Oltre la riapertura, la parola all'esperto
Guido Guerzoni: ripartire dai depositi e dalle collezioni per portare un nuovo museo ai visitatori
Guido Guerzoni
Samantha De Martin
08/05/2020
Nel pensare a un New deal dell’arte, al tempo della ripartenza dopo l’emergenza coronavirus, Guido Guerzoni esprime alcune considerazioni sullo stato attuale dei musei italiani, aprendo a riflessioni sul futuro che vanno oltre le soluzioni a breve termine imposte dalla fatidica “Fase 2”.
Portare il museo fuori dai propri confini fisici, puntare sui depositi e sulle collezioni permanenti (il cui concetto andrebbe completamente ripensato) potrebbe essere il primo step per sedurre anche un pubblico di comunità, visto che, almeno per alcuni mesi, bisognerà rinunciare al turismo internazionale.
Docente presso l’Università Bocconi ed esperto di gestione museale, progettazione e pianificazione culturale, oltre che “padre” dell’M9 di Venezia-Mestre, il più importante museo multimediale immersivo italiano, Guerzoni offre alcuni spunti per riflettere sulla situazione dei musei del Paese, ma anche sul loro futuro, alla vigilia della riapertura.
Il Museo M9 (Museo "Novecento" / Museo del XX secolo) a Mestre, Venezia, progettato dallo studio di architettura tedesco di Matthias Sauerbruch e Louisa Hutton | Foto: Jean-Pierre Dalbéra from Paris via Wikimedia Creative Commons
Quali criticità l’emergenza sanitaria ha fatto emergere nel sistema museale italiano?
«Innanzitutto dobbiamo prendere coscienza dei ritardi accumulati nei processi di innovazione e digitalizzazione, un elemento che ha molto penalizzato i musei italiani. Un’altra criticità riguarda, invece, le politiche culturali. È caduto il velo sul fatto che i grandi musei statali vivono prevalentemente di flussi turistici, e segnatamente di turisti internazionali, una presenza di cui, come minimo per i prossimi sei mesi, l’Italia dovrà fare a meno».
Insomma, l’emergenza ha messo in luce alcune lacune all’interno di un sistema che andrebbe riorganizzato...
«Per anni non ci si è mai posti il problema di ingaggiare il pubblico dei residenti, delle comunità urbane. Il fatto che adesso tutti auspichino un ritorno a un pubblico locale è indubbiamente un segnale positivo in termini di volontà, ma da un punto di vista economico i numeri saranno comunque modesti. Per quale motivo i fiorentini dovrebbero tornare in massa agli Uffizi, senza una politica di audience development ed engagement che li induca a farlo? Politica che non si attiva in una settimana e senza risorse da investire».
Quindi, a cosa bisognerebbe puntare per favorire al meglio la ripartenza?
«Bisognerebbe investire in programmi e competenze. Rinegoziando un contratto morale con il pubblico soprattutto locale, che invece è sempre stato, negli ultimi quindici anni, molto più sedotto dalla novità (penso ad esempio alle mostre temporanee) che non dalle collezioni permanenti. Al tempo stesso il ritorno alla valorizzazione delle collezioni permanenti è un processo che richiede tempo e che non è possibile improvvisare, pur senza rimanere decisivo, in termini di attrattività sul pubblico, che senza mostre temporanee diminuirà vistosamente.
Il Collectiegebouw a Rotterdam | Foto: JanvanHelleman via Flickr
A quale modello potrebbero guardare i musei italiani per ripartire?
«Come i musei internazionali, anche i quelli italiani dovrebbero avere la capacità e le competenze per valorizzare le opere non esposte che stanno nei depositi (mediamente i grandi musei espongono l’8/10% dei capolavori che posseggono) decidendo, ogni sei-dodici mesi, di ruotare le collezioni. Il museo che si adoperi per effettuare questo lavoro di rotazione - che avrebbe tuttavia bisogno di spazi, personale e mezzi finanziari imponenti - potrà sempre contare su quel pubblico che, tornando dopo mesi, troverà sempre qualcosa di nuovo.
Negli ultimi dieci anni sono moltissimi i paesi europei che hanno investito nei depositi (aprendoli al pubblico, ad esempio) e nella conoscenza delle loro collezioni, cui sono stati consacrati ammirabili collection center per le attività di studio, ricerca e valorizzazione».
Ad esempio?
«Penso al nuovo VARI del Victoria & Albert Museum collegato al nuovo deposito in East London, al Mas di Anversa, al Collectiegebouw di Rotterdam o al centro del Louvre in costruzione a Liévin.
