L'illusione della luce / Irving Penn. Resonance / Wade Guyton. Drawings for a Small Room
Dal 13 Aprile 2014 al 31 Dicembre 2014
Venezia
Luogo: Palazzo Grassi
Indirizzo: San Samuele 3231
Orari: 10-19; chiuso martedì
Curatori: Caroline Bourgeois, Pierre Apraxine, Matthieu Humery
Costo del biglietto: intero 20 € per due musei / 15 € per un museo. Ridotto 15 € per due musei / 10 € per un museo. Scuole 10 € per due musei / 6 € per un museo
Telefono per informazioni: +39 041 5231680
Sito ufficiale: http://www.palazzograssi.it
L'illusione della luce
a cura di Caroline Bourgeois
Gli artisti della mostra sono: Eija-Lisa Ahtila, Troy Brauntuch, Marcel Broodthaers, David Claerbout, Bruce Conner, Latifa Echakhch, Dan Flavin, Vydya Gastaldon, General Idea, Gilbert & Geroge, Robert Irwin, Bertrand Lavier, Julio Le Parc, Antoni Muntadas, Philippe Parreno, Sturtevant, Claire Tabouret, Danh Vo, Doug Wheeler e Robert Whitman.
La mostra “L’Illusione della luce” si propone di esplorare i valori fisici, estetici, simbolici, filosofici, politici legati a una delle realtà essenziali dell’esperienza umana, la luce, che sin dal Rinascimento (almeno) costituisce anche una dimensione fondamentale dell’arte.
Luce come chiarore, capace di trasformare l’invisibile in visibile. Luce abbagliante che, nel momento della sua massima intensità, annulla il senso della vista. Luce rivelatrice che ci conduce oltre ciò che vediamo… Articolata tra questi estremi, l’esposizione mette in scena, attraverso le opere di venti artisti dagli anni sessanta a oggi, la profonda ambivalenza della luce, la sua straordinaria ricchezza di significati e di valori. Il visitatore è invitato a compiere un percorso di scoperta, addentrandosi nella moltitudine di sinonimi del verbo “illuminare”: accendere, analizzare, animare, brillare, chiarire, decifrare, demistificare, svelare, educare, delucidare, infiammare, arricchire, spiegare, istruire, informare, fiammeggiare, guidare, rischiarare, irradiare, mostrare, risplendere, scintillare, allietare, destare…
“L’Illusione della luce” si apre con un’opera realizzata dall’artista californiano Doug Wheeler per l’atrio di Palazzo Grassi, che ne viene interamente occupato. La luce qui si fa materia, ridefinendo lo spazio e il tempo, annullando i riferimenti percettivi del visitatore che viene condotto tra miraggio e realtà, natura e artificio, pieno e vuoto, istante e durata. Con un approccio più minimale, più distaccato, anche Robert Irwin trasforma lo spazio mediante la luce, utilizzando tubi di neon, materiali industriali lasciati a vista. Nel lavoro di Dan Flavin il rapporto con l’architettura rimanda alla storia delle avanguardie, nello specifico alla figura eminente del costruttivista russo Vladimir Tatlin. Utilizzando materiali poveri e fragili, l’installazione di Vidya Gastaldon rappresenta un contrappunto delicato e gioioso a questi esperimenti di trasformazione dello spazio.
Julio Le Parc, dagli anni sessanta uno dei principali protagonisti della Op Art, gioca sulle potenzialità ipnotiche e cinetiche della luce. Gli effetti luminosi della Marquee di Parreno sovvertono vertiginosamente il sistema di segni su cui si fonda il mondo dello spettacolo, evocandone al tempo stesso l’immediatezza, la vacuità e l’irresistibile potere di attrazione. Anche Antoni Muntadas e Robert Whitman affrontano il fascino potente della luce, ma si concentrano sulla sua forma più semplice e modesta, la lampadina elettrica, e trasfigurano un oggetto banale materializzandone la dimensione onirica. Infine, il film di Bruce Conner esercita un fascino mischiato all’orrore. Realizzato a partire da riprese effettuate nel 1946 dal governo americano durante il primo test nucleare nell’atollo di Bikini, l’opera offre un punto di vista cupo e impegnato sul mondo.
