Il ritrattista delle citta' europee

Courtesy of Gëmaldegalerie | Bellotto
 

03/02/2001

Venezia, insieme a Firenze, Roma e Napoli, fu nel Settecento la meta privilegiata del viaggio in Italia, il cosiddetto “Grand Tour”, tappa obbligata del percorso di formazione degli artisti e dei giovani aristocratici di tutta Europa. Luogo dell’arte per eccellenza, patria degli uomini che avevano rivoluzionato il percorso della pittura nel Cinquecento (Tiziano, Veronese e Tintoretto sopra a tutti), repubblica indipendente dal giogo papale, tollerante e liberale in fatto di costumi e di moralità, la città ospitò nel corso del secolo migliaia di entusiasti visitatori, inglesi, francesi e tedeschi in prevalenza. Il numero degli artisti stranieri residenti a Venezia, sensibilmente inferiore a quello registrato nelle altre capitali italiane dell’arte, permise, a partire dagli anni Venti del secolo, il fiorire di un numero straordinario di botteghe locali: furono quasi esclusivamente pittori veneziani quelli che realizzarono i ritratti e le vedute della città, acquistati in gran numero dai facoltosi turisti come preziosi souvenir di viaggio. Fu nella più importante bottega, quella dello zio Antonio Canal detto il Canaletto, l’artista prediletto dalla committenza britannica, che Bernardo Bellotto, nato nel 1721, cominciò a lavorare appena quindicenne. Seguendo il tradizionale percorso di studi, egli si dedicò innanzitutto al disegno, copiando dal maestro, poi dal vero, aiutato dalla camera ottica (utilizzata da molti tra i maggiori vedutisti e paesaggisti del tempo). Spinto dal maestro a viaggiare, egli si recò a Roma nel 1742: là, affascinato dalla potenza espressiva delle antichità romane, realizzò soprattutto capricci architettonici. Il compatriota Piranesi, al tempo già autore dei primi cicli di fantasie architettoniche, gli insegnò a liberare l’immaginazione davanti alle rovine classiche; al contempo fu affascinato dalla complessità chiaroscurale delle opere del romano Pannini, il principale vedutista della capitale, allora all’apice della carriera. Al ritorno a Venezia Bernardo ruppe, per cause a noi ignote, il rapporto di collaborazione con lo zio e, con il trasferimento in Lombardia, inaugurò il lungo tempo del suo pellegrinare: a parte una breve parentesi nel 1746, non mise più piede nella città natale. Dopo aver dipinto per il principe Antonio Melzi d’Eril e per i più influenti uomini politici lombardi innovative vedute di campagna, il pittore si trasferì nel 1745 a Torino, invitato dal re Carlo Emanuele III di Savoia. Le due vedute della capitale, oggi conservate alla Galleria Sabauda, più che documentare la mole degli edifici barocchi sparsi nella città si soffermano a ritrarre un’umanità laboriosa intorno alle acque del Po. E’ a Verona che Bernardo si fermò l’anno successivo, realizzando le maggiori creazioni del suo periodo “italiano”. Passate forse attraverso l’intermediazione del console inglese Joseph Smith, esse sono oggi conservate in Gran Bretagna, disperse tra collezioni pubbliche e private. Al 1747 è datato il trasferimento del pittore a Dresda, presso la corte di Augusto III di Sassonia. Fino al 1758 egli documentò in un ampio ciclo di vedute l’aspetto regale della città sassone, che viveva allora il suo Rinascimento, e dei villaggi limitrofi di Pirna e Königstein. Dresda, quasi completamente distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, “ritrova” oggi malinconicamente il suo aspetto settecentesco sulle pareti della locale Gemäldegalerie, dove le tele di Bellotto sono esposte al pubblico. Qualche tempo dopo lo scoppio della Guerra dei Sette Anni, quando la città venne invasa dalle truppe di Federico II di Prussia, il pittore si trasferì a Vienna, stipendiato dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Là, dal 1759 al 1761, dipinse tredici vedute della città e sette delle residenze imperiali (oggi tutte al Kunsthistorisches Museum), con la frequenza di un quadro ogni sei settimane. Bellotto si adoperò per l’abbandono dei vecchi schemi canalettiani, costruiti sull’ossessivo rispetto dei principi geometrici della prospettiva, e si orientò verso una maggiore scioltezza della pennellata e un’animazione dei primi piani, affollati di caratteristiche figure. Egli era all’apice della gloria: il più richiesto vedutista d’Europa. Alla fine del 1761, dopo un breve passaggio a Monaco di Baviera, Bernardo si ricongiunse con la famiglia a Dresda. Le tele realizzate in questo periodo documentano con tragico realismo le drammatiche conseguenze della guerra. Il “ritratto” della Kreuzkirche, distrutta dal bombardamento prussiano del 1760, assurge ancor oggi universalmente a simbolo del vandalismo bellico. Negli ultimi mesi del 1766, con il proposito di essere introdotto a Caterina II, il pittore si mise in viaggio per San Pietroburgo, abbandonando definitivamente Dresda, dove i rapporti con il re e con il primo ministro Brühl si erano frattanto deteriorati. Giunse a Varsavia per una breve sosta. Stanislao Augusto Poniatowski, bramoso di eguagliare la magnanimità del vicino sovrano sassone, riuscì a dissuaderlo dal trasferimento in Russia e a trattenerlo in città. Nella capitale polacca Bernardo trascorse gli ultimi anni della sua vita, realizzando ventisei vedute della città e di Wilanow destinate a decorare una sala del castello reale (oggi al Muzeum Narodowe). L’ambiguità di quel mondo, a cavallo tra Oriente e Occidente, lo divertì molto, fin quando, affetto da una grave sindrome depressiva, morì il 17 novembre del 1780. Il padre lo aveva definito un “cervello bestiale”, un uomo malinconico, dal carattere assai difficile. Un critico contemporaneo parla di “promeneur solitarie”, camminatore solitario, artista che ha saputo aprire al genere della veduta e del paesaggio nuove strade, intuite e percorse solo molto tempo dopo dal grande francese Corot, ancora una volta sotto i cieli d’Italia.