Quello che non ricordi, diventi. Luca Grimaldi, Fabio Ranzolin
Dal 22 Aprile 2021 al 22 Maggio 2021
Roma
Luogo: White Noise Gallery
Indirizzo: Via della Seggiola 9
Curatori: Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti
Telefono per informazioni: +39 06 6832833
E-Mail info: info@whitenoisegallery.it
Sito ufficiale: http://www.whitenoisegallery.it
"Oggi si assiste alla glorificazione maniacale di un periodo che ancora non si ha avuto il tempo di ricordare, un decennio che sembra non voler morire e la cui euforia ha lasciato il posto alla più totale disillusione.
Come per gli anni ’90 della Generazione perduta, i moderni anni ’90 sembrano rappresentare l’ultimo momento di felicità di questa generazione in perenne attesa.
In attesa di poter crescere, trovare un lavoro stabile, comprare una casa, sposarsi, fare figli.
Aspettare in fila il proprio turno sembra essere un requisito fondamentale, ma si tratta in realtà di un esercizio vuoto, il proprio momento in realtà non arriva mai."
È il celebre romanzo di Ernest Hemingway “Fiesta Mobile” ad aver reso popolare il termine Generazione perduta. La definizione –da attribuire a Gertrude Stein- è utilizzata per riferirsi agli anni ’20 del 1900 e ai giovani diventati adulti durante la Prima Guerra Mondiale, rimasti privi di punti di riferimento e senza nessuna direzione. Cresciuti a cavallo del cambio di secolo e incapaci di continuare a orientarsi utilizzando i principi del mondo prebellico, questi giovani alla deriva sono vissuti nella nostalgia dell’ultimo decennio del 1800, un periodo romanticizzato di apparente frivolezza e benessere. Questo ricordo fittizio, del resto neanche la fine del XIX secolo è stata poi così serena, arriva ad assumere una sua identità: li chiamano i Gay Ninetes negli Stati Uniti, i Naughty Ninetes in Gran Bretagna ed in parte anche la Belle Époque racchiude in sé questo senso di spensieratezza.
Sono passati 100 anni dalla Generazione Perduta di Stein eppure il termine sembra potersi applicare con facilità anche al momento presente.
L’inizio del XXI secolo non ha certo visto una guerra mondiale, ma chi è diventato adulto in quel periodo è cresciuto negli anni della cosiddetta grande recessione che, al pari di un conflitto, ha sconvolto gli equilibri mondiali e ne ha disfatto le strutture sociali, cambiando il modo di interpretare la realtà. Questa generazione sembra essere accomunata dalla tendenza a ritardare i normali riti di passaggio verso l’età adulta, dall’aver vissuto l’esplosione di internet e, curiosamente, dall’amore per gli anni ’90.
Oggi ci troviamo nel 2021 e il pubblico si emoziona per i sequel dei titoli cinematografici più popolari di quegli anni, ne celebra la nostalgia nei tormentoni musicali e la moda ce ne ripropone ostinatamente l’immagine dalle passerelle alle strade delle città, facendo rivivere iconografie che ci avevano giurato non sarebbero mai più tornate. Il ciclico ritorno delle decadi non è certo una novità ma ciò che rende degno di nota il ritorno di questo decennio è la rapidità con cui è avvenuto. Giovani adulti malinconici ne santificano il corpo ancora vivo, sostenuti da schiere di adolescenti che sognano un decennio fantastico che non hanno neanche mai potuto vivere, eppure da cui sono ossessionati.
Gli anni ’90 del ‘900 si stringono fra la caduta del Muro di Berlino e l’11 settembre. È stata un’epoca tutt’altro che serena, caratterizzata dallo scoppio della Guerra del Golfo, dalle Guerre Jugoslave, in Italia dagli scandali di Tangentopoli e dalla strage di Capaci, solo per ricordarne alcuni momenti storici. Eppure, oggi vengono ricordati come una festa senza fine, anni di incredibile entusiasmo verso un futuro che sembrava essere una terra migliore di infinite possibilità.
Oggi si assiste alla glorificazione maniacale di un periodo che ancora non si ha avuto il tempo di ricordare, un decennio che sembra non voler morire e la cui euforia ha lasciato il posto alla più totale disillusione.
I millennials, i nati fra il 1981 e il 1996, se paragonati alle generazioni precedenti risultano essere meno pronti a sposarsi, ad avere figli, ad adottare un credo religioso; hanno un livello di istruzione superiore ma vivono un tasso di disoccupazione crescente. Più in generale, le strutture tradizionali - la politica, la famiglia, la religione, la carriera - sembrano essersi sgretolate per lasciare il posto a un diffuso senso di solitudine, spaesamento e sfiducia nei confronti del sistema.
