Canaletto: un veneziano alla conquista dell’Inghilterra

Canaletto
 

13/02/2001

“Supera tutto ciò che è mai esistito […]. La sua maniera è luminosa, gaia, viva, trasparente e mirabilmente minuziosa. Gli inglesi hanno a tal punto viziato questo artista, offrendogli per i suoi quadri tre volte di più di quanto ne chieda egli stesso, che non è più possibile comprar nulla da lui” commentava un insigne viaggiatore francese, scrivendo alla famiglia dall’Italia nel 1739. Antonio Canal, detto il Canaletto, ricevette già in vita onori e lodi. Committenti italiani, tedeschi e soprattutto britannici lo coprirono d’oro e ne fecero il modello dell’artista svincolato dagli obblighi dell’Accademia, impegnato nella realizzazione di quadri profani di medie dimensioni, adatti all’arredo delle dimore borghesi e signorili. Egli nacque a Venezia nel 1697, da un padre pittore e scenografo di una certa fama. I suoi esordi furono all’interno della bottega artigiana di famiglia dove, dato il mestiere, fondamentale era la conoscenza e l’applicazione delle regole della prospettiva architettonica e illusionistica. Nel 1719 la realizzazione delle scene del Tito Sempronio Greco e del Turno Auricino di Alessandro Scarlatti spinse il giovane Canaletto a Roma. Fu là che egli “scomunicò solennemente il teatro” e, venuto a contatto con i capricci architettonici e le vedute della città di Viviano Codazzi (1604-1670), Gaspar Van Wittel (1653-1736) e Giovanni Paolo Pannini (1691-1765), prese a realizzare una serie di “scaraboti” (così egli li definì) davanti ai monumenti antichi del Foro, del Campidoglio, del Campo Marzio. Tornato l’anno seguente in patria, cominciò a tracciare sul taccuino personale vedute di Venezia “en plein air”, con l’ausilio della camera ottica. Lo strumento, già utilizzato nei Paesi Bassi alla metà del Seicento, permetteva al pittore un approccio rigoroso al paesaggio architettonico, trasposto dettagliatamente sul foglio di carta. In studio egli scomponeva e ricomponeva i disegni, alterando le vedute, concedendosi licenze poetiche, deformando insomma il dato reale. Nel Canal Grande da palazzo Balbi verso Rialto, nel Rio dei Mendicanti (entrambe a Ca’ Rezzonico), nella Piazza San Marco della collezione Thyssen Bornemisza di Madrid, tutte datate tra il 1719 e il 1723, Canaletto esaltò i contrasti chiaroscurali tra le zone in ombra e quelle soleggiate, ricorrendo ad una gamma cromatica verde-azzurra e grigio-argento, fredda, e ai toni brumacei della tavolozza del conterraneo Marco Ricci, grande pittore di paesaggio. Alla fine degli anni Venti l’artista entrò in contatto con il primo compratore inglese, Owen Mc Swiney, spregiudicato impresario teatrale e mercante d’arte che gli commissionò due Capricci con tombe allegoriche di Lord Somers e dell’arcivescovo Tillotson, parte di una serie di ventiquattro tele dedicate alla celebrazione di famosi personaggi britannici del secondo Seicento. L’artista si misurò così con il genere del capriccio architettonico, proprio della cultura del “pittoresco” tipica mondo illuminista settecentesco. Egli schiarì intanto la tavolozza, abbandonando i toni cupi e violacei, carichi di umori romantici, in favore di una luminosità cristallina e solare, più consona al gusto degli acquirenti inglesi. Il massimo esito venne raggiunto nel Ritorno del Bucintoro al molo nel giorno dell’Ascensione, appartenuto a Caterina II di Russia (Mosca, Museo Puskin). Canaletto realizzò in questo periodo due dei suoi capolavori, Il laboratorio del tagliapietra (Londra, National Gallery) e Il Fonteghetto della Farina (Venezia, collezione privata). Al 1730 risale la conoscenza di Joseph Smith, banchiere, mercante, uomo di cultura, futuro console britannico a Venezia, che “lanciò” definitivamente il pittore commissionandogli dodici vedute della città, una sorta di campionario per i potenziali acquirenti, ospiti nel suo palazzo ai Santi Apostoli. Nel 1735 Visentini tradusse in incisione i dipinti di proprietà Smith: le vedute conquistarono nel giro di pochi mesi il pubblico d’oltremanica. Del 1738 è lo stupefacente Bacino di San Marco (Boston, Museum of Fine Arts) dove Canaletto “dilata” lo spazio, come se lo vedesse attraverso un grandangolo, a cercare la veduta panoramica abbassando la linea dell’orizzonte. All’apice della fama, l’artista si trasferì nel 1746 a Londra. Là, per dieci anni, fu in contatto con una realtà urbana, climatica e storica profondamente diversa che gli diede l’opportunità di meditare e di ripensare il suo approccio al “vero”. Realizzò nello studio di Silver Street (l’attuale Beak Street, presso Regent’s Park) numerose vedute panoramiche, nelle quali animò i primi piani di un’umanità attiva e ciarliera. I numerosi dipinti (tra i quali vale la pena ricordare il Tamigi dalla terrazza della Somerset House, la Veduta del castello di Warwick, il Ponte di Walton) sono purtroppo inaccessibili al grande pubblico, custoditi nelle residenze private dell’aristocrazia inglese. Canaletto scelse il ritorno a Venezia per dedicarsi ai capricci e alle vedute di fantasia. Nel Capriccio con il ponte di Rialto (Parma, Galleria Nazionale) egli raffigurò il celebre ponte secondo la ristrutturazione cinquecentesca, di impianto classicheggiante, progettata da Andrea Palladio e mai realizzata; nel Capriccio con motivi classici (Milano, Museo Poldi Pezzoli) rielaborò le suggestioni del giovanile viaggio romano, mostrando di aderire al gusto del tempo per il paesaggio pittoresco. Quando il maestro morì, nel 1768, dopo aver ottenuto una tarda ammissione all’Accademia di Pittura e Scultura della città, non lasciò discepoli. Il richiamo di Venezia, grazie ai suoi capolavori, si era fatto però potente: masse di artisti e di viaggiatori arrivarono dall’Inghilterra in laguna per tutta la seconda metà del Settecento, e ancora oltre.

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