Segnati da ricerche molto diverse, fondate su media e registri radicalmente opposti, le opere di Sturtevant e Bertrand Lavier, che instaurano qui un dialogo, sono accomunate da un medesimo riferimento storico-artistico all’artista americano Frank Stella ed esplorano la dialettica nero/colore e oscurità/luce. Claire Tabouret, la più giovane tra gli artisti in mostra, si riallaccia invece a Paolo Uccello e al Rinascimento, proponendosi di evocare in un unico dipinto una pluralità di luci, dal giorno alla notte.
I dipinti neri di Troy Brauntuch sondano il cuore delle tenebre, i limiti stessi del visibile, per evocare il desiderio di vedere ogni cosa, l’ossessione visiva che permea la nostra società. Al contrario, General Idea rappresenta il bianco abbagliante per dare forma alla minaccia incombente dell’AIDS. Anche le opere di Marcel Broodthaers e di Gilbert & George parlano delle nostre paure primarie – anzitutto la paura della morte –, ma anche delle strategie di resistenza di fronte a esse. Infine l’opera di Eija-Liisa Ahtila ci invita a un’indagine introspettiva. Tra sogno e realtà, il suo lavoro evoca la necessità di affrontare una ricerca interiore, di gettare una nuova luce sulla propria storia.
Ancora luci e ombre, puntate però su una storia collettiva: quella dell’Africa di oggi, evocata da David Claerbout; quella della primavera araba, rappresentata da Latifa Echakhch; o quella del colonialismo, con cui ci invita a confrontarci la grande installazione di Danh Vo, che coinvolge e sconvolge la grande sala centrale del piano nobile.
La mostra non ambisce naturalmente a dare una risposta esaustiva alla moltitudine di interrogativi sollevati dagli artisti contemporanei sui significati e sui ruoli molteplici della luce. Invita piuttosto il visitatore a inventare, in tutta libertà, un proprio percorso personale tra le polarità opposte del bianco e nero, del giorno e della notte, della realtà e dell’illusione, alla luce della propria intelligenza e della propria sensibilità.
Irving Penn. Resonance
a cura di Pierre Apraxine, Matthieu Humery
A partire dal 13 aprile 2014, Palazzo Grassi presenta “Irving Penn, Resonance”, la prima grande esposizione dedicata al fotografo americano Irving Penn (1917 – 2009) in Italia.
L’esposizione, curata da Pierre Apraxine e Matthieu Humery, presenta al secondo piano di Palazzo Grassi 130 fotografie dalla fine degli anni ‘40 fino alla metà degli anni ‘80, e resterà aperta al pubblico fino al 31 dicembre 2014.
È la prima volta che l’istituzione Palazzo Grassi - Punta della Dogana - François Pinault Foundation presenta una mostra di fotografie dalla collezione, mostrando così un preciso impegno anche nei confronti di questo medium così importante nell’ambito della creazione artistica. Una parte di queste fotografie proviene dalla collezione di Kuniko Nomura, assemblata durante gli anni ottanta con l’aiuto di Irving Penn stesso. Il fotografo ha raccolto una selezione di opere che, secondo lui, è in grado di rappresentare una sintesi completa e coerente del suo lavoro.
L’esposizione riunisce 82 stampe al platino, 29 stampe ai sali d’ argento, 5 stampe dye-transfer a colori e 17 internegativi mai esposti prima d’ora.
La mostra ripercorre i grandi temi cari a Irving Penn che, al di là della diversità dei soggetti, hanno in comune la capacità di cogliere l’effimero in tutte le sue sfaccettature.
Ne è un esempio la selezione di fotografie della serie dei “piccoli mestieri”, realizzata in Francia, negli Stati Uniti e in Inghilterra negli anni ‘50. Convinto che quelle attività fossero destinate a scomparire, Irving Penn ha immortalato nel suo studio venditori di giornali ambulanti, straccivendoli, spazzacamini e molti altri ancora, tutti in abiti da lavoro.
