Fino al 18 febbraio al Museo Revoltella
La vicenda umana di Ligabue in mostra a Trieste
Antonio Ligabue, Lotta di galli, s.d. (1958-1959), Olio su tavola di faesite, 61.1 x 50.2 cm, Collezione privata
Samantha De Martin
08/11/2023
Trieste - Il colore era l’unico rifugio per la sua anima. Più i suoi incubi prendevano il sopravvento, più le tinte si facevano brillanti e il cuore, soffocato dal dolore, restituiva i fantasmi della mente dando vita a insuperabili capolavori. Da qui la necessità di Antonio Ligabue di riprodurre più volte la propria immagine, un tentativo estremo di allontanare la condizione di esasperata emarginazione.
Anche i soggetti, talvolta ripetuti più volte, diventavano il fermo immagine di un unico racconto e, dai pollai alle lotte tra galli, opere apparentemente uguali, davano vita all’interminabile sequenza di uno scontro che, non avendo un vero e proprio fine, diveniva più angoscioso, alienante anche per gli osservatori.
Ed eccolo “el matt”, il matto - come fu soprannominato Ligabue dagli abitanti di Gualtieri che ne rifiutavano i dipinti e il valore artistico - al centro della grande mostra che il Museo Revoltella di Trieste gli dedica fino al 18 febbraio, per travolgere il pubblico con le sue pennellate corpose, sfuggenti, vibranti di sentimenti ardenti, popolate da fiere e paesaggi, intrise dell’esperienza originaria dell’uomo.
Antonio Ligabue, Allestimento mostra | Courtesy Arthemisia
Artista visionario, autodidatta, Ligabue parla con immediatezza e genuinità a tutti, a chi ha gli strumenti per afferrarne il valore storico-artistico, ma anche a chi semplicemente gode della bellezza assoluta delle sue opere. A Trieste lo farà attraverso oltre 60 lavori tra oli, disegni e sculture, protagonisti di un itinerario scandito da quella solitudine senza appigli che il maestro riuscì a superare solo attraverso la pittura.
D’altronde l’arte penetra nella vita del pittore nato a Zurigo e morto a Gualtieri a partire dall’infanzia, come balsamo per uno stato di disagio e di dolore profondo, un rimedio per alleviare il dramma della sua condizione umana. Il percorso cronologico curato da Francesco Negri e Francesca Villanti segue le diverse tappe dell’opera dell’artista a partire dal primo periodo (1927-1939), quando gli autoritratti sono rari, i colori ancora molto tenui e diluiti, i temi legati alla vita agreste e le scene dense di animali feroci in atteggiamenti non troppo aggressivi. Come in Nudo di donna (1929-1930), l’impianto si concentra su un’unica immagine centrale con pochi elementi sullo sfondo. I contorni delle figure non sono ancora definiti dal segno nero e l’insieme è reso con poche pennellate essenziali con una prevalenza di verde, marrone, giallo, blu cobalto.
Antonio Ligabue, Allestimento mostra | Courtesy Arthemisia
Il pubblico si addentrerà poi nel secondo periodo segnato dalla scoperta della materia grassa e corposa e da una rifinitura analitica di tutta la rappresentazione. Lavori come Ritratto di Elba (1933), Circo (1941-1942) e Volpe in fuga con gallo in bocca (1943-1944) restituiscono in questa fase toni cromatici più caldi. “Ligabue quando doveva dipingere un quadro se lo figurava già tutto finito nella testa. Non faceva nessun disegno ma il quadro dipinto a olio lo cominciava da un particolare” ricorda Andrea Mozzali.
Presto i campi di grano, le splendide tonalità del giallo, che utilizza ripetutamente in questi anni assieme alla terra di Kassel, al blu di Prussia e al rosso carminio, lasceranno il posto alle fiere aggressive e alla loro impietosa lotta per la sopravvivenza. La terza fase (1952-1962), caratterizzata dalla produzione di autoritratti, diversificati a seconda degli stati d’animo, ma tuttavia sempre pervasi da una incontenibile tristezza, rappresenta il periodo più prolifico nel quale il segno diventa vigoroso al punto da consentire all'immagine di stagliarsi nettamente rispetto al resto della scena.
Antonio Ligabue, Allestimento mostra | Courtesy Arthemisia
Di questi anni sono Leopardo nella foresta (1956-1957), Lotta di galli (1958-1959) e Il serpentario (primavera 1962) nei quali l’attenzione per i dettagli è confermata dagli eleganti manti delle tigri, dei leopardi, dal piumaggio dei volatili che animano le tele. Il visitatore riconoscerà in quest’ultimo il periodo più prolifico per l’artista. Il segno nero intorno alle figure si fa vigoroso e continuo. Nella firma, quasi sempre rossa, la A iniziale del nome è ora maiuscola a bastoncino, il cognome sempre in corsivo gotico, anche se talvolta compaiono solo le iniziali.
I colori maggiormente usati sono il giallo limone, il blu di Prussia, le terre di Siena, il giallo cadmio, il bruno Van Dyck, mentre abbonda il bianco di zinco.
