Teresa Margolles. Periferia dell’agonia
Dal 24 Febbraio 2022 al 19 Giugno 2022
Roma
Luogo: Mattatoio
Indirizzo: Piazza Orazio Giustiniani 4
Orari: dal martedì alla domenica dalle 11 alle 20; lunedì chiuso
Curatori: Angel Moya Garcia
Enti promotori:
- Roma Culture
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Sito ufficiale: http://www.mattatoioroma.it
Da oggi fino al 19 giugno 2022 il Mattatoio presenta la mostra Periferia dell’agonia di Teresa Margolles a cura di Angel Moya Garcia.
Teresa Margolles (Culiacán, Sinaloa, Messico, 1963) è un’artista visiva che esamina le cause e le conseguenze sociali della morte attraverso opere d'arte che si concentrano sui temi della violenza, del genere e dell'alienazione. Il suo lavoro critica l’incomprensibilità della società contemporanea e un ordine sociale ed economico che rende normali le morti violente. Teresa Margolles è tra le artiste che più hanno trattato il tema della brutalità della guerra tra narcotrafficanti e forze dell'ordine nella Repubblica Messicana, realizzando opere dalle quali emerge una ferma condanna alla violenza e a ciò che essa produce nelle famiglie delle vittime, nelle comunità e nello spazio urbano.
Sebbene la ricaduta di un evento traumatico, singolare o collettivo, sia in genere il silenzio e lo scacco del linguaggio, talvolta ci sono delle eccezioni, grazie all’assunzione di responsabilità del testimone. Attraverso un linguaggio personale come narratrice intradiegetica, come testimone di soggetti silenziosi e di vittime definite come danni collaterali, il suo lavoro è un accumulo di tracce materiali della violenza perpetrata, elaborate attraverso un complesso memoriale di vite perdute e di luoghi in cui il trauma continua a risuonare. In quest’ottica, l’artista messicana trasferisce nell’ambito dell’arte lo spazio della morte, metafora per eccellenza del confine, di un limite che paradossalmente viene raggiunto solo nel momento in cui non siamo più e, dunque, non potremo più raccontarlo. Un tentativo di contrastare l’assuefazione e l’impotenza davanti a tragedie quotidiane come la violenza di genere o lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, causate dall’inazione dei governi e da una strumentalizzazione mediatica melodrammatica o sensazionalistica.
Il progetto Periferia dell’agonia presentato al Mattatoio di Roma si configura attraverso un’installazione ambientale che occupa l’intero padiglione 9B e una serie di azioni che si articolano gradualmente e senza una cadenza regolare durante tutta la durata della mostra, permeando sia l’interno dello spazio espositivo che, soprattutto, lo spazio urbano della città.
L’interno del padiglione è occupato da un perimetro di tende industriali in plastica rossa che viene concepito come un corpo trafitto, ferito, accoltellato, attraversato e attraversabile e, allo stesso tempo, come un limbo in cui tutto rimane in attesa, carico di interrogativi senza nessun riscontro concreto e scevro da qualunque certezza o rassicurazione su ciò che avverrà o su ciò che potrebbe accadere. All’interno di questo perimetro, un grande tavolo retroilluminato ospita una tela lunga ventitré metri usata in passato per coprire i corpi di persone assassinate, scandendo un percorso sinestetico in cui il pubblico è invitato a camminare perifericamente intorno all’agonia dell’altro. Questa tela diventa una sorta di cenotafio in cui la violenza subita che essa documenta proietta la propria ombra su di noi, evidenziando come le dinamiche, le problematiche e le giustificazioni che legittimano quegli atti violenti siano molto più vicine di quanto crediamo. Un’atmosfera di sospensione che rimanda, da un lato, alla strutturazione del progetto stesso in cui predomina l’imprevedibilità e, dall’altra, alla disperazione e alla sparizione di migliaia di persone al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, inteso come esempio paradigmatico delle innumerevoli frontiere, visibili e invisibili, esistenti nel mondo.
Questo ambiente viene abitato a intervalli irregolari da azioni o dalla loro documentazione. La mappatura dei luoghi in cui si sono verificati omicidi nella città di Roma viene attivata da partecipanti che segnano il terreno con l'acqua e assorbono il materiale di ogni scena con una spugna, raccogliendo le tracce che rimangono e rendendoci tutti testimoni di quanto accaduto. La tela, epicentro della mostra, viene sollevata per proiettare la propria ombra sul pavimento. Sono solo alcune delle azioni che nella maggior parte dei casi nascono in modo spontaneo, come urgenza di un momento determinato, di una visione, di un avvenimento concreto e che, insieme ad altre, ricompongono i frammenti di un’immagine generale sgretolata da un’allarmante aggressività che spesso viene anestetizzata, occultata, ignorata. Senza utilizzare direttamente materiali abietti, Margolles riarticola il corpo assente e la violenza perpetrata contro di esso attraverso una catena di azioni che ricordano quelle perdite senza strumentalizzarle e senza pubblicizzarle, rendendo la collettività partecipe e soprattutto consapevole.