Allo stesso modo, i ritratti dei grandi protagonisti del mondo della pittura, del cinema e della letteratura realizzati dal 1950 al 1970 – tra cui Pablo Picasso, Truman Capote, Marcel Duchamp, Marlene Dietrich –, esposti accanto a fotografie etnografiche degli abitanti della Repubblica di Dahomey (anni ’60), delle tribù della Nuova Guinea e del Marocco (anni ’60 e ’70), sottolineano con forza la labilità dell’esistenza dagli esseri umani, siano essi ricchi o indigenti, celebri o sconosciuti.
All’interno di questo percorso, che promuove il dialogo e le connessioni tra le opere di diversi periodi e differenti soggetti, lo still life svolge un ruolo di primissimo piano: in mostra sono raccolte fotografie realizzate dalla fine degli anni ’70 all’inizio degli anni ’80 che presentano composizioni di mozziconi di sigarette, ceste di frutta, vanitas – assemblaggi di crani, ossa e altri oggetti – così come teschi di animali fotografati al Museo di Storia Naturale a Praga nel 1986 per la serie “Cranium Architecture”.
Questo ampio panorama, in cui immagini poco conosciute affiancano pezzi iconici, offre una chiara testimonianza della particolare capacità di sintesi che caratterizza il lavoro di Irving Penn: nella sua visione, la modernità non si oppone necessariamente al passato, e il controllo assoluto di ogni fase della fotografia, dallo scatto alla stampa (alla quale dedica un’importanza e un’attenzione senza pari) permette di andare molto vicino alla verità delle cose e degli esseri viventi, in un continuo interrogarsi sul significato del tempo e su quello della vita e della sua fragilità.
Irving Penn è nato nel 1917 a Plainfield, New Jersey. Nel 1934 si iscrive alla Philadelphia Museum School of Industrial Art dove studia design con Alexey Brodovitch. Nel 1938 comincia la sua carriera professionale a New York come grafico – poi, dopo aver passato un anno in Messico a dipingere, torna a New York e inizia a lavorare per la rivista Vogue, dove Alexander Liberman è allora direttore artistico.
Liberman incoraggia Penn a realizzare la sua prima fotografia a colori, uno still life che diventa la copertina di Vogue del 1 ottobre 1943, segnando l’inizio di una felice collaborazione con la rivista che durerà fino alla scomparsa del fotografo nel 2009. Oltre al lavoro nell’editoria e nella moda per Vogue, Penn lavora per altre riviste e per numerosi clienti negli Stati Uniti e all’estero.
Durante la sua carriera ha pubblicato vari libri di fotografie, tra cui: Moments Preserved (1960); Worlds in a Small Room (1974); Inventive Paris Clothes (1977); Flowers (1980); Passage (1991); Irving Penn Regards The Work of Issey Miyake (1999); Still Life (2001); Dancer (2001); Earthly Bodies (2002); A Notebook At Random (2004); Dahomey (2004); Irving Penn: Platinum Prints (2005); Small Trades (2009); e due pubblicazioni di disegni e dipinti.
Le fotografie di Penn fanno parte delle collezioni di alcuni fra i più grandi musei degli Stati Uniti e del mondo, come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Moderna Museet di Stoccolma, la National Gallery of Art a Washington, lo Smithsonian American Art Museum a Washington, il J. Paul Getty Museum a Los Angeles e il Museum of Modern Art a New York. Quest’ultimo gli rende omaggio nel 1984 con una retrospettiva ospitata poi in dodici paesi diversi. Nel 1997 Irving Penn dona all’Art Institute di Chicago delle stampe e dei materiali di archivio. Nel mese di novembre dello stesso anno l’Art Institute inaugura una grande mostra presentata di seguito in cinque musei all’estero, tra cui l’Hermitage a San Pietroburgo, Russia.
Nel 2002 due mostre degli studi di nudi realizzati da Penn aprono contemporaneamente al pubblico a New York: “Earthly Bodies: Nudes from 1949-50” al Metropolitan Museum of Art e “Dancer: 1999 Nudes” al Whitney Museum of American Art, entrambe successivamente presentate in altre città americane e europee.
