Diagonal-Symphonie
Dal 02 Aprile 2015 al 26 Aprile 2015
Venezia
Luogo: Officina delle Zattere
Indirizzo: Fondamenta Nani, Dorsoduro 947
Orari: martedì-domenica 11-19
Curatori: Francesca Rizzo, Robert Phillips, Brigitte Giustiniani, Gaia Conti
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 041 5234 348
E-Mail info: info@arteeventi.com
Sito ufficiale: http://www.officinadellezattere.it/
Diagonal-Symphonie è un film del 1924, diretto dal regista tedesco Viking Eggeling – un inno alla capacità evocativa delle forme, alla bellezza dei cicli ricorsivi, alla potenza dei processi di trasformazione, rappresentato da una forma inclinata che, danzando sullo schermo, continuamente genera altre forme, sparisce e rinasce.
La “sinfonia diagonale” dell’Officina delle Zattere è una successione non rigida di esperienze artistiche che meditano sugli stessi temi: la forma, il passaggio del tempo e i ricordi, la rappresentazione e la semplificazione.
Senza seguire un percorso predeterminato fra le sale, il visitatore potrà ascoltare il dialogo fra i lavori di Gianfranco D’Andrea, che racconta poeticamente di paesaggi, spesso riconoscibili, da un punto di vista diverso e originale, storie a sé, ma parte di una narrazione più ampia, e le opere di Alain Giustiniani, espressione della sua esperienza di Venezia, trascrizione di un'emozione venata di malinconia o di poesia, che intendono restituirci al di là della realtà.
Oppure immaginare delle sottili affinità elettive fra la ricerca di Gino Baffo, che ritrae una Venezia fatta soprattutto di voci, parole e persone che lasciano solo ombre nella nebbia e di cui rimangono a ricordo pochi oggetti che galleggiano nell'acqua scura dei canali più profondi, e le tele di Maurizio Montesoro, che volutamente non descrivono un mondo ma lo evocano, attraverso un processo di svuotamento, alleggerimento, sottrazione. O ancora destreggiarvi fra la meditazione sull’impermanenza, sulla circolarità e la ri-nascita da un passato presente di Paolo Vannuccini e infine raggiungere le vigorose e calde composizioni, le storie di vita, di uomini e di oggetti portatori di ricordi di Enzo Montagna.
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Gino Baffo
Lights in Darkness
A cura di Robert Phillips
Gino Baffo è un artista veneziano. Qui, l'aggettivo veneziano non vuol essere una semplice indicazione di provenienza, di origine. E piuttosto un senso di appartenenza, di simbiosi, totale. Baffo è veneziano, non solo per nascita e discendenza non solo per domicilio, è veneziano nel senso più profondo e ineluttabile del termine. Venezia non è una città, non è un semplice luogo, non sarà mai un indirizzo. E un modo di essere, una vocazione... Con queste parole si apriva una breve monografia delle sue opere dedicatagli da un suo attento collezionista e sono queste parole che racchiudono l'essenza stessa di ciò che di Gino Baffo è raccontabile a parole, per il resto il racconto può essere solo affidato alla visione delle sue opere. Opere in cui si specchia un luogo dell'anima profondamente silenzioso, all'apparenza totalmente astratto e invece strettamente radicato nella realtà, strutture quasi architettoniche, scansioni, ma non appartenenti a quel modo razionale. Parole, racconti, leggende trasformati in materia che si coprono e ricoprono a vicenda quasi a nascondere, e invece a esibire, il tessuto di un ideale.
Geometrie di pareti, superfici sghembe, appaiono come un prospetto edificato, sembrano città ma sono libri, dorsi di una libreria della memoria in cui manca una simmetria esplicita. Sono libri che poggiano su una battigia continuamente risistemati dall'andare e il venire del mare, posti al limite, tra acqua e sabbia, rimodellati dalle intemperie e incrostati di ciò che il mare e gli uomini portano. Contengono parole, saggezza e regole, ma sono pensate come cosa vuota, o soltanto intravista, l'esistere ha ricoperto di fatti ogni concetto, materia e non verbo, involucri che racchiudono un nucleo di vuoto, nebbie. E da quelle nebbie fuoriesce l'ombra, non l'ombra consueta data dal sole e la sua luce, ma quell'ombra quasi lattiginosa ed incerta che si profila lontana e segna il punto di vista e la via che, chiunque percorra Venezia sull'acqua, deve imparare a seguire. Ѐ quest'ombra che racchiude la materia ed è una materia povera, dispersa, galleggiante, posta ad emblema della sensibilità portata sulle cose a cui nessuno fa attenzione. Figlia di un vedere minuzioso e attento, incantevole nella sua sobrietà, più che per la materia in sé stessa, per il riserbo con cui viene trattata, con quelle forme quasi povere ed invece così dense di significato.
