Dario Gnemmi. Cronache della Wunderkammer
Dal 21 Luglio 2015 al 30 Settembre 2015
Domodossola | Verbano-Cusio-Ossola
Luogo: Museo Immaginario
Indirizzo: via Mellerio 2
Curatori: Marcovinici
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 339 3294909
E-Mail info: museoimmaginario@hotmail.it
Sito ufficiale: http://museoimmaginario.blogspot.it
Diceva Boris Pasternak che riusciamo a riconoscere il valore di alcune cose solo perdendole. Verità antica, che vale anche, soprattutto, riguardo a Dario Gnemmi (1957 – 2005). Studioso eclettico, polimorfico, dalla forte nervatura filosofica, passò con felicità da Clemente Rebora a Nicolas De Stael. Eppure, la sua qualità è quella rara del restauratore, di chi rifila l'arazzo del tempo. E' anche grazie al maiuscolo, puntuale sforzo di Gnemmi che conosciamo con tale profondità gli eroici pittori della valle Vigezzo. Stilo da sapiente, sì, ma anche mano da romanziere (i suoi amati artisti vengono a noi con le fattezze vigorose che hanno gli eroi di Balzac, con quelle lunatiche ed estreme disegnate da Gogol'), da chi sa che scrivendo non solo si evoca un mondo, ma lo si ricostruisce, lo si crea.
Davide Brullo
Testo tratto da Vigezzini di Francia, Skira 2007.
“L’interesse per un periodo storico può essere destato dalla curiosità o dalla simpatia per un dettaglio minore, per ciò che in gergo può essere definito un indizio di peso, che certo avrà, nel piacere del fruitore, la funzione primaria di decodificare un contesto, di chiarire una ricostruzione puramente legata a quella sorta di immagine della mente che ogni immagine di piena fruibilità ci obbliga a definire.
Non che manchi in questa fenomenologia del collezionista l’approccio estetico alle opere, l’analisi, la valutazione di quel fascino sottile fatto di equilibri, di eloquente retorica dell’immagine, di sapienza costruttiva dell’iconografia che, in una parola e senza disturbare le sottili distinzioni della scienza estetica, chiamiamo “ bellezza” e più logica inclinazione ad essa.
Proprio perché belle, certe opere richiamano con forza l’attenzione e, dopo aver soggiogato in qualche modo chi le guarda, ne determinano il desiderio più puro del possesso.
E’ in questa fase che si esalta la volontà di conoscere meglio il pittore che ha firmato un’opera, il suo percorso culturale, il contesto sociale che ne ha prodotto gli indirizzi, lo sviluppo contestuale di botteghe e di maniere che sanciscono, condizionano, frenano o producono. Ancor più intrigante diventa il percorso privo delle protezioni offerte da una certificazione credibile, da una precisa ricostruzione storica dei passaggi e delle proprietà, da una tradizionale ed inconfutabile attribuzione magari basata sull’evidenziarsi apparente dei segni stilistici che contraddistinguono un autore.
Quando un’opera è senza nome e la sua appartenenza ad una scuola ha come unico viatico la sicura documentabilità di un’epoca, il piacere del collezionista si moltiplica all’infinito, diventa un gioco sottile di domande e di rimandi, di risposte affermative e di sventurate cadute nel vuoto attributivo, di piacevoli piccoli passi nella scoperta di qualcosa di infinitesimale, eppure a volte determinante, o davvero importante. E’ nel dettaglio minimo che si nasconde la più chiara delle verità. Ma al dettaglio va dato spazio, bisogna suscitare con e attraverso il dettaglio quella magia sottile che sa essere via maestra per comprendere, per cogliere il costrutto davvero assai complesso cui fa riferimento un’opera e il suo autore”.
Dario Gnemmi
Testo inedito tratto da Quadri mai visti.
Le vite immaginarie di Dario
Un artista non può conoscere il segreto, fragile come un nido di vetro, della sua opera – altrimenti essa si disintegrerebbe. Perciò l’artista – poeta o pittore o estremista – non ha nulla da rilevare: attende, piuttosto, di essere rivelato.
Dario è il nome di una dinastia di re. Secondo la lingua persiana significa “l’uomo che possiede il bene”. Dario Gnemmi, con la grazia di chi assolve un segreto, non ha semplicemente compilato un regesto di artisti, incolonnando destini burocratici. Ha spodestato l’oblio dalla vita – ha custodito l’intimo degli artisti, il loro bene inafferrabile, inaffidabile.
Ad esempio. Con l’efficacia di un visionario, di chi legge i quadri con scienza astronomica e preveggenza da cartomante, Dario ha squadernato la gioia della scuola vigezzina, finché gli allievi del Cavalli, scapestrati e feroci, non sono tridimensionalmente diventati davanti ai nostri occhi una sorta di “stil novo” dell’arte italiana.
Da vero maestro Dario aveva in adorazione i suoi maestri, Federico Zeri sopra tutti, a cui lo legò l’impresa esegetica – segata dai cretini imperanti – dell’attribuzione degli affreschi alla Basilica Superiore di San Francesco e dell’epopea dei giotteschi in Assisi.
Disseppellitore di vite segregate sotto la selva pittorica – che tremenda sapienza la scoperta del Cimabue inedito e incompreso – Gnemmi ha disseminato il suo talento in un volo di studi ormai necessari. Soprattutto, aveva l’ansia e l’abbraccio dello scrittore, decrittava stirpi di artisti con la profondità di un Marcel Schwob, di un ritrattista bizantino.