Wade Guyton. Drawings for a Small Room
Dall’apertura di Punta della Dogana nel 2009, dapprima Rudolf Stingel e successivamente Julie Mehretu hanno realizzato progetti specifici per il Cubo, nell’ambito delle mostre “Mapping the Studio” ed “Elogio del dubbio”. Dal 2013, François Pinault ha deciso di conferire a questi progetti un ritmo regolare, una cadenza autonoma e un’identità specifica nell’ambito della programmazione del complesso Palazzo Grassi-Punta della Dogana, chiedendo ogni anno a un artista di eseguire un intervento in totale libertà. Dopo Zeng Fanzhi nel maggio 2013, Wade Guyton è il secondo artista invitato a ideare un progetto per questo luogo.
Distribuita in tutto lo spazio del Cubo di Punta della Dogana, l’installazione Zeichnungen für ein kleines Zimmer (Drawings for a Small Room), 2011, di Wade Guyton è costituita da tavoli-vetrina sui quali sono impilate pagine strappate da libri d’arte o riviste a cui, grazie al passaggio in una stampante, si sovrappongono campiture di colore e forme geometriche prodotte con il software Word. Le illustrazioni originali di queste pagine risultano così interamente o parzialmente nascoste da “disegni” astratti applicati in sovraimpressione.
Delegando il gesto pittorico a una stampante e sostituendo la pittura con inchiostri industriali, Wade Guyton affida la produzione artistica a un processo meccanico e ai suoi imprevisti: incrostazioni, macchie, irregolarità di stampa e difetti di asciugatura divengono parte integrante del lavoro. Le tecnologie utilizzate, dunque, rappresentano tanto una fonte di errore quanto la possibilità di generare esiti sorprendenti.
Ristampando, manipolando e riproducendo pagine di libri, l’artista cancella i confini tra passato e presente, tra archivio e memoria ed esplora questioni quali l’originalità e la riproducibilità dell’opera e la formazione o la deformazione dell’immagine nell’era digitale.
Questo progetto ha dato vita a un libro ideato dall’artista e pubblicato da Walther König.
Wade Guyton è nato nel 1972 a Hammond, negli Stati Uniti. Vive e lavora a New York.
L’installazione presentata a Punta della Dogana da aprile 2014 fa parte di una ricerca artistica che è stata oggetto di mostre alla Kunsthalle di Zurigo (2013), al Whitney Museum of American Art di New York (2012-2013), alla Secession di Vienna (2011) e alla Galerie Capitain Petzel a Berlino (2011).
a cura di Caroline Bourgeois
Gli artisti della mostra sono: Eija-Lisa Ahtila, Troy Brauntuch, Marcel Broodthaers, David Claerbout, Bruce Conner, Latifa Echakhch, Dan Flavin, Vydya Gastaldon, General Idea, Gilbert & Geroge, Robert Irwin, Bertrand Lavier, Julio Le Parc, Antoni Muntadas, Philippe Parreno, Sturtevant, Claire Tabouret, Danh Vo, Doug Wheeler e Robert Whitman.
La mostra “L’Illusione della luce” si propone di esplorare i valori fisici, estetici, simbolici, filosofici, politici legati a una delle realtà essenziali dell’esperienza umana, la luce, che sin dal Rinascimento (almeno) costituisce anche una dimensione fondamentale dell’arte.
Luce come chiarore, capace di trasformare l’invisibile in visibile. Luce abbagliante che, nel momento della sua massima intensità, annulla il senso della vista. Luce rivelatrice che ci conduce oltre ciò che vediamo… Articolata tra questi estremi, l’esposizione mette in scena, attraverso le opere di venti artisti dagli anni sessanta a oggi, la profonda ambivalenza della luce, la sua straordinaria ricchezza di significati e di valori. Il visitatore è invitato a compiere un percorso di scoperta, addentrandosi nella moltitudine di sinonimi del verbo “illuminare”: accendere, analizzare, animare, brillare, chiarire, decifrare, demistificare, svelare, educare, delucidare, infiammare, arricchire, spiegare, istruire, informare, fiammeggiare, guidare, rischiarare, irradiare, mostrare, risplendere, scintillare, allietare, destare…
“L’Illusione della luce” si apre con un’opera realizzata dall’artista californiano Doug Wheeler per l’atrio di Palazzo Grassi, che ne viene interamente occupato. La luce qui si fa materia, ridefinendo lo spazio e il tempo, annullando i riferimenti percettivi del visitatore che viene condotto tra miraggio e realtà, natura e artificio, pieno e vuoto, istante e durata. Con un approccio più minimale, più distaccato, anche Robert Irwin trasforma lo spazio mediante la luce, utilizzando tubi di neon, materiali industriali lasciati a vista. Nel lavoro di Dan Flavin il rapporto con l’architettura rimanda alla storia delle avanguardie, nello specifico alla figura eminente del costruttivista russo Vladimir Tatlin. Utilizzando materiali poveri e fragili, l’installazione di Vidya Gastaldon rappresenta un contrappunto delicato e gioioso a questi esperimenti di trasformazione dello spazio.