Sono opere, queste di Gino Baffo, che ci fanno percorrere i canali e le lagune di una sua personale Venezia fatta di luoghi ma soprattutto di voci, parole e persone che lasciano solo ombre nella nebbia e di cui rimangono a ricordo pochi oggetti che galleggiano nell'acqua scura dei canali più profondi, essenza di quel che è stato, vissuto e visto .
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Gianfranco D’Andrea
Muta poesia
A cura di Gaia Conti
C’è molto nero sulle sue tele. C’è bitume sulle sue tele. Il bitume è un materiale inusuale, è un pigmento che si usa per coprire il manto stradale. Lo calpestiamo, lo attraversiamo, è sinonimo di un paesaggio urbanizzato, di progresso. Uno sviluppo positivo, città e strade, vita, connessioni ed allo stesso tempo negativo, quando, fuori controllo, invade indiscriminatamente lo spazio vivibile.
Il bruno bitume, l’asfalto, come noi lo conosciamo, è una sostanza di origine vulcanica il cui utilizzo risale nel tempo fino agli antichi egizi che lo usavano per tingere le bende delle mummie. Le bende di D’Andrea sono le sue tele.
Le sue opere, il bitume, l’asfalto, la terra che l’uomo calpesta, le sue radici.
Un senso di nostalgia pervade i suoi lavori, lui che è in esilio mentale dalla realtà.
Romano di nascita, ora brasiliano d’adozione, dipinge già da piccolissimo, quando all’età di 12 anni la sua prima creazione pittorica vince il primo premio di un concorso. Un percorso, il suo, ricco di sperimentazioni e di slanci e costellato da piccole pause intermittenti. L’ispirazione è da sempre ai grandi italiani della Transavanguardia, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Francesco Clemente, mantenendo come punto fermo e cifra stilistica la semplicità.
Ma mai in maniera banale.
I paesaggi di D’Andrea in esposizione sono una coerente selezione del suo lavoro degli ultimi anni. Le città e i territori che ritrae sembrano ognuno un racconto a sé, finito, ma in qualche modo si legano ad una storia più ampia. Un trait d’union nelle forme, nei colori e nella gestualità a generare una narrazione fluida e obiettiva, scevra da sovrastrutture precostituite e libera di esprimersi.
Rappresenta un luogo che talvolta si fa uomo fisico, corpo individuale e collettivo, che occupa uno spazio dal quale trae la forza e con il quale intesse una relazione reciproca. Sono tutte opere che descrivono, non certo senza un velo di malinconia, posti conosciuti e riconoscibili con spunti originali e da nuove e inusuali angolazioni.
Ciò che si può leggere in gran parte della mostra è il rapporto tra D’Andrea stesso e il paesaggio che fa da specchio alla sua azione soggettiva, non tralasciando una fluidità di lettura dell’oggetto rappresentato.
In esposizione sono solo due le tele che si discostano da questo ritratto, da questo modello, prendendone invece un altro ad esempio, Francis Bacon, artista inglese, sua ispirazione e modello per molti quadri.
Nell’osservare in toto il suo lavoro l’invito è a condividere la sua irrinunciabile spinta creativa, a “mangiare l’odore del colore” - come dice lui stesso - ad usare l’istinto, a cogliere l’idea dello spirito di un artista che nell’animo è un poeta e trasforma i suoi lavori in muta poesia.
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Alain Giustiniani
Venezia tra sogno e realtà
A cura di Brigitte Giustiniani
"Da oltre vent'anni, Alain Giustiniani, artista francese nato nel 1947, vive tra Venezia e la Provenza. Il suo rapporto d'amore con la Serenissma risale ai suoi esordi da acquarellista, affascinato da Sargent, Turner e Bonington. Poi sono arrivati gli anni di maturità e la realizzazione di un sogno, vivere, almeno in parte, a Venezia. Al di là delle influenze (Hundertvasser, Zec) è stato importante per lui integrarsi con questa affascinante città, diventare un tutt'uno con lei per trascriverla sulla tela. Ha lavorato duramente a questo nei suoi laboratori di San Beneto e poi di San Samuele. Ma Venezia è storia, forza e fragilità, luce e tenebre, vita e morte. Quando [richiede] diversi approcci pittorici. Le tecniche e i materiali utilizzati rispecchiano questa diversità: olio, acrilico, tempera, vernici, collage, inchiostri, bitume, e foglia d'oro ecc. L'obiettivo è l'espressione di una esperienza, la trascrizione di un'emozione venata di malinconia o di poesia per restituirci una sensazione al di là della realtà.