In questo modo, Teresa Margolles diventa testimone del dolore e della violenza per preservare il ricordo di chi non c’è più e tramandare il suo racconto, per riconoscere la sua identità e contribuire a evitare i più importanti nemici con cui generalmente le vittime e le loro famiglie si scontrano: la mancanza di informazioni sui decessi, l’impunità dei responsabili, la negligenza delle autorità nelle indagini, la paura che provoca l’oblio, la distruzione dell’equilibrio domestico e l’inevitabile trasformazione della fisionomia di una città. Tuttavia, i lavori diventano allegorie esteticamente rassicuranti e seducenti; non sono mai presentati corpi straziati o cadaveri. È allora che scatta la trappola per il visitatore. Solo il potere della sua immaginazione può prestare all'inconcepibile una presenza momentanea. Ignaro si avvicina, osserva, legge, viene a conoscenza del dramma, della tragedia ed è a quel punto che viene chiamato a elaborare, a ricostruire, a sistemare, attraverso un processo di coinvolgimento diretto, emotivo, cognitivo e sensoriale. Solo in quell’istante il visitatore diventa testimone e spettatore, vittima e carnefice, innocente e colpevole, estraneo e complice e solo a quel punto deve prendere la responsabilità di decidere, di non indugiare, di non ignorare, di non rimanere impassibile.
Le opere di Teresa Margolles (Culiacán, Sinaloa, Messico, 1963) esaminano le cause sociali e le conseguenze della violenza. Per lei, l'obitorio riflette accuratamente la società, in particolare quella del suo paese d'origine, dove le morti causate da crimini legati alla droga, povertà, crisi politica e la risposta controproducente del governo hanno devastato le comunità. Ha sviluppato un linguaggio unico e sobrio per dare la parola ai soggetti messi a tacere, le vittime scontate come danni collaterali del conflitto. Margolles ha conseguito un diploma in Medicina Legale e Scienze della Comunicazione presso l'Universidad Nacional Autónoma de Mexico.
Il suo lavoro è stato mostrato a livello internazionale in istituzioni come Es Baluard, Palma di Maiorca, Spagna (2020); BPS22, Charleroi, Belgio (2019); Kunsthalle Krems, Austria (2019); MSSA, Santiago del Cile (2019); MAMBO Museo d'Arte Moderna di Bogotà (2019); Padiglione d'Arte Contemporanea a Milano (2018); il Witte de With, Rotterdam, Paesi Bassi (2018); la Tenuta Dello Scompiglio e il Musée d'art contemporain di Montréal (2017); il Neuberger Museum of Art, New York (2015), il Centro de Arte Dos de Mayo, Madrid (2014), il Migros Museum, Zurigo (2014), la Tate Modern, Londra (2012); il MALBA, Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires (2008); il Museo del Barrio, New York (2008); il Brooklyn Museum of Art, New York (2007); la Kunsthalle, Vienna (2007); il Centre d'Art Contemporain di Brétigny, Francia (2006), The Museum für Moderne Kunst di Francoforte, Germania (2004); PS1/MoMa, New York (2002); il Kunst-Werke di Berlino (2002) e la South London Gallery (2002) tra gli altri.
Ha partecipato a Biennali come la 22° Biennale di Sydney (2020), la Biennale di Los Angeles (2016), la 7a Biennale di Berlino (2012), la Biennale di Mosca (2007), la 4a Biennale di Liverpool (2006), la Biennale di Praga (2005), la 4a Biennale del Mercosul (2003) e VII Biennale di Cuenca (2002). Il lavoro Di cos'altro potremmo parlare? è stato esposto in particolare alla 53a Biennale di Venezia (2009), nella mostra del Padiglione del Messico, a cura di Cuauhtémoc Medina. Il lavoro di Teresa Margolles è stato di nuovo presentato alla 58a Biennale di Venezia (2019), nell'ambito della Mostra Internazionale May You Live in Interesting Times, curata da Ralph Rugoff, dove ha ricevuto una Menzione Speciale della Giuria in riconoscimento del suo lavoro. Margolles ha anche ricevuto la commissione per il quarto plinto a Trafalgar Square per il 2024.