Promossa e organizzata dal Comune di Trieste – Assessorato alle politiche della cultura e del turismo, con il supporto di Trieste Convention and Visitors Bureau e PromoTurismo FVG, prodotta da Arthemisia in collaborazione con Comune di Gualtieri e Fondazione Museo Antonio Ligabue, la mostra sarà aperta dal lunedì alla domenica e festivi dalle 9 alle 19 (la biglietteria chiude un’ora prima).
Leggi anche:
• Van Gogh e Ligabue: una coppia esplosiva in arrivo a Trieste
• Antonio Ligabue
Anche i soggetti, talvolta ripetuti più volte, diventavano il fermo immagine di un unico racconto e, dai pollai alle lotte tra galli, opere apparentemente uguali, davano vita all’interminabile sequenza di uno scontro che, non avendo un vero e proprio fine, diveniva più angoscioso, alienante anche per gli osservatori.
Ed eccolo “el matt”, il matto - come fu soprannominato Ligabue dagli abitanti di Gualtieri che ne rifiutavano i dipinti e il valore artistico - al centro della grande mostra che il Museo Revoltella di Trieste gli dedica fino al 18 febbraio, per travolgere il pubblico con le sue pennellate corpose, sfuggenti, vibranti di sentimenti ardenti, popolate da fiere e paesaggi, intrise dell’esperienza originaria dell’uomo.
Antonio Ligabue, Allestimento mostra | Courtesy Arthemisia
Artista visionario, autodidatta, Ligabue parla con immediatezza e genuinità a tutti, a chi ha gli strumenti per afferrarne il valore storico-artistico, ma anche a chi semplicemente gode della bellezza assoluta delle sue opere. A Trieste lo farà attraverso oltre 60 lavori tra oli, disegni e sculture, protagonisti di un itinerario scandito da quella solitudine senza appigli che il maestro riuscì a superare solo attraverso la pittura.
D’altronde l’arte penetra nella vita del pittore nato a Zurigo e morto a Gualtieri a partire dall’infanzia, come balsamo per uno stato di disagio e di dolore profondo, un rimedio per alleviare il dramma della sua condizione umana. Il percorso cronologico curato da Francesco Negri e Francesca Villanti segue le diverse tappe dell’opera dell’artista a partire dal primo periodo (1927-1939), quando gli autoritratti sono rari, i colori ancora molto tenui e diluiti, i temi legati alla vita agreste e le scene dense di animali feroci in atteggiamenti non troppo aggressivi. Come in Nudo di donna (1929-1930), l’impianto si concentra su un’unica immagine centrale con pochi elementi sullo sfondo. I contorni delle figure non sono ancora definiti dal segno nero e l’insieme è reso con poche pennellate essenziali con una prevalenza di verde, marrone, giallo, blu cobalto.
Antonio Ligabue, Allestimento mostra | Courtesy Arthemisia
Il pubblico si addentrerà poi nel secondo periodo segnato dalla scoperta della materia grassa e corposa e da una rifinitura analitica di tutta la rappresentazione. Lavori come Ritratto di Elba (1933), Circo (1941-1942) e Volpe in fuga con gallo in bocca (1943-1944) restituiscono in questa fase toni cromatici più caldi. “Ligabue quando doveva dipingere un quadro se lo figurava già tutto finito nella testa. Non faceva nessun disegno ma il quadro dipinto a olio lo cominciava da un particolare” ricorda Andrea Mozzali.
Presto i campi di grano, le splendide tonalità del giallo, che utilizza ripetutamente in questi anni assieme alla terra di Kassel, al blu di Prussia e al rosso carminio, lasceranno il posto alle fiere aggressive e alla loro impietosa lotta per la sopravvivenza. La terza fase (1952-1962), caratterizzata dalla produzione di autoritratti, diversificati a seconda degli stati d’animo, ma tuttavia sempre pervasi da una incontenibile tristezza, rappresenta il periodo più prolifico nel quale il segno diventa vigoroso al punto da consentire all'immagine di stagliarsi nettamente rispetto al resto della scena.
Antonio Ligabue, Allestimento mostra | Courtesy Arthemisia
Di questi anni sono Leopardo nella foresta (1956-1957), Lotta di galli (1958-1959) e Il serpentario (primavera 1962) nei quali l’attenzione per i dettagli è confermata dagli eleganti manti delle tigri, dei leopardi, dal piumaggio dei volatili che animano le tele. Il visitatore riconoscerà in quest’ultimo il periodo più prolifico per l’artista. Il segno nero intorno alle figure si fa vigoroso e continuo. Nella firma, quasi sempre rossa, la A iniziale del nome è ora maiuscola a bastoncino, il cognome sempre in corsivo gotico, anche se talvolta compaiono solo le iniziali.
I colori maggiormente usati sono il giallo limone, il blu di Prussia, le terre di Siena, il giallo cadmio, il bruno Van Dyck, mentre abbonda il bianco di zinco.
Promossa e organizzata dal Comune di Trieste – Assessorato alle politiche della cultura e del turismo, con il supporto di Trieste Convention and Visitors Bureau e PromoTurismo FVG, prodotta da Arthemisia in collaborazione con Comune di Gualtieri e Fondazione Museo Antonio Ligabue, la mostra sarà aperta dal lunedì alla domenica e festivi dalle 9 alle 19 (la biglietteria chiude un’ora prima).
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