I dipinti che oggi offre al nostro sguardo sono una storia di passione, un pezzo della sua vita tra sogno e realtà. "
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Enzo Montagna
Ororosso
A cura di Francesca Rizzo
Quella di Enzo Montagna è certamente una ricerca artistica da osservare e da scoprire: la sua tecnica espressiva fissa su tela e su tavola un’ardita moltitudine di dettagli che vanno cercati e individuati. Solo in questo modo si potrà gustarli pienamente e collocarli in una narrazione che restituisca all’osservatore la poesia dell’artista.
Fuoco, aria, ruggine e sincerità sono gli elementi che animano le opere di Montagna. Nel vortice di colore e di forme, ogni tela diventa portatrice del racconto di un viaggio, di una voce ascoltata, di una parola non detta. Ogni riferimento puramente figurativo viene abbandonato, in un’astrazione strutturata geometricamente, dove ogni forma fa sentire il proprio personale carattere, ogni colore una particolare sonorità, ogni segno un’immediata tensione. Dai numerosi viaggi - e in particolare dall’America latina – l’artista ha assorbito il colore e il calore della terra. Nelle sue vigorose e calde composizioni, tra le “zone” di colore, compaiono sacchi di juta, cartoni sudamericani, alfabeti e grafie di antiche civiltà oltre a graffiti metropolitani, segni dell’uomo mai stanco di lasciare una traccia e di urlare il proprio essere nel mondo. Storie di vita, quindi, di uomini e di oggetti portatori di ricordi. La vera scuola di Montagna diventa quindi il continuo scambio culturale affiancato alle relazioni con i movimenti e i maestri dell’arte – da Dada al cubismo, da Burri ad Afro - e con gli amici artisti. Nella velocità della linea-colore o attraverso la stratificazione degli smalti e degli acrilici, l’artista scruta “i volumi d’aria”, toglie materia per liberare la forma più energica, le campiture portanti, la musica interna al dipinto. Dal rosso cupo, dai fondi bituminosi, dai grigi profondi, emergono gli ori, i bianchi e i celesti quasi a dare immagine alle parole di Rimbaud: “Mentre nel deserto di bitume scappano via in disordine lampi di arancio in un cielo vinoso”. Ogni momento pittorico fa affiorare coinvolgimenti, commozioni e lieti sussulti: l’espressione naturale di Enzo Montagna è piena di rispetto per la vita che si può incontrare in un sobborgo di Lima, sulle vette andine incontaminate o tra le baraccopoli di Brasilia. L’arte non risolve i problemi ma parla il linguaggio della vitalità che pulsa nel mondo. In questo modo l’oro si fa rosso e il fuoco entra nelle fredde acque dell’indifferenza. Tra le mappe cromatiche e le isole luminose di Montagna possiamo davvero compiere un viaggio nel grandioso e nel minimo spazio.
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Maurizio Montesoro
Less is more_Meno è meglio
A cura di Gaia Conti
Maurizio Montesoro è un artista di origini genovesi che da più quarant’anni si dedica con passione all’arte pittorica. Lungo il suo percorso artistico è stato influenzato da diverse correnti dalle Avanguardie storiche, all’Informale, alla Poesia visuale, al Post informale.
Negli ultimi anni il suo lavoro si è concentrato principalmente sul concetto di Sottrazione. È una nozione dinamica in quanto è necessario accumulare, saturare, per riuscire a dare vita al movimento inverso che svuota e alleggerisce; solo avendo sperimentato il primo, il secondo ne trae un senso. Un’analisi estetica, la sua, che da un approccio figurativo, comunque sintetizzato e legato ad una visione post informale, si trasforma in un gesto sempre più sinottico e astratto, con larghe campiture di colore, ben lontano dall’arte dell’addizione così come la intendevano gli antichi. Le sue trame risultano mano a mano più scarne, irriconoscibili.