Numerose ricerche scientifiche hanno riscontrato come la nostalgia sia un meccanismo di risposta verso momenti di avversità e stati psicologici negativi che contribuisce a riportare uno stato di equilibrio emotivo. Si tratta di una strategia che permette alle persone di sentirsi connesse l’una all’altra attraverso un passato comune, e questo passato, grazie all’avvento di internet, non è mai stato così accessibile. Come per gli anni ’90 della Generazione perduta, i moderni anni ’90 sembrano rappresentare l’ultimo momento di felicità di questa generazione in perenne attesa. In attesa di poter crescere, trovare un lavoro stabile, comprare una casa, sposarsi, fare figli. Aspettare in fila il proprio turno sembra essere un requisito fondamentale, ma si tratta in realtà di un esercizio vuoto, il proprio momento in realtà non arriva mai.
La mostra
Quello che non ricordi, diventi doppia personale di Luca Grimaldi (Roma, 1985) e Fabio Ranzolin (Vicenza, 1993) si costruisce attorno al sentimento di nostalgia per questo ricordo che non si è ancora potuto formare eppure pronto a dare vita ad un’estetica potente quanto anacronistica, capace di dominare trasversalmente sulle età di un’intera generazione. Gli artisti del resto ne rappresentano i due estremi, collocandosi il primo fra quelli che hanno vissuto in pieno l’epoca e l’altro fra le schiere di chi la può solo vagamente rievocare.
Lo spettro di questo momento è rappresentato da quegli spazi che trent’anni fa sono stati l’incarnazione proprio di quello spirito di eterna allegria che tutti vogliono conservare; nei ricordi ovviamente non c’è spazio per nessuna ombra che possa oscurare l’interminabile grande festa che oggi sembrano essere stati gli anni ’90. Le discoteche, i club e la loro popolazione euforica ritornano a perseguitarci; sono al contempo immagini di un passato sbiadito e rappresentazioni del presente più immediato che dopo un iniziale momento di divertito stupore si rivelano come lo specchio di questa impossibilità di andare avanti.
L’installazione Angelo Azzurro di Fabio Ranzolin apre l’itinerario dei visitatori con un percorso a circuito chiuso che riflette l’asfissiante senso di prigionia di questa celebrazione. Il sistema venoso di tubi è alimentato da un concentrato dell’omonimo cocktail, noto quasi esclusivamente in Italia e diventato celebre proprio per suo il colore sgargiante e il forte tasso alcolico. Il liquido scorre in un giro sempre uguale a se stesso, intrappolato proprio come chi è stato toccato dalla magia degli anni ’90, che sembra non riuscire ad andare oltre la memoria stantia della festa.
La sala è tappezzata di manifesti (Orphans of great promises) che rappresentano un pastiche di ciò che di quegli anni si cerca di conservare, una libertà luccicante e piena di vita, spesso vuota sotto tutto quello splendore. Il lavoro è una sovrapposizione caotica di ritagli fotografici presi da più fonti. Il collage digitale evoca le locandine delle discoteche e dei nightclub omosessuali, mentre il titolo esalta malinconicamente la disillusione verso il futuro.
Una luce fredda, quattro Goleador alla frutta, del gel per capelli e due ciondoli in metallo costituiscono l'installazione Un saluto a chi c'è stato e un saluto a chi è tornato. Il titolo ricorda le frasi dei vocalist nelle discoteche italiane dell’epoca, mentre i diversi elementi rievocano passati riti giovanili; si tratta di oggetti banali, diventati oggi il feticcio di adolescenti incapaci di creare nuovi codici e delle proprie mitologie.
Se Ranzolin celebra il tempio del clubbing, Luca Grimaldi ne santifica il corpo: schiere di adepti in attesa accolgono il visitatore nella seconda sala. Si tratta di figure mastodontiche, immobili, diligentemente in fila al proprio posto; un’umanità immobile che rispecchia l’identità quasi macchiettistica dei millennials, relegati in perenne attesa del proprio turno e congelati in un passato che non può tornare e che forse non è mai esistito. Anche queste immagini si collocano in una duplice temporalità e si aprono ad interpretazioni contrastanti. Sono figure che si potrebbero trovare all’interno di riviste di moda lontane trent’anni, così come osservare in fila fuori dallo stesso locale in due epoche diverse. Ciò che risulta più straniante è come queste persone non siano mai cambiate, sono rimaste le stesse invecchiando senza trovare un nuovo posto. Si sono solo aggiunti personaggi, che hanno adottato lo stesso costume che è andato così perdendo sempre più di senso fino a diventare solo una maschera.