Se vogliamo poi guardare alla gestione e alla trasmissione delle conoscenze maturate nei musei internazionali, dobbiamo pensare che gli inglesi finanziano da diversi anni un piano di trasmissione delle conoscenze intergenerazionali, che prevede che la persona che va in pensione venga remunerata per un ulteriore anno al fine di trasmettere quello che sa ai giovani che subentrano, evitando la perdita dell’investimento pubblico sostenuto per creare competenze maturate in decenni di lavoro».
MAS - Museo al Fiume, Anversa | Foto: Zinneke (Own work), via Wikimedia Creative Commons
Qual è la principale difficoltà nel valorizzare le collezioni permanenti?
«Il patrimonio dei musei è così sconfinato che crea un senso di spaesamento, ed è difficile da valorizzare. Abbiamo meno tempo da dedicare alle visite, e oggi è impensabile proporre percorsi espositivi delle durata di tre-quattro ore per vedere una collezione permanente: il time-span medio dell’attenzione crolla dopo quarantacinque minuti!
Si dovrebbero escogitare modalità in grado di stimolare i percorsi di visita attraverso forme di tematizzazione non banali, che esulino dai tradizionali ordinamenti geografici o cronologici, dotati di strumenti di supporto che non si riducano alla semplice audioguida. Non è un percorso facile, né veloce. Ma andrebbe attivato adesso, considerando che ci vorranno almeno due anni perché dia i suoi frutti».
Immagina un “piano Marshall” della cultura basato sui contributi pubblici?
«L’Italia ha un debito pubblico elevatissimo, più di 2.500 miliardi di euro, destinati ad aumentare ulteriormente nei prossimi mesi. È velleitario immaginare piani Marshall che risolvano i problemi grazie all’incremento di contributi che creerebbero ulteriore debito pubblico.
In Italia i musei di proprietà pubblica sono più della metà e, negli ultimi 40 anni, il numero di musei nel nostro Paese è quasi raddoppiato, accrescendo i problemi di fragilità finanziaria, perché le risorse si frammentano. E invece è evidente che bisogna riconoscere, senza discriminazioni, che i problemi dei grandi musei sono diversi da quelli dei piccoli. Si dovrebbe piuttosto pensare a soluzioni ad hoc. Sarebbe più utile chiudere molti micro-musei per aprire grandi depositi visitabili, in cui si concentrino serie attività di tutela e valorizzazione, condotte da giovani neoassunti».
In questi mesi di fermo l’arte si è trasferita sulle piattaforme digitali grazie ai tanti programmi di approfondimento o ai documentari. Com’è andata questa sfida? L’arte dovrà, anche in futuro, continuare a scommettere sul web?
«Nell’arena del tempo libero, i musei, come i teatri, competono con altre forme di intrattenimento sempre più seduttive e che, grazie al digitale, arrivano fino ai nostri letti. Per le nuove generazioni la cultura in digitale è una soluzione competitiva con la fruizione live. Un dato non più ignorabile. Ma il digiale ha abbassato le soglie di accessibilità all’alta cultura: l’abbonamento in un palco da sei posti alla Scala costa quasi 13mila euro, l’abbonamento mensile a Medici.Tv meno di dieci».
Virtual Tour Sala Maccari, Galleria Comunale d’Arte, Cagliari
Molte mostre temporanee sono state rese fruibili grazie ai virtual tour. Secondo lei rappresentano una buona scommessa anche dopo l’emergenza?
«In questi giorni abbiamo visto bellissimi virtual tour di mostre temporanee. Si tratta anche di un modo intelligente per documentarle. Il problema delle mostre è che, una volta terminate, non restano documentate se non dai cataloghi. Oggi un virtual tour immersivo, ben fatto, costa meno di 50mila euro. Spendere questi soldi per avere una documentazione storica della mostra è sicuramente un modo per farla vivere oltre le poche settimane di apertura fisica, anche se i dodici anni spesi a progettare M9 mi hanno insegnato che creare una virtual exhibition significa progettare un altro tipo di esperienza».
Come giudica la proposta del “Netflix della cultura” avanzata dal ministro Franceschini?
«È un’idea intelligente, che andrebbe realizzata a prescindere dall’emergenza Covid-19. C’è largo spazio, per alcune istituzioni italiane, per una presenza in digitale anche a pagamento che le porterebbe fuori dai confini nazionali, entrando in relazione con un pubblico che, a emergenza finita, potrebbe essere stimolato a conoscerle de visu».