Julio Le Parc, dagli anni sessanta uno dei principali protagonisti della Op Art, gioca sulle potenzialità ipnotiche e cinetiche della luce. Gli effetti luminosi della Marquee di Parreno sovvertono vertiginosamente il sistema di segni su cui si fonda il mondo dello spettacolo, evocandone al tempo stesso l’immediatezza, la vacuità e l’irresistibile potere di attrazione. Anche Antoni Muntadas e Robert Whitman affrontano il fascino potente della luce, ma si concentrano sulla sua forma più semplice e modesta, la lampadina elettrica, e trasfigurano un oggetto banale materializzandone la dimensione onirica. Infine, il film di Bruce Conner esercita un fascino mischiato all’orrore. Realizzato a partire da riprese effettuate nel 1946 dal governo americano durante il primo test nucleare nell’atollo di Bikini, l’opera offre un punto di vista cupo e impegnato sul mondo.
Segnati da ricerche molto diverse, fondate su media e registri radicalmente opposti, le opere di Sturtevant e Bertrand Lavier, che instaurano qui un dialogo, sono accomunate da un medesimo riferimento storico-artistico all’artista americano Frank Stella ed esplorano la dialettica nero/colore e oscurità/luce. Claire Tabouret, la più giovane tra gli artisti in mostra, si riallaccia invece a Paolo Uccello e al Rinascimento, proponendosi di evocare in un unico dipinto una pluralità di luci, dal giorno alla notte.
I dipinti neri di Troy Brauntuch sondano il cuore delle tenebre, i limiti stessi del visibile, per evocare il desiderio di vedere ogni cosa, l’ossessione visiva che permea la nostra società. Al contrario, General Idea rappresenta il bianco abbagliante per dare forma alla minaccia incombente dell’AIDS. Anche le opere di Marcel Broodthaers e di Gilbert & George parlano delle nostre paure primarie – anzitutto la paura della morte –, ma anche delle strategie di resistenza di fronte a esse. Infine l’opera di Eija-Liisa Ahtila ci invita a un’indagine introspettiva. Tra sogno e realtà, il suo lavoro evoca la necessità di affrontare una ricerca interiore, di gettare una nuova luce sulla propria storia.
Ancora luci e ombre, puntate però su una storia collettiva: quella dell’Africa di oggi, evocata da David Claerbout; quella della primavera araba, rappresentata da Latifa Echakhch; o quella del colonialismo, con cui ci invita a confrontarci la grande installazione di Danh Vo, che coinvolge e sconvolge la grande sala centrale del piano nobile.
La mostra non ambisce naturalmente a dare una risposta esaustiva alla moltitudine di interrogativi sollevati dagli artisti contemporanei sui significati e sui ruoli molteplici della luce. Invita piuttosto il visitatore a inventare, in tutta libertà, un proprio percorso personale tra le polarità opposte del bianco e nero, del giorno e della notte, della realtà e dell’illusione, alla luce della propria intelligenza e della propria sensibilità.
Irving Penn. Resonance
a cura di Pierre Apraxine, Matthieu Humery
A partire dal 13 aprile 2014, Palazzo Grassi presenta “Irving Penn, Resonance”, la prima grande esposizione dedicata al fotografo americano Irving Penn (1917 – 2009) in Italia.
