Ad Anversa sulle tracce del Maestro

Rubens. Storia di un artista, diplomatico e uomo di mondo innamorato dell'Italia

Pieter Paul Rubens (Siegen, 1577 - Anversa, 1640), Autoritratto, 1630 circa, Anversa, Rubens House | © Beeldarchief Collectie Antwerpen
 

Samantha De Martin

15/03/2018

Era quello che oggi potremmo definire un uomo di mondo, un gentiluomo brillante, dalle capacità diplomatiche eccezionali, abile a parlare cinque lingue, abituato a non mangiare troppo e ad evitare la carne, estremamente generoso con i bisognosi e affatto privo di ironia.
La stessa che lo indusse a piazzare un cappello, simile a quello che aveva l’abitudine di indossare, sul capo della Vergine Maria nel Trittico della Deposizione dalla Croce, uno dei suoi quattro straordinari capolavori nella Cattedrale di Nostra Signora ad Anversa.

Ma soprattutto Rubens era un umanista innamorato dell’Italia, che in italiano - anzi in toscano - scriveva buona parte della sua corrispondenza. E poi si chiamava “Pieter Paul” ed era nato il giorno antecedente la festa dei Santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, molto probabilmente un omaggio che il padre, già amante dell’Italia e studente di giurisprudenza tra Roma e Bologna, volle fare al Belpaese e anche al figlio. E indubbiamente fu di buon auspicio.
E fu fortunato, Rubens, come lui stesso riconosceva, ma anche molto astuto. Insomma, un po’ “golpe”, un po’ “lione” per dirla con Machiavelli, dal momento che ebbe anche la fortuna di circondarsi di conoscenze importanti, come quella, a Roma, del cardinale Del Monte o di Scipione Borghese.

IL "DIAMANTE" DI ANVERSA
Rubens è una presenza evidente e costante tra le strade, nelle chiese, tra i musei di Anversa, la perla barocca che brilla del suo più luminoso diamante.
Pur essendo nato a Siegen, nel Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, l’anima dell’artista “con la furia nel pennello” è qui, tra i vicoli ordinati di questa silenziosa cittadina pettinata dalla brezza della Schelda, e sembra muoversi, leggera, come sospinta dal rintocco delle campane della Cattedrale, tra la Chiesa di San Giacomo - dove il 6 dicembre del 1630 sposò Helena Fourment, dove i loro figli furono battezzati e dove lo stesso artista fu sepolto dopo la morte, il 30 maggio del 1640 - alla facciata della Chiesa di San Carlo Borromeo, i cui dettagli celano le sue straordinarie doti di architetto.
Se vi capita poi di cenare alla Brasserie Appelmans, sappiate che proprio qui per un certo periodo Rubens frequentò le lezioni di latino.

«Ad Anversa - spiega la storica dell’arte Roberta Bernabei - c’era anche una Gilda dei romanisti fondata nel 1572, una sorta di confraternita che si riuniva per parlare dell’Italia in occasione di cene gastronomiche, durante le quali i partecipanti venivano aggiornati sulle nuove scoperte archeologiche, sulla pittura a Roma. Rubens conosceva tutto questo ed è questa l’humus che prepara il viaggio dell’artista nella città eterna».

Al di là della sua passione per l’Italia, di questo pittore barocco - primo capitolo del più ampio programma triennale Flemish Masters dedicato ai maestri fiamminghi Rubens, Bruegel e Van Eyck - sappiamo anche che era un uomo, diremmo oggi, “multitasking”. Come ricordava, nel 1621, il giovane studente di medicina, Otto Sperling. “Trovammo Rubens che dipingeva, ascoltava una lettura di Tacito e, contemporaneamente, dettava una lettera” annotava sorpreso.
E poi amava i libri, Rubens, condividendo questa passione con un grande tipografo ed editore fiammingo. Era stato infatti Balthasar I Moretus a chiedere al maestro di fornire le illustrazioni per i suoi nuovi volumi di preghiere. Il risultato si può ammirare lungo il percorso di visita del Museo Plantin-Moretus, dedicato all’evoluzione del libro in epoca barocca. 
Ed è forse per questo suo spirito poliedrico e vivace, per la sua disponibilità ad aprire i propri orizzonti figurativi che riuscì ad assorbire fino in fondo e a fare propria ogni tipo di contaminazione durante il suo viaggio in Italia, durato dal 1600 al 1608. Perché Rubens non si limitò soltanto a prendere dall’arte italiana, ma, come un artigiano sapiente, assorbiva e interiorizzava quello che vedeva, lasciando moltissimo anche di sé.