Dopo l’emergenza coronovirus il pubblico sarà ancora fedele all’arte? Come sarà il futuro dei musei?
«Dobbiamo sempre distinguere i musei grandi, con una domanda costituita da turisti spesso internazionali, da quelli più piccoli, che sono la stragrande maggioranza. I musei che avevano pochi visitatori ne avranno ancora di meno, poiché la limitazione al minimo indispensabile degli spostamenti determinerà un ulteriore crollo, mentre i grandi musei dovranno dotarsi di strumenti per gestire le code e le attese, sistemi di bigliettazione e prenotazione intelligente, un po’ come funziona adesso nei supermercati, che contingenteranno comunque gli ingressi. L’importante è non sopravvalutare le dimensioni della domanda nazionale».
Museo e Real Bosco di Capodimonte, sala 11, Tiziano | Courtesy Museo e Real Bosco di Capodimonte
Che tipo di turismo culturale si prospetta nei prossimi mesi? Ci si sposterà ancora alla ricerca di capolavori?
«I numeri rimarranno molto bassi e i flussi, se ci saranno, rimarranno quelli classici, di turismo balneare o montano, principalmente verso le seconde case, possibilmente in luoghi isolati e lontani dalla pazza folla. Ma non tutti avranno ancora a disposizione tre o quattro settimane per andare in vacanza (molti lavoratori dipendenti le hanno già impegnate durante il lock-down), ne è ancora chiaro quando e se potremo spostarci da una regione all’altra».
Ai musei si preferiranno i parchi archeologici e i giardini all’aperto?
«Faccio fatica a immaginare che questa estate gli italiani, una volta liberi di andare in vacanza, si precipiteranno in massa in un grande museo, armati di mascherine, guanti e disinfettanti. Molto probabilmente la gente preferirà respirare aria fresca e passeggiare in spazi aperti, penso al Parco archeologico di Pompei, a Bomarzo, alla straordinaria serie di castelli, parchi, giardini storici, certose, residenze extramoenia e ville di campagna che punteggiano il panorama del nostro Paese.
Ci sarà sicuramente un aumento della fruizione dei luoghi storici e all’aperto. Credo che la gente, non appena ne avrà la possibilità, starà lontana dalle città, almeno per un po’».
Parco Archeologico di Pompei
Quando i musei torneranno alla normalità?
«Si ritornerà alla normalità quando riprenderanno i flussi internazionali e quando la gente ricomincerà a spostarsi in Italia senza timori di contagio. Parliamo di uno-due anni. Al momento è difficile immaginare che i musei ritornino in breve tempo ai numeri riscontrati nell’era pre Covid-19».
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• Verso la riapertura: Bologna riparte dal Polittico Griffoni e Palazzo Pallavicini riaccende le luci su Doisneau
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Docente presso l’Università Bocconi ed esperto di gestione museale, progettazione e pianificazione culturale, oltre che “padre” dell’M9 di Venezia-Mestre, il più importante museo multimediale immersivo italiano, Guerzoni offre alcuni spunti per riflettere sulla situazione dei musei del Paese, ma anche sul loro futuro, alla vigilia della riapertura.
Il Museo M9 (Museo "Novecento" / Museo del XX secolo) a Mestre, Venezia, progettato dallo studio di architettura tedesco di Matthias Sauerbruch e Louisa Hutton | Foto: Jean-Pierre Dalbéra from Paris via Wikimedia Creative Commons
Quali criticità l’emergenza sanitaria ha fatto emergere nel sistema museale italiano?
«Innanzitutto dobbiamo prendere coscienza dei ritardi accumulati nei processi di innovazione e digitalizzazione, un elemento che ha molto penalizzato i musei italiani. Un’altra criticità riguarda, invece, le politiche culturali. È caduto il velo sul fatto che i grandi musei statali vivono prevalentemente di flussi turistici, e segnatamente di turisti internazionali, una presenza di cui, come minimo per i prossimi sei mesi, l’Italia dovrà fare a meno».
Insomma, l’emergenza ha messo in luce alcune lacune all’interno di un sistema che andrebbe riorganizzato...
«Per anni non ci si è mai posti il problema di ingaggiare il pubblico dei residenti, delle comunità urbane. Il fatto che adesso tutti auspichino un ritorno a un pubblico locale è indubbiamente un segnale positivo in termini di volontà, ma da un punto di vista economico i numeri saranno comunque modesti. Per quale motivo i fiorentini dovrebbero tornare in massa agli Uffizi, senza una politica di audience development ed engagement che li induca a farlo? Politica che non si attiva in una settimana e senza risorse da investire».