“Less is more”, celebre motto del poeta inglese R.Browning, diventato famoso come uno dei mantra dell’architetto e designer Mies Van der Rohe, sembra descrivere perfettamente lo spirito guida del pennello di Montesoro nel suo processo creativo, teso al minimalismo formale, del togliere per aggiungere valore.
“Less is more” è dunque un’esposizione che descrive con dovizia di particolari il recente approccio dell’artista al suo lavoro. La selezione di tele esposte dà l’avvio ad un alternarsi di rimandi reciproci nel quale lui recita il ruolo di comparsa. Costante è la pastosità del gesto, ma nessun titolo, nessuna indicazione da parte sua. Maurizio, dalle quinte, ci lascia liberi di entrare in un gioco che sembra quasi sfuggirgli volutamente di mano, preso invece dall’aggressività e dalla violenza dall’uso dei colori che oramai appartengono, non più a lui, ma alle sue opere.
Nello scorrere i suoi lavori penso all’intenzione a alla sua interpretazione. Questa astrazione di concetto che riflette la sua pittura come un lavorio esteriore che scava nel profondo. Stiamo assistendo ad un percorso che volutamente non descrive un mondo, ma lo evoca. Il non dire per creare.
Non semplicemente delle linee come nella pittura astratta, si leggono chiaramente dei volumi, tanto presenti, quanto scultorei. Un perfetto equilibrio tra il mettere e il togliere che lascia ampi spazi di respiro sulla tela.
Lavorare per sottrazione in pittura, “lavorare su se stessi, scalpellando via tutto ciò che di falso o inutile ci sta attaccato, e liberare, alla fine, quel che noi siamo, nella saldezza imperturbabile della magnificenza dell'esistere.” - nel rubare le parole allo scittore italiano A. Baricco nella sua recensione degli "Esercizi Spirituali e filosofia antica" [P.Hadot,1981] - ritrovo la coerenza, l’indagine e la spiritualità propria dell’artista Montesoro.
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Paolo Vannuccini
ANITYA. The invisible wall
A cura di Gaia Conti
«No, se non avessi convinzioni intellettuali, se cercassi soltanto di ricordare il passato e di duplicare con questi ricordi l'esperienza, non mi prenderei, malato come sono, la briga di scrivere.» - Marcel Proust.
Qual è la chiave di lettura dei lavori di Vannuccini?
Paolo Vannuccini è un informale. Espressione anacronistica, forse. Ma lui è, e si sente, fortemente fuori dal suo tempo. Questa, ecco, proprio questa, è la sua forza. I suoi lavori sono in tal senso le convinzioni intellettuali di Proust, non un passato da duplicare, non un’esperienza da ricordare, perché altrimenti lui, Vannuccini, non si prenderebbe la briga di dipingere. Un moto dell’animo, una spinta necessaria risiede alla base del suo racconto.
Guardando i suoi quadri si entra in una sorta di partitura disordinata, quasi un vortice, un flusso continuo. Ciò che sorprende è come il disordine, il caos sia calmo e ordinato. Una sorta di razionalità che mette in luce la forza centripeta che si sprigiona dall’immagine; ed è una continua ri-nascita.
“Rebirth” è il titolo della serie di lavori in mostra - “Tutto ciò che faccio ricomincia, - parole sue - è un movimento continuo, e la Ri-nascita di cui parlo parte proprio da questa azione, come un percorso, fatto di emozioni, di gesti e colori.”
Lavora con molti materiali diversi Paolo: poliuretano, stucco, gesso, resina, smalto. Ed è proprio quest’ultimo che crepa con acqua e solvente a creare delle ferite per palesare la sua inquietudine e abbattere il muro invisibile che gli fa da barriera, da blocco che lo circonda. Allo stesso tempo rompere quel muro che non possiamo vedere, fessurarlo appunto, gli permette di ottenere dei piccoli spiragli di luce, una ulteriore spinta verso l’esterno, una ulteriore mossa.
ANITYA, impermanenza, concetto buddista che indica come il cambiamento sia inerente a ogni esistenza fenomenica e come i processi mentali entrino in essere e si dissolvano, per poi ricominciare. Tutto ciò che l’artista riporta sulle sue tele si riavvia, è moto rotatorio e turbolento, incessante, all’interno dello stesso quadro e poi in un altro, e in un altro ancora e così via.