Mi immagino Dario regale nel suo giardino – immaginario anch’esso, ormai – degno di un Rousseau, di un Marco Polo con la benda sul viso (giacché il veneziano comprese che non contano i fatti ma i racconti). Forse sapeva l’arte del mutarsi in pantera, la statura della compassione.
Dario ha ridato la vita perché ha rivissuto tutti i dolori degli artisti in cui è sprofondato.
Sapeva, Dario, che ha posseduto il bene, che tutto, senza concessioni né conversioni, dura quanto una nuvola. L’arte, gli studi, le scritture. Per questo, nel massacro, è necessario guardare, testimoniare, amare – fregiarsi del compito di far filologia sulle nuvole, e accamparsi lì.
Non si commemora – ci si inginocchia.
Davide Brullo
Testo tratto da Vigezzini di Francia, Skira 2007.
“L’interesse per un periodo storico può essere destato dalla curiosità o dalla simpatia per un dettaglio minore, per ciò che in gergo può essere definito un indizio di peso, che certo avrà, nel piacere del fruitore, la funzione primaria di decodificare un contesto, di chiarire una ricostruzione puramente legata a quella sorta di immagine della mente che ogni immagine di piena fruibilità ci obbliga a definire.
Non che manchi in questa fenomenologia del collezionista l’approccio estetico alle opere, l’analisi, la valutazione di quel fascino sottile fatto di equilibri, di eloquente retorica dell’immagine, di sapienza costruttiva dell’iconografia che, in una parola e senza disturbare le sottili distinzioni della scienza estetica, chiamiamo “ bellezza” e più logica inclinazione ad essa.
Proprio perché belle, certe opere richiamano con forza l’attenzione e, dopo aver soggiogato in qualche modo chi le guarda, ne determinano il desiderio più puro del possesso.
E’ in questa fase che si esalta la volontà di conoscere meglio il pittore che ha firmato un’opera, il suo percorso culturale, il contesto sociale che ne ha prodotto gli indirizzi, lo sviluppo contestuale di botteghe e di maniere che sanciscono, condizionano, frenano o producono. Ancor più intrigante diventa il percorso privo delle protezioni offerte da una certificazione credibile, da una precisa ricostruzione storica dei passaggi e delle proprietà, da una tradizionale ed inconfutabile attribuzione magari basata sull’evidenziarsi apparente dei segni stilistici che contraddistinguono un autore.
Quando un’opera è senza nome e la sua appartenenza ad una scuola ha come unico viatico la sicura documentabilità di un’epoca, il piacere del collezionista si moltiplica all’infinito, diventa un gioco sottile di domande e di rimandi, di risposte affermative e di sventurate cadute nel vuoto attributivo, di piacevoli piccoli passi nella scoperta di qualcosa di infinitesimale, eppure a volte determinante, o davvero importante. E’ nel dettaglio minimo che si nasconde la più chiara delle verità. Ma al dettaglio va dato spazio, bisogna suscitare con e attraverso il dettaglio quella magia sottile che sa essere via maestra per comprendere, per cogliere il costrutto davvero assai complesso cui fa riferimento un’opera e il suo autore”.
Dario Gnemmi
Testo inedito tratto da Quadri mai visti.
Le vite immaginarie di Dario
Un artista non può conoscere il segreto, fragile come un nido di vetro, della sua opera – altrimenti essa si disintegrerebbe. Perciò l’artista – poeta o pittore o estremista – non ha nulla da rilevare: attende, piuttosto, di essere rivelato.
Dario è il nome di una dinastia di re. Secondo la lingua persiana significa “l’uomo che possiede il bene”. Dario Gnemmi, con la grazia di chi assolve un segreto, non ha semplicemente compilato un regesto di artisti, incolonnando destini burocratici. Ha spodestato l’oblio dalla vita – ha custodito l’intimo degli artisti, il loro bene inafferrabile, inaffidabile.
Ad esempio. Con l’efficacia di un visionario, di chi legge i quadri con scienza astronomica e preveggenza da cartomante, Dario ha squadernato la gioia della scuola vigezzina, finché gli allievi del Cavalli, scapestrati e feroci, non sono tridimensionalmente diventati davanti ai nostri occhi una sorta di “stil novo” dell’arte italiana.
Da vero maestro Dario aveva in adorazione i suoi maestri, Federico Zeri sopra tutti, a cui lo legò l’impresa esegetica – segata dai cretini imperanti – dell’attribuzione degli affreschi alla Basilica Superiore di San Francesco e dell’epopea dei giotteschi in Assisi.
Disseppellitore di vite segregate sotto la selva pittorica – che tremenda sapienza la scoperta del Cimabue inedito e incompreso – Gnemmi ha disseminato il suo talento in un volo di studi ormai necessari. Soprattutto, aveva l’ansia e l’abbraccio dello scrittore, decrittava stirpi di artisti con la profondità di un Marcel Schwob, di un ritrattista bizantino.
Mi immagino Dario regale nel suo giardino – immaginario anch’esso, ormai – degno di un Rousseau, di un Marco Polo con la benda sul viso (giacché il veneziano comprese che non contano i fatti ma i racconti). Forse sapeva l’arte del mutarsi in pantera, la statura della compassione.
Dario ha ridato la vita perché ha rivissuto tutti i dolori degli artisti in cui è sprofondato.
Sapeva, Dario, che ha posseduto il bene, che tutto, senza concessioni né conversioni, dura quanto una nuvola. L’arte, gli studi, le scritture. Per questo, nel massacro, è necessario guardare, testimoniare, amare – fregiarsi del compito di far filologia sulle nuvole, e accamparsi lì.
Non si commemora – ci si inginocchia.
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