Quindi, a cosa bisognerebbe puntare per favorire al meglio la ripartenza?
«Bisognerebbe investire in programmi e competenze. Rinegoziando un contratto morale con il pubblico soprattutto locale, che invece è sempre stato, negli ultimi quindici anni, molto più sedotto dalla novità (penso ad esempio alle mostre temporanee) che non dalle collezioni permanenti. Al tempo stesso il ritorno alla valorizzazione delle collezioni permanenti è un processo che richiede tempo e che non è possibile improvvisare, pur senza rimanere decisivo, in termini di attrattività sul pubblico, che senza mostre temporanee diminuirà vistosamente.
Il Collectiegebouw a Rotterdam | Foto: JanvanHelleman via Flickr
A quale modello potrebbero guardare i musei italiani per ripartire?
«Come i musei internazionali, anche i quelli italiani dovrebbero avere la capacità e le competenze per valorizzare le opere non esposte che stanno nei depositi (mediamente i grandi musei espongono l’8/10% dei capolavori che posseggono) decidendo, ogni sei-dodici mesi, di ruotare le collezioni. Il museo che si adoperi per effettuare questo lavoro di rotazione - che avrebbe tuttavia bisogno di spazi, personale e mezzi finanziari imponenti - potrà sempre contare su quel pubblico che, tornando dopo mesi, troverà sempre qualcosa di nuovo.
Negli ultimi dieci anni sono moltissimi i paesi europei che hanno investito nei depositi (aprendoli al pubblico, ad esempio) e nella conoscenza delle loro collezioni, cui sono stati consacrati ammirabili collection center per le attività di studio, ricerca e valorizzazione».
Ad esempio?
«Penso al nuovo VARI del Victoria & Albert Museum collegato al nuovo deposito in East London, al Mas di Anversa, al Collectiegebouw di Rotterdam o al centro del Louvre in costruzione a Liévin.
Se vogliamo poi guardare alla gestione e alla trasmissione delle conoscenze maturate nei musei internazionali, dobbiamo pensare che gli inglesi finanziano da diversi anni un piano di trasmissione delle conoscenze intergenerazionali, che prevede che la persona che va in pensione venga remunerata per un ulteriore anno al fine di trasmettere quello che sa ai giovani che subentrano, evitando la perdita dell’investimento pubblico sostenuto per creare competenze maturate in decenni di lavoro».
MAS - Museo al Fiume, Anversa | Foto: Zinneke (Own work), via Wikimedia Creative Commons
Qual è la principale difficoltà nel valorizzare le collezioni permanenti?
«Il patrimonio dei musei è così sconfinato che crea un senso di spaesamento, ed è difficile da valorizzare. Abbiamo meno tempo da dedicare alle visite, e oggi è impensabile proporre percorsi espositivi delle durata di tre-quattro ore per vedere una collezione permanente: il time-span medio dell’attenzione crolla dopo quarantacinque minuti!
Si dovrebbero escogitare modalità in grado di stimolare i percorsi di visita attraverso forme di tematizzazione non banali, che esulino dai tradizionali ordinamenti geografici o cronologici, dotati di strumenti di supporto che non si riducano alla semplice audioguida. Non è un percorso facile, né veloce. Ma andrebbe attivato adesso, considerando che ci vorranno almeno due anni perché dia i suoi frutti».
Immagina un “piano Marshall” della cultura basato sui contributi pubblici?
«L’Italia ha un debito pubblico elevatissimo, più di 2.500 miliardi di euro, destinati ad aumentare ulteriormente nei prossimi mesi. È velleitario immaginare piani Marshall che risolvano i problemi grazie all’incremento di contributi che creerebbero ulteriore debito pubblico.
In Italia i musei di proprietà pubblica sono più della metà e, negli ultimi 40 anni, il numero di musei nel nostro Paese è quasi raddoppiato, accrescendo i problemi di fragilità finanziaria, perché le risorse si frammentano. E invece è evidente che bisogna riconoscere, senza discriminazioni, che i problemi dei grandi musei sono diversi da quelli dei piccoli. Si dovrebbe piuttosto pensare a soluzioni ad hoc. Sarebbe più utile chiudere molti micro-musei per aprire grandi depositi visitabili, in cui si concentrino serie attività di tutela e valorizzazione, condotte da giovani neoassunti».
In questi mesi di fermo l’arte si è trasferita sulle piattaforme digitali grazie ai tanti programmi di approfondimento o ai documentari. Com’è andata questa sfida? L’arte dovrà, anche in futuro, continuare a scommettere sul web?