E si ritorna a Proust, allo scrittore del monumentale Ricerca del tempo perduto, romanzo sugli uomini e sul tempo, su quello perduto, interiore o esteriore, legato al passato, ma contemporaneamente, un tempo verso il quale tende il presente.
Impermanenza, Tempo perduto, Circolarità, Re-birth. Il tempo perduto di Vannuccini, le sue opere, non sono un tempo passato, perché sono un tempo da ricercare e da ritrovare, sono il ritrovamento continuo della sua identità.
La “sinfonia diagonale” dell’Officina delle Zattere è una successione non rigida di esperienze artistiche che meditano sugli stessi temi: la forma, il passaggio del tempo e i ricordi, la rappresentazione e la semplificazione.
Senza seguire un percorso predeterminato fra le sale, il visitatore potrà ascoltare il dialogo fra i lavori di Gianfranco D’Andrea, che racconta poeticamente di paesaggi, spesso riconoscibili, da un punto di vista diverso e originale, storie a sé, ma parte di una narrazione più ampia, e le opere di Alain Giustiniani, espressione della sua esperienza di Venezia, trascrizione di un'emozione venata di malinconia o di poesia, che intendono restituirci al di là della realtà.
Oppure immaginare delle sottili affinità elettive fra la ricerca di Gino Baffo, che ritrae una Venezia fatta soprattutto di voci, parole e persone che lasciano solo ombre nella nebbia e di cui rimangono a ricordo pochi oggetti che galleggiano nell'acqua scura dei canali più profondi, e le tele di Maurizio Montesoro, che volutamente non descrivono un mondo ma lo evocano, attraverso un processo di svuotamento, alleggerimento, sottrazione. O ancora destreggiarvi fra la meditazione sull’impermanenza, sulla circolarità e la ri-nascita da un passato presente di Paolo Vannuccini e infine raggiungere le vigorose e calde composizioni, le storie di vita, di uomini e di oggetti portatori di ricordi di Enzo Montagna.
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Gino Baffo
Lights in Darkness
A cura di Robert Phillips
Gino Baffo è un artista veneziano. Qui, l'aggettivo veneziano non vuol essere una semplice indicazione di provenienza, di origine. E piuttosto un senso di appartenenza, di simbiosi, totale. Baffo è veneziano, non solo per nascita e discendenza non solo per domicilio, è veneziano nel senso più profondo e ineluttabile del termine. Venezia non è una città, non è un semplice luogo, non sarà mai un indirizzo. E un modo di essere, una vocazione... Con queste parole si apriva una breve monografia delle sue opere dedicatagli da un suo attento collezionista e sono queste parole che racchiudono l'essenza stessa di ciò che di Gino Baffo è raccontabile a parole, per il resto il racconto può essere solo affidato alla visione delle sue opere. Opere in cui si specchia un luogo dell'anima profondamente silenzioso, all'apparenza totalmente astratto e invece strettamente radicato nella realtà, strutture quasi architettoniche, scansioni, ma non appartenenti a quel modo razionale. Parole, racconti, leggende trasformati in materia che si coprono e ricoprono a vicenda quasi a nascondere, e invece a esibire, il tessuto di un ideale.
Geometrie di pareti, superfici sghembe, appaiono come un prospetto edificato, sembrano città ma sono libri, dorsi di una libreria della memoria in cui manca una simmetria esplicita. Sono libri che poggiano su una battigia continuamente risistemati dall'andare e il venire del mare, posti al limite, tra acqua e sabbia, rimodellati dalle intemperie e incrostati di ciò che il mare e gli uomini portano. Contengono parole, saggezza e regole, ma sono pensate come cosa vuota, o soltanto intravista, l'esistere ha ricoperto di fatti ogni concetto, materia e non verbo, involucri che racchiudono un nucleo di vuoto, nebbie. E da quelle nebbie fuoriesce l'ombra, non l'ombra consueta data dal sole e la sua luce, ma quell'ombra quasi lattiginosa ed incerta che si profila lontana e segna il punto di vista e la via che, chiunque percorra Venezia sull'acqua, deve imparare a seguire. Ѐ quest'ombra che racchiude la materia ed è una materia povera, dispersa, galleggiante, posta ad emblema della sensibilità portata sulle cose a cui nessuno fa attenzione. Figlia di un vedere minuzioso e attento, incantevole nella sua sobrietà, più che per la materia in sé stessa, per il riserbo con cui viene trattata, con quelle forme quasi povere ed invece così dense di significato.