Il tempo continua a scorrere ma gli individui non cambiano, si continuano ad ammassare insieme nello stesso spazio, tutti in fila per il bagno e in attesa di poter tornare ad una festa che non c’è più.
Come per gli anni ’90 della Generazione perduta, i moderni anni ’90 sembrano rappresentare l’ultimo momento di felicità di questa generazione in perenne attesa.
In attesa di poter crescere, trovare un lavoro stabile, comprare una casa, sposarsi, fare figli.
Aspettare in fila il proprio turno sembra essere un requisito fondamentale, ma si tratta in realtà di un esercizio vuoto, il proprio momento in realtà non arriva mai."
È il celebre romanzo di Ernest Hemingway “Fiesta Mobile” ad aver reso popolare il termine Generazione perduta. La definizione –da attribuire a Gertrude Stein- è utilizzata per riferirsi agli anni ’20 del 1900 e ai giovani diventati adulti durante la Prima Guerra Mondiale, rimasti privi di punti di riferimento e senza nessuna direzione. Cresciuti a cavallo del cambio di secolo e incapaci di continuare a orientarsi utilizzando i principi del mondo prebellico, questi giovani alla deriva sono vissuti nella nostalgia dell’ultimo decennio del 1800, un periodo romanticizzato di apparente frivolezza e benessere. Questo ricordo fittizio, del resto neanche la fine del XIX secolo è stata poi così serena, arriva ad assumere una sua identità: li chiamano i Gay Ninetes negli Stati Uniti, i Naughty Ninetes in Gran Bretagna ed in parte anche la Belle Époque racchiude in sé questo senso di spensieratezza.
Sono passati 100 anni dalla Generazione Perduta di Stein eppure il termine sembra potersi applicare con facilità anche al momento presente.
L’inizio del XXI secolo non ha certo visto una guerra mondiale, ma chi è diventato adulto in quel periodo è cresciuto negli anni della cosiddetta grande recessione che, al pari di un conflitto, ha sconvolto gli equilibri mondiali e ne ha disfatto le strutture sociali, cambiando il modo di interpretare la realtà. Questa generazione sembra essere accomunata dalla tendenza a ritardare i normali riti di passaggio verso l’età adulta, dall’aver vissuto l’esplosione di internet e, curiosamente, dall’amore per gli anni ’90.
Oggi ci troviamo nel 2021 e il pubblico si emoziona per i sequel dei titoli cinematografici più popolari di quegli anni, ne celebra la nostalgia nei tormentoni musicali e la moda ce ne ripropone ostinatamente l’immagine dalle passerelle alle strade delle città, facendo rivivere iconografie che ci avevano giurato non sarebbero mai più tornate. Il ciclico ritorno delle decadi non è certo una novità ma ciò che rende degno di nota il ritorno di questo decennio è la rapidità con cui è avvenuto. Giovani adulti malinconici ne santificano il corpo ancora vivo, sostenuti da schiere di adolescenti che sognano un decennio fantastico che non hanno neanche mai potuto vivere, eppure da cui sono ossessionati.
Gli anni ’90 del ‘900 si stringono fra la caduta del Muro di Berlino e l’11 settembre. È stata un’epoca tutt’altro che serena, caratterizzata dallo scoppio della Guerra del Golfo, dalle Guerre Jugoslave, in Italia dagli scandali di Tangentopoli e dalla strage di Capaci, solo per ricordarne alcuni momenti storici. Eppure, oggi vengono ricordati come una festa senza fine, anni di incredibile entusiasmo verso un futuro che sembrava essere una terra migliore di infinite possibilità.
Oggi si assiste alla glorificazione maniacale di un periodo che ancora non si ha avuto il tempo di ricordare, un decennio che sembra non voler morire e la cui euforia ha lasciato il posto alla più totale disillusione.
I millennials, i nati fra il 1981 e il 1996, se paragonati alle generazioni precedenti risultano essere meno pronti a sposarsi, ad avere figli, ad adottare un credo religioso; hanno un livello di istruzione superiore ma vivono un tasso di disoccupazione crescente. Più in generale, le strutture tradizionali - la politica, la famiglia, la religione, la carriera - sembrano essersi sgretolate per lasciare il posto a un diffuso senso di solitudine, spaesamento e sfiducia nei confronti del sistema.