«Nell’arena del tempo libero, i musei, come i teatri, competono con altre forme di intrattenimento sempre più seduttive e che, grazie al digitale, arrivano fino ai nostri letti. Per le nuove generazioni la cultura in digitale è una soluzione competitiva con la fruizione live. Un dato non più ignorabile. Ma il digiale ha abbassato le soglie di accessibilità all’alta cultura: l’abbonamento in un palco da sei posti alla Scala costa quasi 13mila euro, l’abbonamento mensile a Medici.Tv meno di dieci».
Virtual Tour Sala Maccari, Galleria Comunale d’Arte, Cagliari
Molte mostre temporanee sono state rese fruibili grazie ai virtual tour. Secondo lei rappresentano una buona scommessa anche dopo l’emergenza?
«In questi giorni abbiamo visto bellissimi virtual tour di mostre temporanee. Si tratta anche di un modo intelligente per documentarle. Il problema delle mostre è che, una volta terminate, non restano documentate se non dai cataloghi. Oggi un virtual tour immersivo, ben fatto, costa meno di 50mila euro. Spendere questi soldi per avere una documentazione storica della mostra è sicuramente un modo per farla vivere oltre le poche settimane di apertura fisica, anche se i dodici anni spesi a progettare M9 mi hanno insegnato che creare una virtual exhibition significa progettare un altro tipo di esperienza».
Come giudica la proposta del “Netflix della cultura” avanzata dal ministro Franceschini?
«È un’idea intelligente, che andrebbe realizzata a prescindere dall’emergenza Covid-19. C’è largo spazio, per alcune istituzioni italiane, per una presenza in digitale anche a pagamento che le porterebbe fuori dai confini nazionali, entrando in relazione con un pubblico che, a emergenza finita, potrebbe essere stimolato a conoscerle de visu».
Dopo l’emergenza coronovirus il pubblico sarà ancora fedele all’arte? Come sarà il futuro dei musei?
«Dobbiamo sempre distinguere i musei grandi, con una domanda costituita da turisti spesso internazionali, da quelli più piccoli, che sono la stragrande maggioranza. I musei che avevano pochi visitatori ne avranno ancora di meno, poiché la limitazione al minimo indispensabile degli spostamenti determinerà un ulteriore crollo, mentre i grandi musei dovranno dotarsi di strumenti per gestire le code e le attese, sistemi di bigliettazione e prenotazione intelligente, un po’ come funziona adesso nei supermercati, che contingenteranno comunque gli ingressi. L’importante è non sopravvalutare le dimensioni della domanda nazionale».
Museo e Real Bosco di Capodimonte, sala 11, Tiziano | Courtesy Museo e Real Bosco di Capodimonte
Che tipo di turismo culturale si prospetta nei prossimi mesi? Ci si sposterà ancora alla ricerca di capolavori?
«I numeri rimarranno molto bassi e i flussi, se ci saranno, rimarranno quelli classici, di turismo balneare o montano, principalmente verso le seconde case, possibilmente in luoghi isolati e lontani dalla pazza folla. Ma non tutti avranno ancora a disposizione tre o quattro settimane per andare in vacanza (molti lavoratori dipendenti le hanno già impegnate durante il lock-down), ne è ancora chiaro quando e se potremo spostarci da una regione all’altra».
Ai musei si preferiranno i parchi archeologici e i giardini all’aperto?
«Faccio fatica a immaginare che questa estate gli italiani, una volta liberi di andare in vacanza, si precipiteranno in massa in un grande museo, armati di mascherine, guanti e disinfettanti. Molto probabilmente la gente preferirà respirare aria fresca e passeggiare in spazi aperti, penso al Parco archeologico di Pompei, a Bomarzo, alla straordinaria serie di castelli, parchi, giardini storici, certose, residenze extramoenia e ville di campagna che punteggiano il panorama del nostro Paese.
Ci sarà sicuramente un aumento della fruizione dei luoghi storici e all’aperto. Credo che la gente, non appena ne avrà la possibilità, starà lontana dalle città, almeno per un po’».
Parco Archeologico di Pompei
Quando i musei torneranno alla normalità?
«Si ritornerà alla normalità quando riprenderanno i flussi internazionali e quando la gente ricomincerà a spostarsi in Italia senza timori di contagio. Parliamo di uno-due anni. Al momento è difficile immaginare che i musei ritornino in breve tempo ai numeri riscontrati nell’era pre Covid-19».
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