La statua dedicata a Rubens a Groenplaats (Anversa) | Foto: © Kris Jacobs | Courtesy of Visitflanders


RUBENS E ROMA
Quello tra il maestro fiammingo - giunto in Italia a 23 anni - e la città, che al tempo assisteva alla fioritiura di Caravaggio, non fu un semplice incontro, ma uno scambio fruttuoso in cui l’esuberanza cromatica, la fantasia sbrigliata, la teatralità del pittore di Siegen avrebbero creato nella città dei papi il terreno favorevole all’attecchire del barocco romano.

«In questo periodo Rubens disegna, copia, colleziona dipinti di Tintoretto, Tiziano, forse anche di Raffaello. Quando l’incisore olandese Hoogstraten lo accusava di copiare intere figure dagli italiani, lui gli rispondeva che anche loro sarebbero stati liberi di farlo se solo ci fossero riusciti» commenta Bernabei.
E poi a Roma c’era anche il pittore Paul Bril, amico del maestro, c’era il fermento di Via della Croce, dove molto probabilmente l'artista visse insieme al fratello Philip e c’era Via Margutta, dove i fiamminghi - noti per le loro sbronze e la compagnia chiassosa - erano di casa, e forse lì lo si sarebbe spesso potuto incontrare.
Furono quelli gli anni dello studio dei modelli di Michelangelo e Raffaello, dell'antico, e della coeva produzione artistica del Carracci, di Caravaggio e di Federico Barocci. Anni in cui il maestro realizzò tre opere per la Cappella di Sant'Elena nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme - il Trionfo di Sant'Elena, l’Incoronazione di spine e L’Innalzamento della croce, opere che, dopo una serie di vicessitudini, furono purtroppo vendute nel 1811.

Ma è alla Galleria Borghese che è custodita l’opera più raffinata di questo pittore entrato presto in contatto con la cerchia del cardinale Scipione Borghese. Il Compianto di Cristo morto (1603), condensa ed evidenzia la summa dei più disparati influssi ricevuti in Italia dal pittore nordico, dalla scuola veneta al manierismo romano e lombardo.
«Un particolare commovente, la lacrima di Maria Maddalena, raffigurata con un seno scoperto e una mano a tenere quella del Cristo esanime, sarà la stessa che il Bernini scolpirà sul volto della sua Proserpina. Un dettaglio interessante per comprendere la grande influenza che l’artista fiammingo ebbe sulla pittura e sulla scultura dei maestri italiani».

Sempre in quegli anni, gli fu affidata una commissione importante presso la Chiesa di Santa Maria in Vallicella, tradizionalmente nota come Chiesa Nuova, non lontano da Piazza Navona.
«In realtà la prima versione della pala realizzata dall’artista gli venne rifiutata e fu questo l’unico “fallimento” del pittore in una vita di straordinari successi. Al posto di questo lavoro realizzerà tre olii su ardesia».
E poi c’è L’Adorazione dei pastori, del 1608, e destinata alla Chiesa di San Filippo a Fermo, il suo quadro più caravaggesco, nonostante l'artista continui a mantenere il suo stile personalissimo, elaborazione di maestri come Tiziano, Veronese, Tintoretto Michelangelo, Raffaello.
«Per non parlare della serie di tredici tavole del 1610 con Cristo e i dodici Apostoli, commissionate da Niccolò Pallavicini e oggi nella Collezione Pallavicini, ma purtroppo non visibili al pubblico, realizzate quando ormai era rientrato ad Anversa».

