti che la popolazione mondiale sia in diminuzione. La subpopolazione del Mediterraneo si sviluppa maggiormente lungo le coste del bacino orientale, con pochi nidi registrati nel bacino occidentale. Ogni anno si contano circa 150 mila catture e 40 mila morti dovute, appunto, alla pesca ma anche alla collisione con le barche e all’ingestione di pezzi di plastica. Ma se l'uomo in questa storia ha il ruolo di carnefice, possiede anche tutti gli strumenti per porre fine a questo massacro: esiste una rete di professionisti che si adoperano gratuitamente nelle molteplici attività di ricerca, raccolta dati, divulgazione e sensibilizzazione. Ogni anno grazie al  loro intervento vengono salvati e rilasciati in mare centinaia di esemplari. 
 
Zoe Paterniani 
 
Jordan General Elections 16
 
Zoe Paterniani (Pesaro, 1991) dopo la laurea magistrale in Arti visive presso l’Università di Bologna, consegue nel 2017 il Master di alta formazione per l’immagine contemporanea presso Fondazione Fotografia Modena. Nel settembre del 2016 è stata in residenza per due mesi presso Darat al Funun, importante centro per la promozione dell’arte contemporanea in tutto il Medio Oriente, con sede ad Amman, Giordania. Nel 2017 ha vinto lo European Photography Award e il Premio Gajani. Attualmente collabora con L’Artiere Edizioni e con l’associazione Nelumbo Asian Fine Arts all’organizzazione di mostre e residenze.  Nella sua ricerca l’immagine fotografica è intesa come esito di un processo performativo e diventa spesso un frammento all’interno di strutture editoriali o installative eterogenee e più complesse. 
 
Quando sono atterrata ad Amman il 1° settembre 2016, le elezioni parlamentari erano alle porte. Lungo la strada che dall’aeroporto Queen Alia arriva al centro abitato, ho visto centinaia di manifesti elettorali. Amman è molte città insieme, non ci sono viali rettilinei e piazze ordinate a separare i quartieri: zone completamente differenti per cultura e architettura si compenetrano e si spalmano le une sulle altre al di là di ogni concetto di confine reale o presunto. Mentre cercavo un orientamento i volti fuorimisura dei candidati che colonizzavano la città, sono stati il mio filo rosso, l’unico elemento di congiunzione fra aree lontanissime e socialmente opposte fra loro, mentre per molti cittadini giordani sembravano passare inosservati. Il contenitore più ovvio per quella che credo sia una mappa temporanea della città, fatta di punti cardinali transitori e impermanenti, è una installazione che dia conto della riflessione a posteriori sulle modalità di rappresentazione del potere: l’immagine istituzionale e storicizzata, quella delle stanze spettrali del vecchio palazzo del parlamento è contrapposta alle immagini della campagna elettorale, destinate ad essere scelte e riordinate secondo le opinioni e le necessità, e consumate lentamente fino a sparire, come esito di un processo di riappropriazione.

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