Feliscatus. I Giorni Più Lunghi
Dal 22 Giugno 2014 al 13 Luglio 2014
Tortona | Alessandria
Luogo: 11DREAMS Art Gallery
Indirizzo: via Rinarolo 11/c
Orari: 16-19; chiuso lunedì
Telefono per informazioni: +39 333 6033006 / 345 8906531
E-Mail info: info@11dreams.it
Sito ufficiale: http://www.11dreams.it
Durante la mostra Upside Down del mese di dicembre a Milano ho utilizzato il tempo della permanenza in Galleria disegnando. A penna, prima su carta bianca formato A4, poi su cartoncino ocra gialla chiara e avorio. Sin dai primi fogli ho notato che l’Isola, tema ricorrente dall’ottantasette in poi, che periodicamente affiora per farsi disegnare e dipingere, aveva subito delle modificazioni che lì per lì non mi sono parse di grande importanza, mi sono accorto in seguito che invece lo erano.
C’era sì la forma della barca, di essa ben riconoscevo la prua e il timone, ma il corpo legnoso centrale su cui il tessuto, solitamente rosso, esibiva la vitalità delle sue pieghe, era stato sostituito da alcune file di onde piuttosto allungate; e al posto dell’albero frondoso, che nelle isole prendeva sole, o semplicemente luce, e rilasciava profonde ombre su parte delle fisiognomiche volute del manto, si ergeva un assorto e immobile ippocampo che sulle onde stava conficcato attraverso il prolungamento di una o – per permettergli una stabilità maggiore – più protuberanze, tra quelle che fuoriuscivano dal fitto, scuro e stratificato intreccio di tratti e che ne costruivano il frastagliato profilo, come fossilizzate creste e dritti o arcuati aculei.
Per disegnare, su un formato orizzontale con un rapporto di uno a uno e mezzo ma anche, nei cartoncini, prossimo a due, utilizzavo una biro blu. Così sono andato avanti per alcuni giorni e per una quindicina di disegni. Poi, di punto in bianco, è ritornata l’isola che conoscevo da tanti anni, in alcuni periodi d’indubitabile pittura punto di riferimento e antologia di cose: la barca accasata sulla sabbia, il drappo, in un’altra vita della barca vela che le permetteva di muoversi, l’albero da cui questa era sostenuta di nuovo in grado di fare rami, foglie, fiori, frutti. Ho continuato così a disegnare senza altri cambiamenti sino alla fine della mostra. Dopo la chiusura di essa e il ritorno a Tortona, verso la fine di dicembre ho cominciato a dipingere a olio su tavola. La scelta del soggetto di questi dipinti non mi poneva alcuna difficoltà o dubbio: l’isola di onde con il cavalluccio marino.
I colori dei primi dipinti mi facevano capire che quell’isola era sicuramente e stabilmente posata sulla sabbia; in fondo, alla fine della spiaggia, una stretta striscia azzurra indicava il mare e da lì in su il cielo, schiarito all’orizzonte da una luce giallognola. Quindi non c’era, apparentemente, molta differenza tra questi primi oli e i disegni dei primi giorni a Milano. Il cambiamento, a prima vista trascurabile ma a guardar bene di importanza non da poco, era tutto nel formato che, pur essendo negli stessi rapporti dei disegni, avevo bisogno di utilizzare non più in orizzontale ma in verticale, mettendo il palco con l’ambientazione della rappresentazione e l’unico essere vivente e attore, la cui parca mimica recitativa atteneva al suo vissuto, nella parte bassa della tavola, per lasciare una grande quantità di spazio vuoto che poteva perciò essere occupato dalla stesura pressoché uniforme di un cielo che si allungava e allontanava verso l’alto. Questo, dopo i primi tre o quattro dipinti, da ceruleo si è fatto grigio; lentamente anche l’albeggiare o il chiarore del tramonto vicino all’orizzonte hanno lasciato il posto a un grigio più scuro. Il cielo così rabbuiato e basso, come caduto, in procinto di manifestarsi tempestoso senza mai – si poteva intuire dalla luce tagliente ma proprio per questo rassicurante – arrivare ad esserlo, rendeva più bianca, quasi abbagliante, la distesa innevata che stava sostituendo la sabbia e l’acqua del mare.
L’ippocampo diventava sempre più cupo, nel segno insistente e fortemente calcato, come pure il timone (in alcune tavole disposto al contrario, quasi fosse pronto per essere manovrato da qualcuno esterno e al seguito) e la prua della gelida barca il cui corpo di onde, a parte la prima fila, sembrava anch’esso fatto di ghiaccio. Soltanto in uno dei dipinti la barca di onde, che mi appariva infinitamente sola, ferma in quel mare candido, terso ma non più liquido, serenamente inospitale, era priva del suo unico passeggero e capitano, che in più di un’opera invece era presente con doti di funambolo equilibrista, oppure era proiettato in avanti col muso e in una postura statica avvolta in sé nella parte inferiore della coda.