IL COMMIATO DA ROMA E ROMOLO E REMO
Dovette essere molto triste per Rubens, nel 1608, accomiatarsi da Roma - città che dovette lasciare in gran fretta a causa delle preoccupanti condizioni di salute della madre - separarsi da quell’immenso manuale, sapientemente studiato, interpretato e fatto proprio, che arricchì il pittore e allo stesso tempo fu nutrito dei suoi fecondi linguaggi.
Il maestro si allontanò dalla città che tanto amava e che sarebbe rimasta per sempre nel suo cuore e tra i suoi pennelli, sperando in un futuro ritorno - che non ci sarebbe mai stato - e depositando il suo malinconico saluto nella personalissima interpretazione dell’origine di Roma.
Frutto di quell’addio è infatti il Romolo e Remo, realizzato ad Anversa nel 1612, per essere trasferito nelle raccolte del Campidoglio nel 1750.
«Il nucleo centrale del dipinto - oggi alla Pinacoteca Capitolina - con la lupa che allatta i due gemelli, allude a un disegno che riproduce lo stesso soggetto, parte di un’antica scultura romana scoperta con la Personificazione del Tevere, oggi al Louvre, studiato da Rubens a Roma quando il gruppo, scoperto nel 1512 si trovava al Belvedere in Vaticano» spiega Bernabei. L’intera composizione, dall’andamento solenne, scaturisce da una lettura attenta da parte dell’artista degli autori classici, da Virgilio a Ovidio e delle fonti iconografiche antiche e moderne.


Pieter Paul Rubens, Romolo e Remo, 1612 circa, Olio su tela, 213 x 212 cm, Roma, Musei Capitolini


RITORNO AD ANVERSA CON L'ITALIA NEL CUORE
Gli anni successivi al viaggio in Italia vedono l’artista nelle vesti di pittore di corte presso gli Arciduchi Alberto e Isabella (nel 1609), assistono alla morte della prima moglie Isabella Brant, alla nuova missione diplomatica alla corte del re spagnolo Filippo IV e - tra il 1629 il 1630 - alla corte di Carlo I d'Inghilterra, alle seconde nozze con Helena Fourment, una giovanissima donna che, come lo stesso maestro scriveva “non arrossirebbe nel vedermi prendere in mano i miei pennelli”.

Sono anni intensi, durante i quali la nuova dimora di Rubens e famiglia, al numero 9 di Wapper, inizia a lasciar trapelare le sue doti di architetto innamorato dell'Italia. Accanto al portico e al padiglione del giardino - attualmente in restauro - l’influsso architettonico del belpaese appare evidente nel Pantheon semi circolare che Rubens costruisce dentro la sua dimora, con tanto di oculus, dove, tra le tante sculture, figura il busto di Seneca che il pittore portò con sé di ritorno da Roma.

Ed eccolo di nuovo, il volto del maestro, fresco di restauro, che brilla sorridente dopo un anno di assenza dalla Rubenshuis
Sembra dare il benvenuto al visitatore, Rubens, facendo capolino dal suo Autoritrattooggetto di un accurato restauro effettuato presso il Royal Institute for Cultural Heritage di Bruxelles, con i colori originari che tornano a brillare, i dettagli del viso, il colorito roseo delle guance del maestro, la carnosità sensuale delle labbra. 


Il padiglione del giardino presso la Casa di Rubens | Foto: © Ans Brys | Courtesy of Visitflanders

Così scriveva l'artista dalla sua tenuta di Malines, due anni prima di morire, a un suo allievo, il 17 agosto del 1638: "Caro Lucas, fate attenzione, quando partirete, che tutto sia ben chiuso e che non restino originali e nemmeno bozze nell’atelier. Ricordate al giardiniere di mandarci le piccole pere e i fichi, ammesso che ve ne siano, o altre delizie del giardino".
Quell'ampio spazio verde è ancora lì, e, nonostante il tempo trascorso, sembra trasudare profumi e raccontare, ai turisti di passaggio, la straordinaria storia del suo genio immenso.

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