Numerose ricerche scientifiche hanno riscontrato come la nostalgia sia un meccanismo di risposta verso momenti di avversità e stati psicologici negativi che contribuisce a riportare uno stato di equilibrio emotivo. Si tratta di una strategia che permette alle persone di sentirsi connesse l’una all’altra attraverso un passato comune, e questo passato, grazie all’avvento di internet, non è mai stato così accessibile. Come per gli anni ’90 della Generazione perduta, i moderni anni ’90 sembrano rappresentare l’ultimo momento di felicità di questa generazione in perenne attesa. In attesa di poter crescere, trovare un lavoro stabile, comprare una casa, sposarsi, fare figli. Aspettare in fila il proprio turno sembra essere un requisito fondamentale, ma si tratta in realtà di un esercizio vuoto, il proprio momento in realtà non arriva mai.
La mostra
Quello che non ricordi, diventi doppia personale di Luca Grimaldi (Roma, 1985) e Fabio Ranzolin (Vicenza, 1993) si costruisce attorno al sentimento di nostalgia per questo ricordo che non si è ancora potuto formare eppure pronto a dare vita ad un’estetica potente quanto anacronistica, capace di dominare trasversalmente sulle età di un’intera generazione. Gli artisti del resto ne rappresentano i due estremi, collocandosi il primo fra quelli che hanno vissuto in pieno l’epoca e l’altro fra le schiere di chi la può solo vagamente rievocare.
Lo spettro di questo momento è rappresentato da quegli spazi che trent’anni fa sono stati l’incarnazione proprio di quello spirito di eterna allegria che tutti vogliono conservare; nei ricordi ovviamente non c’è spazio per nessuna ombra che possa oscurare l’interminabile grande festa che oggi sembrano essere stati gli anni ’90. Le discoteche, i club e la loro popolazione euforica ritornano a perseguitarci; sono al contempo immagini di un passato sbiadito e rappresentazioni del presente più immediato che dopo un iniziale momento di divertito stupore si rivelano come lo specchio di questa impossibilità di andare avanti.
L’installazione Angelo Azzurro di Fabio Ranzolin apre l’itinerario dei visitatori con un percorso a circuito chiuso che riflette l’asfissiante senso di prigionia di questa celebrazione. Il sistema venoso di tubi è alimentato da un concentrato dell’omonimo cocktail, noto quasi esclusivamente in Italia e diventato celebre proprio per suo il colore sgargiante e il forte tasso alcolico. Il liquido scorre in un giro sempre uguale a se stesso, intrappolato proprio come chi è stato toccato dalla magia degli anni ’90, che sembra non riuscire ad andare oltre la memoria stantia della festa.
La sala è tappezzata di manifesti (Orphans of great promises) che rappresentano un pastiche di ciò che di quegli anni si cerca di conservare, una libertà luccicante e piena di vita, spesso vuota sotto tutto quello splendore. Il lavoro è una sovrapposizione caotica di ritagli fotografici presi da più fonti. Il collage digitale evoca le locandine delle discoteche e dei nightclub omosessuali, mentre il titolo esalta malinconicamente la disillusione verso il futuro.
Una luce fredda, quattro Goleador alla frutta, del gel per capelli e due ciondoli in metallo costituiscono l'installazione Un saluto a chi c'è stato e un saluto a chi è tornato. Il titolo ricorda le frasi dei vocalist nelle discoteche italiane dell’epoca, mentre i diversi elementi rievocano passati riti giovanili; si tratta di oggetti banali, diventati oggi il feticcio di adolescenti incapaci di creare nuovi codici e delle proprie mitologie.
Se Ranzolin celebra il tempio del clubbing, Luca Grimaldi ne santifica il corpo: schiere di adepti in attesa accolgono il visitatore nella seconda sala. Si tratta di figure mastodontiche, immobili, diligentemente in fila al proprio posto; un’umanità immobile che rispecchia l’identità quasi macchiettistica dei millennials, relegati in perenne attesa del proprio turno e congelati in un passato che non può tornare e che forse non è mai esistito. Anche queste immagini si collocano in una duplice temporalità e si aprono ad interpretazioni contrastanti. Sono figure che si potrebbero trovare all’interno di riviste di moda lontane trent’anni, così come osservare in fila fuori dallo stesso locale in due epoche diverse. Ciò che risulta più straniante è come queste persone non siano mai cambiate, sono rimaste le stesse invecchiando senza trovare un nuovo posto. Si sono solo aggiunti personaggi, che hanno adottato lo stesso costume che è andato così perdendo sempre più di senso fino a diventare solo una maschera.
Il tempo continua a scorrere ma gli individui non cambiano, si continuano ad ammassare insieme nello stesso spazio, tutti in fila per il bagno e in attesa di poter tornare ad una festa che non c’è più.
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