Il progetto Periferia dell’agonia di Teresa Margolles è il quinto capitolo del programma triennale Dispositivi sensibili, ideato da Angel Moya Garcia per il Mattatoio di Roma e incentrato sulla convergenza fra metodi, estetiche e pratiche delle arti visive e delle arti performative, attraverso un modello di presentazione che si evolve costantemente.
Teresa Margolles (Culiacán, Sinaloa, Messico, 1963) è un’artista visiva che esamina le cause e le conseguenze sociali della morte attraverso opere d'arte che si concentrano sui temi della violenza, del genere e dell'alienazione. Il suo lavoro critica l’incomprensibilità della società contemporanea e un ordine sociale ed economico che rende normali le morti violente. Teresa Margolles è tra le artiste che più hanno trattato il tema della brutalità della guerra tra narcotrafficanti e forze dell'ordine nella Repubblica Messicana, realizzando opere dalle quali emerge una ferma condanna alla violenza e a ciò che essa produce nelle famiglie delle vittime, nelle comunità e nello spazio urbano.
Sebbene la ricaduta di un evento traumatico, singolare o collettivo, sia in genere il silenzio e lo scacco del linguaggio, talvolta ci sono delle eccezioni, grazie all’assunzione di responsabilità del testimone. Attraverso un linguaggio personale come narratrice intradiegetica, come testimone di soggetti silenziosi e di vittime definite come danni collaterali, il suo lavoro è un accumulo di tracce materiali della violenza perpetrata, elaborate attraverso un complesso memoriale di vite perdute e di luoghi in cui il trauma continua a risuonare. In quest’ottica, l’artista messicana trasferisce nell’ambito dell’arte lo spazio della morte, metafora per eccellenza del confine, di un limite che paradossalmente viene raggiunto solo nel momento in cui non siamo più e, dunque, non potremo più raccontarlo. Un tentativo di contrastare l’assuefazione e l’impotenza davanti a tragedie quotidiane come la violenza di genere o lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, causate dall’inazione dei governi e da una strumentalizzazione mediatica melodrammatica o sensazionalistica.
Il progetto Periferia dell’agonia presentato al Mattatoio di Roma si configura attraverso un’installazione ambientale che occupa l’intero padiglione 9B e una serie di azioni che si articolano gradualmente e senza una cadenza regolare durante tutta la durata della mostra, permeando sia l’interno dello spazio espositivo che, soprattutto, lo spazio urbano della città.
L’interno del padiglione è occupato da un perimetro di tende industriali in plastica rossa che viene concepito come un corpo trafitto, ferito, accoltellato, attraversato e attraversabile e, allo stesso tempo, come un limbo in cui tutto rimane in attesa, carico di interrogativi senza nessun riscontro concreto e scevro da qualunque certezza o rassicurazione su ciò che avverrà o su ciò che potrebbe accadere. All’interno di questo perimetro, un grande tavolo retroilluminato ospita una tela lunga ventitré metri usata in passato per coprire i corpi di persone assassinate, scandendo un percorso sinestetico in cui il pubblico è invitato a camminare perifericamente intorno all’agonia dell’altro. Questa tela diventa una sorta di cenotafio in cui la violenza subita che essa documenta proietta la propria ombra su di noi, evidenziando come le dinamiche, le problematiche e le giustificazioni che legittimano quegli atti violenti siano molto più vicine di quanto crediamo. Un’atmosfera di sospensione che rimanda, da un lato, alla strutturazione del progetto stesso in cui predomina l’imprevedibilità e, dall’altra, alla disperazione e alla sparizione di migliaia di persone al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, inteso come esempio paradigmatico delle innumerevoli frontiere, visibili e invisibili, esistenti nel mondo.
Questo ambiente viene abitato a intervalli irregolari da azioni o dalla loro documentazione. La mappatura dei luoghi in cui si sono verificati omicidi nella città di Roma viene attivata da partecipanti che segnano il terreno con l'acqua e assorbono il materiale di ogni scena con una spugna, raccogliendo le tracce che rimangono e rendendoci tutti testimoni di quanto accaduto. La tela, epicentro della mostra, viene sollevata per proiettare la propria ombra sul pavimento. Sono solo alcune delle azioni che nella maggior parte dei casi nascono in modo spontaneo, come urgenza di un momento determinato, di una visione, di un avvenimento concreto e che, insieme ad altre, ricompongono i frammenti di un’immagine generale sgretolata da un’allarmante aggressività che spesso viene anestetizzata, occultata, ignorata. Senza utilizzare direttamente materiali abietti, Margolles riarticola il corpo assente e la violenza perpetrata contro di esso attraverso una catena di azioni che ricordano quelle perdite senza strumentalizzarle e senza pubblicizzarle, rendendo la collettività partecipe e soprattutto consapevole.