Sono opere, queste di Gino Baffo, che ci fanno percorrere i canali e le lagune di una sua personale Venezia fatta di luoghi ma soprattutto di voci, parole e persone che lasciano solo ombre nella nebbia e di cui rimangono a ricordo pochi oggetti che galleggiano nell'acqua scura dei canali più profondi, essenza di quel che è stato, vissuto e visto .
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Gianfranco D’Andrea
Muta poesia
A cura di Gaia Conti
C’è molto nero sulle sue tele. C’è bitume sulle sue tele. Il bitume è un materiale inusuale, è un pigmento che si usa per coprire il manto stradale. Lo calpestiamo, lo attraversiamo, è sinonimo di un paesaggio urbanizzato, di progresso. Uno sviluppo positivo, città e strade, vita, connessioni ed allo stesso tempo negativo, quando, fuori controllo, invade indiscriminatamente lo spazio vivibile.
Il bruno bitume, l’asfalto, come noi lo conosciamo, è una sostanza di origine vulcanica il cui utilizzo risale nel tempo fino agli antichi egizi che lo usavano per tingere le bende delle mummie. Le bende di D’Andrea sono le sue tele.
Le sue opere, il bitume, l’asfalto, la terra che l’uomo calpesta, le sue radici.
Un senso di nostalgia pervade i suoi lavori, lui che è in esilio mentale dalla realtà.
Romano di nascita, ora brasiliano d’adozione, dipinge già da piccolissimo, quando all’età di 12 anni la sua prima creazione pittorica vince il primo premio di un concorso. Un percorso, il suo, ricco di sperimentazioni e di slanci e costellato da piccole pause intermittenti. L’ispirazione è da sempre ai grandi italiani della Transavanguardia, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Francesco Clemente, mantenendo come punto fermo e cifra stilistica la semplicità.
Ma mai in maniera banale.
I paesaggi di D’Andrea in esposizione sono una coerente selezione del suo lavoro degli ultimi anni. Le città e i territori che ritrae sembrano ognuno un racconto a sé, finito, ma in qualche modo si legano ad una storia più ampia. Un trait d’union nelle forme, nei colori e nella gestualità a generare una narrazione fluida e obiettiva, scevra da sovrastrutture precostituite e libera di esprimersi.
Rappresenta un luogo che talvolta si fa uomo fisico, corpo individuale e collettivo, che occupa uno spazio dal quale trae la forza e con il quale intesse una relazione reciproca. Sono tutte opere che descrivono, non certo senza un velo di malinconia, posti conosciuti e riconoscibili con spunti originali e da nuove e inusuali angolazioni.
Ciò che si può leggere in gran parte della mostra è il rapporto tra D’Andrea stesso e il paesaggio che fa da specchio alla sua azione soggettiva, non tralasciando una fluidità di lettura dell’oggetto rappresentato.
In esposizione sono solo due le tele che si discostano da questo ritratto, da questo modello, prendendone invece un altro ad esempio, Francis Bacon, artista inglese, sua ispirazione e modello per molti quadri.
Nell’osservare in toto il suo lavoro l’invito è a condividere la sua irrinunciabile spinta creativa, a “mangiare l’odore del colore” - come dice lui stesso - ad usare l’istinto, a cogliere l’idea dello spirito di un artista che nell’animo è un poeta e trasforma i suoi lavori in muta poesia.
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Alain Giustiniani
Venezia tra sogno e realtà
A cura di Brigitte Giustiniani
"Da oltre vent'anni, Alain Giustiniani, artista francese nato nel 1947, vive tra Venezia e la Provenza. Il suo rapporto d'amore con la Serenissma risale ai suoi esordi da acquarellista, affascinato da Sargent, Turner e Bonington. Poi sono arrivati gli anni di maturità e la realizzazione di un sogno, vivere, almeno in parte, a Venezia. Al di là delle influenze (Hundertvasser, Zec) è stato importante per lui integrarsi con questa affascinante città, diventare un tutt'uno con lei per trascriverla sulla tela. Ha lavorato duramente a questo nei suoi laboratori di San Beneto e poi di San Samuele. Ma Venezia è storia, forza e fragilità, luce e tenebre, vita e morte. Quando [richiede] diversi approcci pittorici. Le tecniche e i materiali utilizzati rispecchiano questa diversità: olio, acrilico, tempera, vernici, collage, inchiostri, bitume, e foglia d'oro ecc. L'obiettivo è l'espressione di una esperienza, la trascrizione di un'emozione venata di malinconia o di poesia per restituirci una sensazione al di là della realtà.
