Breve biografia di un pittore-filosofo
Mengs
12/03/2001
Winckelmann considerava Mengs il maggiore artista del suo tempo, e forse anche dei “tempi a venire”. Diceva di lui che era “rinato dalle ceneri del primo Raffaello per insegnare al mondo la bellezza dell’arte”. Nel 1829 il critico Pietro Giordani poteva ancora scrivere: “è un ristoratore delle arti, il più grande pittore del suo secolo”. Sulle colonne dei giornali d’arte si leggeva: “pittore filosofo”, “Raffaello tedesco”, “moderno Apelle”, “il più grande che l’Europa possieda”.
Anton Raphael Mengs nacque ad Aussig nel 1728. Il padre Ismael, pittore presso la corte di Dresda, gli impartì un’educazione tirannica. Accortosi delle attitudini artistiche del figlio, a dodici anni lo condusse a Roma, sottoponendolo a massacranti sedute di disegno davanti agli affreschi vaticani di Raffaello.
Di ritorno in patria, il piccolo Anton venne nominato pittore di corte. Il re Augusto III di Sassonia, committente di Rosalba Carriera e amante dell’Italia, mise a disposizione del promettente quindicenne la propria collezione d’arte e gli commissionò i primi ritratti.
Con i soldi messi da parte in otto anni, il giovane pittore, deciso ad accelerare le tappe della carriera, se ne tornò a Roma. Sposò una ragazza romana del borgo di San Pietro, Margherita Guazzi, e se ne andò a vivere in via Vittoria (all’attuale civico 54), in prossimità di via del Corso e Piazza del Popolo, in quello che era il quartiere degli artisti, dei viaggiatori e degli antiquari. Fu ammesso quasi subito all’Accademia di San Luca (della quale divenne nel 1771 presidente). Conobbe Giacomo Casanova e, quando raggiunse la città Johann Joachim Winckelmann, nel 1755, ne divenne amico e confidente. Fu Mengs a presentare allo studioso tedesco Robert Adam, Thomas Hope, Lord Charlemont, James Stuart, tutti protagonisti di quello che di lì a poco sarebbe andato sotto il nome di “greek revival”. Nel 1758 dipinse l’affresco della volta della chiesa di Sant’Eusebio, nei pressi dell’odierna Piazza Vittorio, e il Ritratto di Clemente XIII. Diffuse i nuovi ideali estetici attraverso l’insegnamento all’Accademia Capitolina (dal 1754) e diede loro forma con il programmatico affresco del Parnaso (1761), dichiaratamente ispirato all’analogo soggetto raffaellesco e ai principi di Winckelmann.
Nel dipinto Mengs perseguì la “nobile semplicità e quieta grandezza”, indicata come elemento determinante della superiorità dell’arte antica, e mirò a ricreare l’idea di perfezione classica mediante citazioni e variazioni di brani di scultura, affreschi di Ercolano, ecc. Ne venne fuori una composizione quasi priva di profondità e di intrecci di volumi e figure. Le due fanciulle danzanti, l’episodio più felice della rappresentazione, furono riprese dalle Danzatrici dipinte nella cosiddetta villa di Cicerone a Pompei, che erano state giudicate da Winckelmann “fluide quanto il pensiero e belle come se fossero fatte per mano delle grazie”.
All’apice della fama l’artista fu chiamato a Madrid, a lavorare nel Palazzo Reale, sontuosa residenza di Carlo III di Borbone. Qui fu dal 1762 al 1771 e dal 1774 al 1777. Durante il primo soggiorno vi incontrò Giambattista Tiepolo, artista che gli era in tutto opposto: poco propenso all’elucubrazione teorica, massimo fautore di una pittura rapida, spigliata, veloce, dai colori vivaci e dalle soluzioni compositive poco aderenti ai dettami classicistici. In breve tempo Mengs conquistò le preferenze degli uomini di corte. Venne pagato molto di più del veneziano ed ebbe responsabilità più vaste con la nomina a “primos pintos del Rey”. Si creò una folta schiera di allievi (tra i quali eccelse il grande Francisco Goya) e curò personalmente la realizzazione delle incisioni (e dunque delle stampe) delle sue opere a fresco.
A Roma, dal 1772 al 1774 e poi nei due ultimi anni di vita, dipinse decine e decine di ritratti, quadri di soggetto religioso e numerose scene mitologiche, le sue preferite. Ogni lavoro venne da lui interpretato come un esercizio di sapienza e di perfezionamento stilistico. Nei ritratti soprattutto egli mise in scena un’umanità fiera ma non gradassa, elegante e sensibile ai valori del bello e del buono universale. Uomo dal temperamento malinconico e depresso, si ritrasse spesso. E’ forse in questi dipinti che egli diede il meglio di sé, abbandonandosi all’ammissione di insoddisfazioni e inquietudini personali.
Alla morte, giunta a soli cinquantuno anni, l’amico José Nicolas De Azara gli fece erigere un monumento al Pantheon, accanto alla tomba di Raffaello. Gian Ludovico Bianconi pubblicò una biografia a puntate sull’ “Antologia Romana”. Fu un tale successo che se ne decise la stampa in volume unico e la traduzione immediata in tedesco. Nel 1784 la pubblicazione della corrispondenza tra Mengs e Winckelmann, curata da Carlo Fea, decretò la consacrazione definitiva, come teorico del Neoclassicismo, dell’artista.
Mengs sperperò in vita il suo immenso patrimonio. Alla moglie, dopo aver pagato le spese del funerale, non rimasero che pochi spiccioli.
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