In questo modo, Teresa Margolles diventa testimone del dolore e della violenza per preservare il ricordo di chi non c’è più e tramandare il suo racconto, per riconoscere la sua identità e contribuire a evitare i più importanti nemici con cui generalmente le vittime e le loro famiglie si scontrano: la mancanza di informazioni sui decessi, l’impunità dei responsabili, la negligenza delle autorità nelle indagini, la paura che provoca l’oblio, la distruzione dell’equilibrio domestico e l’inevitabile trasformazione della fisionomia di una città. Tuttavia, i lavori diventano allegorie esteticamente rassicuranti e seducenti; non sono mai presentati corpi straziati o cadaveri. È allora che scatta la trappola per il visitatore. Solo il potere della sua immaginazione può prestare all'inconcepibile una presenza momentanea. Ignaro si avvicina, osserva, legge, viene a conoscenza del dramma, della tragedia ed è a quel punto che viene chiamato a elaborare, a ricostruire, a sistemare, attraverso un processo di coinvolgimento diretto, emotivo, cognitivo e sensoriale. Solo in quell’istante il visitatore diventa testimone e spettatore, vittima e carnefice, innocente e colpevole, estraneo e complice e solo a quel punto deve prendere la responsabilità di decidere, di non indugiare, di non ignorare, di non rimanere impassibile.
Le opere di Teresa Margolles (Culiacán, Sinaloa, Messico, 1963) esaminano le cause sociali e le conseguenze della violenza. Per lei, l'obitorio riflette accuratamente la società, in particolare quella del suo paese d'origine, dove le morti causate da crimini legati alla droga, povertà, crisi politica e la risposta controproducente del governo hanno devastato le comunità. Ha sviluppato un linguaggio unico e sobrio per dare la parola ai soggetti messi a tacere, le vittime scontate come danni collaterali del conflitto. Margolles ha conseguito un diploma in Medicina Legale e Scienze della Comunicazione presso l'Universidad Nacional Autónoma de Mexico.
Il suo lavoro è stato mostrato a livello internazionale in istituzioni come Es Baluard, Palma di Maiorca, Spagna (2020); BPS22, Charleroi, Belgio (2019); Kunsthalle Krems, Austria (2019); MSSA, Santiago del Cile (2019); MAMBO Museo d'Arte Moderna di Bogotà (2019); Padiglione d'Arte Contemporanea a Milano (2018); il Witte de With, Rotterdam, Paesi Bassi (2018); la Tenuta Dello Scompiglio e il Musée d'art contemporain di Montréal (2017); il Neuberger Museum of Art, New York (2015), il Centro de Arte Dos de Mayo, Madrid (2014), il Migros Museum, Zurigo (2014), la Tate Modern, Londra (2012); il MALBA, Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires (2008); il Museo del Barrio, New York (2008); il Brooklyn Museum of Art, New York (2007); la Kunsthalle, Vienna (2007); il Centre d'Art Contemporain di Brétigny, Francia (2006), The Museum für Moderne Kunst di Francoforte, Germania (2004); PS1/MoMa, New York (2002); il Kunst-Werke di Berlino (2002) e la South London Gallery (2002) tra gli altri.
Ha partecipato a Biennali come la 22° Biennale di Sydney (2020), la Biennale di Los Angeles (2016), la 7a Biennale di Berlino (2012), la Biennale di Mosca (2007), la 4a Biennale di Liverpool (2006), la Biennale di Praga (2005), la 4a Biennale del Mercosul (2003) e VII Biennale di Cuenca (2002). Il lavoro Di cos'altro potremmo parlare? è stato esposto in particolare alla 53a Biennale di Venezia (2009), nella mostra del Padiglione del Messico, a cura di Cuauhtémoc Medina. Il lavoro di Teresa Margolles è stato di nuovo presentato alla 58a Biennale di Venezia (2019), nell'ambito della Mostra Internazionale May You Live in Interesting Times, curata da Ralph Rugoff, dove ha ricevuto una Menzione Speciale della Giuria in riconoscimento del suo lavoro. Margolles ha anche ricevuto la commissione per il quarto plinto a Trafalgar Square per il 2024.
Il progetto Periferia dell’agonia di Teresa Margolles è il quinto capitolo del programma triennale Dispositivi sensibili, ideato da Angel Moya Garcia per il Mattatoio di Roma e incentrato sulla convergenza fra metodi, estetiche e pratiche delle arti visive e delle arti performative, attraverso un modello di presentazione che si evolve costantemente.
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