Negli ultimi lavori, che hanno posto termine a un silenzioso e glaciale gruppo di quadri, un ippocampo smagrito – con gli aculei, nella prima tavola di quest’ultima fase, a forma di ondulati filamenti straordinariamente lunghi – aveva il corpo e lo sguardo rivolti all’indietro, al tempo già trascorso, ad un percorso già fatto in uno spazio in realtà mai attraversato, ed era, in alcune opere, posizionato con un equilibrio instabile su una corda tesa dalla prua al timone; quest’ultimo affondava obliquamente per metà o quasi nel suolo non più gelido, presentava l’asta orizzontale in qualche caso rivoltata, altrimenti inservibile perché piegata o spezzata. Ma il cielo, in quell’atmosfera di stasi, di una sorta di arrivo a destinazione, aveva ripreso all’orizzonte un mattutino colore, brillante giallo chiaro e scuro più luminoso del chiaro, con un debole e musicale azzurro-verde che andava suggellare la parte alta della tavola, di quel cielo che sembrava possedere, tra l’altro, una forza che lo spingeva a sconfinare dai limiti del supporto.
Con un’impalcatura in divenire di malleabili regole spaziali, un semplice eppure efficace insieme di tocchi, come una prospettiva aerea di suoni, andava a firmare il tempo che sentivo di aver fatto bene a dedicare a un necessario e urgente ciclo di lavori. E la neve di quella distesa, già luogo d’acqua che ora sembrava rassodato suolo di pianura, forse si era sciolta, forse aveva cambiato colore vestendosi di un aspro verde o un’accogliente ocra; ma è più facile e più giusto pensare che la differenza di colore fosse dovuta all’incipiente e allungata nuvola magrittiana o monettiana che in quella particolare ora dilatata si limitava a coprire soltanto il proscenio e a lambire appena la scena di quel teatro muto e immobile, soprattutto privo di una qualsivoglia platea, delle isole del nord.
È nitido, in questo momento, il ricordo della sensazione che provavo, forse pure della necessità di averla, di ritrovarmi, quanto meno dentro il dipinto ogni qual volta finivo un quadro, solo come il Frankenstein (otto anni fa principale figura di un periodo di intensa e inebriante pittura su tela, pluriball, carta e cartone), che in quei giorni di gennaio ascoltavo per radio nella lettura di Tommaso Ragno, e – prendendo a prestito il titolo di un olio di Friedrich – in un mare di ghiaccio.
Ora, dai giorni più corti e creativi delle settimane a cavallo del solstizio d’inverno, passo (con un salto di alcuni mesi che altre tre esposizioni hanno visto intersecando tempi e rinviando legittime priorità: Parigi, Dedicato a Magritte, Postpresente) a quelli più lunghi d’inizio estate, nel luogo appropriato e prestabilito, dove il tempo materiale di visibilità aggiunge nuovi lati alla prismatica connotazione identitaria – nella fruttifera individualità e nella dialettica appartenenza a un gruppo – dell’opera d’arte.
F.C.
C’era sì la forma della barca, di essa ben riconoscevo la prua e il timone, ma il corpo legnoso centrale su cui il tessuto, solitamente rosso, esibiva la vitalità delle sue pieghe, era stato sostituito da alcune file di onde piuttosto allungate; e al posto dell’albero frondoso, che nelle isole prendeva sole, o semplicemente luce, e rilasciava profonde ombre su parte delle fisiognomiche volute del manto, si ergeva un assorto e immobile ippocampo che sulle onde stava conficcato attraverso il prolungamento di una o – per permettergli una stabilità maggiore – più protuberanze, tra quelle che fuoriuscivano dal fitto, scuro e stratificato intreccio di tratti e che ne costruivano il frastagliato profilo, come fossilizzate creste e dritti o arcuati aculei.
Per disegnare, su un formato orizzontale con un rapporto di uno a uno e mezzo ma anche, nei cartoncini, prossimo a due, utilizzavo una biro blu. Così sono andato avanti per alcuni giorni e per una quindicina di disegni. Poi, di punto in bianco, è ritornata l’isola che conoscevo da tanti anni, in alcuni periodi d’indubitabile pittura punto di riferimento e antologia di cose: la barca accasata sulla sabbia, il drappo, in un’altra vita della barca vela che le permetteva di muoversi, l’albero da cui questa era sostenuta di nuovo in grado di fare rami, foglie, fiori, frutti. Ho continuato così a disegnare senza altri cambiamenti sino alla fine della mostra. Dopo la chiusura di essa e il ritorno a Tortona, verso la fine di dicembre ho cominciato a dipingere a olio su tavola. La scelta del soggetto di questi dipinti non mi poneva alcuna difficoltà o dubbio: l’isola di onde con il cavalluccio marino.