L’esposizione, curata da Pierre Apraxine e Matthieu Humery, presenta al secondo piano di Palazzo Grassi 130 fotografie dalla fine degli anni ‘40 fino alla metà degli anni ‘80, e resterà aperta al pubblico fino al 31 dicembre 2014.
È la prima volta che l’istituzione Palazzo Grassi - Punta della Dogana - François Pinault Foundation presenta una mostra di fotografie dalla collezione, mostrando così un preciso impegno anche nei confronti di questo medium così importante nell’ambito della creazione artistica. Una parte di queste fotografie proviene dalla collezione di Kuniko Nomura, assemblata durante gli anni ottanta con l’aiuto di Irving Penn stesso. Il fotografo ha raccolto una selezione di opere che, secondo lui, è in grado di rappresentare una sintesi completa e coerente del suo lavoro.
L’esposizione riunisce 82 stampe al platino, 29 stampe ai sali d’ argento, 5 stampe dye-transfer a colori e 17 internegativi mai esposti prima d’ora.
La mostra ripercorre i grandi temi cari a Irving Penn che, al di là della diversità dei soggetti, hanno in comune la capacità di cogliere l’effimero in tutte le sue sfaccettature.
Ne è un esempio la selezione di fotografie della serie dei “piccoli mestieri”, realizzata in Francia, negli Stati Uniti e in Inghilterra negli anni ‘50. Convinto che quelle attività fossero destinate a scomparire, Irving Penn ha immortalato nel suo studio venditori di giornali ambulanti, straccivendoli, spazzacamini e molti altri ancora, tutti in abiti da lavoro.
Allo stesso modo, i ritratti dei grandi protagonisti del mondo della pittura, del cinema e della letteratura realizzati dal 1950 al 1970 – tra cui Pablo Picasso, Truman Capote, Marcel Duchamp, Marlene Dietrich –, esposti accanto a fotografie etnografiche degli abitanti della Repubblica di Dahomey (anni ’60), delle tribù della Nuova Guinea e del Marocco (anni ’60 e ’70), sottolineano con forza la labilità dell’esistenza dagli esseri umani, siano essi ricchi o indigenti, celebri o sconosciuti.
All’interno di questo percorso, che promuove il dialogo e le connessioni tra le opere di diversi periodi e differenti soggetti, lo still life svolge un ruolo di primissimo piano: in mostra sono raccolte fotografie realizzate dalla fine degli anni ’70 all’inizio degli anni ’80 che presentano composizioni di mozziconi di sigarette, ceste di frutta, vanitas – assemblaggi di crani, ossa e altri oggetti – così come teschi di animali fotografati al Museo di Storia Naturale a Praga nel 1986 per la serie “Cranium Architecture”.
Questo ampio panorama, in cui immagini poco conosciute affiancano pezzi iconici, offre una chiara testimonianza della particolare capacità di sintesi che caratterizza il lavoro di Irving Penn: nella sua visione, la modernità non si oppone necessariamente al passato, e il controllo assoluto di ogni fase della fotografia, dallo scatto alla stampa (alla quale dedica un’importanza e un’attenzione senza pari) permette di andare molto vicino alla verità delle cose e degli esseri viventi, in un continuo interrogarsi sul significato del tempo e su quello della vita e della sua fragilità.
Irving Penn è nato nel 1917 a Plainfield, New Jersey. Nel 1934 si iscrive alla Philadelphia Museum School of Industrial Art dove studia design con Alexey Brodovitch. Nel 1938 comincia la sua carriera professionale a New York come grafico – poi, dopo aver passato un anno in Messico a dipingere, torna a New York e inizia a lavorare per la rivista Vogue, dove Alexander Liberman è allora direttore artistico.
Liberman incoraggia Penn a realizzare la sua prima fotografia a colori, uno still life che diventa la copertina di Vogue del 1 ottobre 1943, segnando l’inizio di una felice collaborazione con la rivista che durerà fino alla scomparsa del fotografo nel 2009. Oltre al lavoro nell’editoria e nella moda per Vogue, Penn lavora per altre riviste e per numerosi clienti negli Stati Uniti e all’estero.