I dipinti che oggi offre al nostro sguardo sono una storia di passione, un pezzo della sua vita tra sogno e realtà. "
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Enzo Montagna
Ororosso
A cura di Francesca Rizzo
Quella di Enzo Montagna è certamente una ricerca artistica da osservare e da scoprire: la sua tecnica espressiva fissa su tela e su tavola un’ardita moltitudine di dettagli che vanno cercati e individuati. Solo in questo modo si potrà gustarli pienamente e collocarli in una narrazione che restituisca all’osservatore la poesia dell’artista.
Fuoco, aria, ruggine e sincerità sono gli elementi che animano le opere di Montagna. Nel vortice di colore e di forme, ogni tela diventa portatrice del racconto di un viaggio, di una voce ascoltata, di una parola non detta. Ogni riferimento puramente figurativo viene abbandonato, in un’astrazione strutturata geometricamente, dove ogni forma fa sentire il proprio personale carattere, ogni colore una particolare sonorità, ogni segno un’immediata tensione. Dai numerosi viaggi - e in particolare dall’America latina – l’artista ha assorbito il colore e il calore della terra. Nelle sue vigorose e calde composizioni, tra le “zone” di colore, compaiono sacchi di juta, cartoni sudamericani, alfabeti e grafie di antiche civiltà oltre a graffiti metropolitani, segni dell’uomo mai stanco di lasciare una traccia e di urlare il proprio essere nel mondo. Storie di vita, quindi, di uomini e di oggetti portatori di ricordi. La vera scuola di Montagna diventa quindi il continuo scambio culturale affiancato alle relazioni con i movimenti e i maestri dell’arte – da Dada al cubismo, da Burri ad Afro - e con gli amici artisti. Nella velocità della linea-colore o attraverso la stratificazione degli smalti e degli acrilici, l’artista scruta “i volumi d’aria”, toglie materia per liberare la forma più energica, le campiture portanti, la musica interna al dipinto. Dal rosso cupo, dai fondi bituminosi, dai grigi profondi, emergono gli ori, i bianchi e i celesti quasi a dare immagine alle parole di Rimbaud: “Mentre nel deserto di bitume scappano via in disordine lampi di arancio in un cielo vinoso”. Ogni momento pittorico fa affiorare coinvolgimenti, commozioni e lieti sussulti: l’espressione naturale di Enzo Montagna è piena di rispetto per la vita che si può incontrare in un sobborgo di Lima, sulle vette andine incontaminate o tra le baraccopoli di Brasilia. L’arte non risolve i problemi ma parla il linguaggio della vitalità che pulsa nel mondo. In questo modo l’oro si fa rosso e il fuoco entra nelle fredde acque dell’indifferenza. Tra le mappe cromatiche e le isole luminose di Montagna possiamo davvero compiere un viaggio nel grandioso e nel minimo spazio.
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Maurizio Montesoro
Less is more_Meno è meglio
A cura di Gaia Conti
Maurizio Montesoro è un artista di origini genovesi che da più quarant’anni si dedica con passione all’arte pittorica. Lungo il suo percorso artistico è stato influenzato da diverse correnti dalle Avanguardie storiche, all’Informale, alla Poesia visuale, al Post informale.
Negli ultimi anni il suo lavoro si è concentrato principalmente sul concetto di Sottrazione. È una nozione dinamica in quanto è necessario accumulare, saturare, per riuscire a dare vita al movimento inverso che svuota e alleggerisce; solo avendo sperimentato il primo, il secondo ne trae un senso. Un’analisi estetica, la sua, che da un approccio figurativo, comunque sintetizzato e legato ad una visione post informale, si trasforma in un gesto sempre più sinottico e astratto, con larghe campiture di colore, ben lontano dall’arte dell’addizione così come la intendevano gli antichi. Le sue trame risultano mano a mano più scarne, irriconoscibili.
“Less is more”, celebre motto del poeta inglese R.Browning, diventato famoso come uno dei mantra dell’architetto e designer Mies Van der Rohe, sembra descrivere perfettamente lo spirito guida del pennello di Montesoro nel suo processo creativo, teso al minimalismo formale, del togliere per aggiungere valore.