I colori dei primi dipinti mi facevano capire che quell’isola era sicuramente e stabilmente posata sulla sabbia; in fondo, alla fine della spiaggia, una stretta striscia azzurra indicava il mare e da lì in su il cielo, schiarito all’orizzonte da una luce giallognola. Quindi non c’era, apparentemente, molta differenza tra questi primi oli e i disegni dei primi giorni a Milano. Il cambiamento, a prima vista trascurabile ma a guardar bene di importanza non da poco, era tutto nel formato che, pur essendo negli stessi rapporti dei disegni, avevo bisogno di utilizzare non più in orizzontale ma in verticale, mettendo il palco con l’ambientazione della rappresentazione e l’unico essere vivente e attore, la cui parca mimica recitativa atteneva al suo vissuto, nella parte bassa della tavola, per lasciare una grande quantità di spazio vuoto che poteva perciò essere occupato dalla stesura pressoché uniforme di un cielo che si allungava e allontanava verso l’alto. Questo, dopo i primi tre o quattro dipinti, da ceruleo si è fatto grigio; lentamente anche l’albeggiare o il chiarore del tramonto vicino all’orizzonte hanno lasciato il posto a un grigio più scuro. Il cielo così rabbuiato e basso, come caduto, in procinto di manifestarsi tempestoso senza mai – si poteva intuire dalla luce tagliente ma proprio per questo rassicurante – arrivare ad esserlo, rendeva più bianca, quasi abbagliante, la distesa innevata che stava sostituendo la sabbia e l’acqua del mare.
L’ippocampo diventava sempre più cupo, nel segno insistente e fortemente calcato, come pure il timone (in alcune tavole disposto al contrario, quasi fosse pronto per essere manovrato da qualcuno esterno e al seguito) e la prua della gelida barca il cui corpo di onde, a parte la prima fila, sembrava anch’esso fatto di ghiaccio. Soltanto in uno dei dipinti la barca di onde, che mi appariva infinitamente sola, ferma in quel mare candido, terso ma non più liquido, serenamente inospitale, era priva del suo unico passeggero e capitano, che in più di un’opera invece era presente con doti di funambolo equilibrista, oppure era proiettato in avanti col muso e in una postura statica avvolta in sé nella parte inferiore della coda.
Negli ultimi lavori, che hanno posto termine a un silenzioso e glaciale gruppo di quadri, un ippocampo smagrito – con gli aculei, nella prima tavola di quest’ultima fase, a forma di ondulati filamenti straordinariamente lunghi – aveva il corpo e lo sguardo rivolti all’indietro, al tempo già trascorso, ad un percorso già fatto in uno spazio in realtà mai attraversato, ed era, in alcune opere, posizionato con un equilibrio instabile su una corda tesa dalla prua al timone; quest’ultimo affondava obliquamente per metà o quasi nel suolo non più gelido, presentava l’asta orizzontale in qualche caso rivoltata, altrimenti inservibile perché piegata o spezzata. Ma il cielo, in quell’atmosfera di stasi, di una sorta di arrivo a destinazione, aveva ripreso all’orizzonte un mattutino colore, brillante giallo chiaro e scuro più luminoso del chiaro, con un debole e musicale azzurro-verde che andava suggellare la parte alta della tavola, di quel cielo che sembrava possedere, tra l’altro, una forza che lo spingeva a sconfinare dai limiti del supporto.
Con un’impalcatura in divenire di malleabili regole spaziali, un semplice eppure efficace insieme di tocchi, come una prospettiva aerea di suoni, andava a firmare il tempo che sentivo di aver fatto bene a dedicare a un necessario e urgente ciclo di lavori. E la neve di quella distesa, già luogo d’acqua che ora sembrava rassodato suolo di pianura, forse si era sciolta, forse aveva cambiato colore vestendosi di un aspro verde o un’accogliente ocra; ma è più facile e più giusto pensare che la differenza di colore fosse dovuta all’incipiente e allungata nuvola magrittiana o monettiana che in quella particolare ora dilatata si limitava a coprire soltanto il proscenio e a lambire appena la scena di quel teatro muto e immobile, soprattutto privo di una qualsivoglia platea, delle isole del nord.
È nitido, in questo momento, il ricordo della sensazione che provavo, forse pure della necessità di averla, di ritrovarmi, quanto meno dentro il dipinto ogni qual volta finivo un quadro, solo come il Frankenstein (otto anni fa principale figura di un periodo di intensa e inebriante pittura su tela, pluriball, carta e cartone), che in quei giorni di gennaio ascoltavo per radio nella lettura di Tommaso Ragno, e – prendendo a prestito il titolo di un olio di Friedrich – in un mare di ghiaccio.
Ora, dai giorni più corti e creativi delle settimane a cavallo del solstizio d’inverno, passo (con un salto di alcuni mesi che altre tre esposizioni hanno visto intersecando tempi e rinviando legittime priorità: Parigi, Dedicato a Magritte, Postpresente) a quelli più lunghi d’inizio estate, nel luogo appropriato e prestabilito, dove il tempo materiale di visibilità aggiunge nuovi lati alla prismatica connotazione identitaria – nella fruttifera individualità e nella dialettica appartenenza a un gruppo – dell’opera d’arte.
F.C.
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