Durante la sua carriera ha pubblicato vari libri di fotografie, tra cui: Moments Preserved (1960); Worlds in a Small Room (1974); Inventive Paris Clothes (1977); Flowers (1980); Passage (1991); Irving Penn Regards The Work of Issey Miyake (1999); Still Life (2001); Dancer (2001); Earthly Bodies (2002); A Notebook At Random (2004); Dahomey (2004); Irving Penn: Platinum Prints (2005); Small Trades (2009); e due pubblicazioni di disegni e dipinti.
Le fotografie di Penn fanno parte delle collezioni di alcuni fra i più grandi musei degli Stati Uniti e del mondo, come il Metropolitan Museum of Art di New York, il Moderna Museet di Stoccolma, la National Gallery of Art a Washington, lo Smithsonian American Art Museum a Washington, il J. Paul Getty Museum a Los Angeles e il Museum of Modern Art a New York. Quest’ultimo gli rende omaggio nel 1984 con una retrospettiva ospitata poi in dodici paesi diversi. Nel 1997 Irving Penn dona all’Art Institute di Chicago delle stampe e dei materiali di archivio. Nel mese di novembre dello stesso anno l’Art Institute inaugura una grande mostra presentata di seguito in cinque musei all’estero, tra cui l’Hermitage a San Pietroburgo, Russia.
Nel 2002 due mostre degli studi di nudi realizzati da Penn aprono contemporaneamente al pubblico a New York: “Earthly Bodies: Nudes from 1949-50” al Metropolitan Museum of Art e “Dancer: 1999 Nudes” al Whitney Museum of American Art, entrambe successivamente presentate in altre città americane e europee.
Wade Guyton. Drawings for a Small Room
Dall’apertura di Punta della Dogana nel 2009, dapprima Rudolf Stingel e successivamente Julie Mehretu hanno realizzato progetti specifici per il Cubo, nell’ambito delle mostre “Mapping the Studio” ed “Elogio del dubbio”. Dal 2013, François Pinault ha deciso di conferire a questi progetti un ritmo regolare, una cadenza autonoma e un’identità specifica nell’ambito della programmazione del complesso Palazzo Grassi-Punta della Dogana, chiedendo ogni anno a un artista di eseguire un intervento in totale libertà. Dopo Zeng Fanzhi nel maggio 2013, Wade Guyton è il secondo artista invitato a ideare un progetto per questo luogo.
Distribuita in tutto lo spazio del Cubo di Punta della Dogana, l’installazione Zeichnungen für ein kleines Zimmer (Drawings for a Small Room), 2011, di Wade Guyton è costituita da tavoli-vetrina sui quali sono impilate pagine strappate da libri d’arte o riviste a cui, grazie al passaggio in una stampante, si sovrappongono campiture di colore e forme geometriche prodotte con il software Word. Le illustrazioni originali di queste pagine risultano così interamente o parzialmente nascoste da “disegni” astratti applicati in sovraimpressione.
Delegando il gesto pittorico a una stampante e sostituendo la pittura con inchiostri industriali, Wade Guyton affida la produzione artistica a un processo meccanico e ai suoi imprevisti: incrostazioni, macchie, irregolarità di stampa e difetti di asciugatura divengono parte integrante del lavoro. Le tecnologie utilizzate, dunque, rappresentano tanto una fonte di errore quanto la possibilità di generare esiti sorprendenti.
Ristampando, manipolando e riproducendo pagine di libri, l’artista cancella i confini tra passato e presente, tra archivio e memoria ed esplora questioni quali l’originalità e la riproducibilità dell’opera e la formazione o la deformazione dell’immagine nell’era digitale.
Questo progetto ha dato vita a un libro ideato dall’artista e pubblicato da Walther König.
Wade Guyton è nato nel 1972 a Hammond, negli Stati Uniti. Vive e lavora a New York.
L’installazione presentata a Punta della Dogana da aprile 2014 fa parte di una ricerca artistica che è stata oggetto di mostre alla Kunsthalle di Zurigo (2013), al Whitney Museum of American Art di New York (2012-2013), alla Secession di Vienna (2011) e alla Galerie Capitain Petzel a Berlino (2011).
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