“Less is more” è dunque un’esposizione che descrive con dovizia di particolari il recente approccio dell’artista al suo lavoro. La selezione di tele esposte dà l’avvio ad un alternarsi di rimandi reciproci nel quale lui recita il ruolo di comparsa. Costante è la pastosità del gesto, ma nessun titolo, nessuna indicazione da parte sua. Maurizio, dalle quinte, ci lascia liberi di entrare in un gioco che sembra quasi sfuggirgli volutamente di mano, preso invece dall’aggressività e dalla violenza dall’uso dei colori che oramai appartengono, non più a lui, ma alle sue opere.
Nello scorrere i suoi lavori penso all’intenzione a alla sua interpretazione. Questa astrazione di concetto che riflette la sua pittura come un lavorio esteriore che scava nel profondo. Stiamo assistendo ad un percorso che volutamente non descrive un mondo, ma lo evoca. Il non dire per creare.
Non semplicemente delle linee come nella pittura astratta, si leggono chiaramente dei volumi, tanto presenti, quanto scultorei. Un perfetto equilibrio tra il mettere e il togliere che lascia ampi spazi di respiro sulla tela.
Lavorare per sottrazione in pittura, “lavorare su se stessi, scalpellando via tutto ciò che di falso o inutile ci sta attaccato, e liberare, alla fine, quel che noi siamo, nella saldezza imperturbabile della magnificenza dell'esistere.” - nel rubare le parole allo scittore italiano A. Baricco nella sua recensione degli "Esercizi Spirituali e filosofia antica" [P.Hadot,1981] - ritrovo la coerenza, l’indagine e la spiritualità propria dell’artista Montesoro.
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Paolo Vannuccini
ANITYA. The invisible wall
A cura di Gaia Conti
«No, se non avessi convinzioni intellettuali, se cercassi soltanto di ricordare il passato e di duplicare con questi ricordi l'esperienza, non mi prenderei, malato come sono, la briga di scrivere.» - Marcel Proust.
Qual è la chiave di lettura dei lavori di Vannuccini?
Paolo Vannuccini è un informale. Espressione anacronistica, forse. Ma lui è, e si sente, fortemente fuori dal suo tempo. Questa, ecco, proprio questa, è la sua forza. I suoi lavori sono in tal senso le convinzioni intellettuali di Proust, non un passato da duplicare, non un’esperienza da ricordare, perché altrimenti lui, Vannuccini, non si prenderebbe la briga di dipingere. Un moto dell’animo, una spinta necessaria risiede alla base del suo racconto.
Guardando i suoi quadri si entra in una sorta di partitura disordinata, quasi un vortice, un flusso continuo. Ciò che sorprende è come il disordine, il caos sia calmo e ordinato. Una sorta di razionalità che mette in luce la forza centripeta che si sprigiona dall’immagine; ed è una continua ri-nascita.
“Rebirth” è il titolo della serie di lavori in mostra - “Tutto ciò che faccio ricomincia, - parole sue - è un movimento continuo, e la Ri-nascita di cui parlo parte proprio da questa azione, come un percorso, fatto di emozioni, di gesti e colori.”
Lavora con molti materiali diversi Paolo: poliuretano, stucco, gesso, resina, smalto. Ed è proprio quest’ultimo che crepa con acqua e solvente a creare delle ferite per palesare la sua inquietudine e abbattere il muro invisibile che gli fa da barriera, da blocco che lo circonda. Allo stesso tempo rompere quel muro che non possiamo vedere, fessurarlo appunto, gli permette di ottenere dei piccoli spiragli di luce, una ulteriore spinta verso l’esterno, una ulteriore mossa.
ANITYA, impermanenza, concetto buddista che indica come il cambiamento sia inerente a ogni esistenza fenomenica e come i processi mentali entrino in essere e si dissolvano, per poi ricominciare. Tutto ciò che l’artista riporta sulle sue tele si riavvia, è moto rotatorio e turbolento, incessante, all’interno dello stesso quadro e poi in un altro, e in un altro ancora e così via.
E si ritorna a Proust, allo scrittore del monumentale Ricerca del tempo perduto, romanzo sugli uomini e sul tempo, su quello perduto, interiore o esteriore, legato al passato, ma contemporaneamente, un tempo verso il quale tende il presente.
Impermanenza, Tempo perduto, Circolarità, Re-birth. Il tempo perduto di Vannuccini, le sue opere, non sono un tempo passato, perché sono un tempo da ricercare e da ritrovare, sono il ritrovamento continuo della sua identità.
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