Francis Offman
Dal 09 Ottobre 2021 al 08 Gennaio 2022
Bologna
Luogo: P420 Gallery
Indirizzo: Via Azzo Gardino 9
Orari: da martedì a sabato: 10.30–13.30 / 15–19.30
Telefono per informazioni: +39 051 4847957
E-Mail info: office@p420.it
Sito ufficiale: http://www.p420.it
P420 è lieta di presentare la prima mostra personale in galleria di Francis Offman (1987, Butare, Ruanda).
Trasferitosi in Italia nel 1999, dopo aver studiato Scienze dell’Amministrazione all’Università degli Studi di Milano si è poi spostato a Bologna dove oggi vive e lavora dopo aver concluso l’Accademia di Belle Arti frequentando il corso di pittura di Luca Bertolo e aggiudicandosi nel 2018 il premio ArtUp della critica nell’ambito di OpenTour.
Come nota Davide Ferri, “la pratica di Francis Offman pare svolgersi attorno ad un’unica regola: non acquistare nulla, prendersi cura degli scarti”. Tutto quanto usa per la realizzazione delle sue opere - i supporti e le tele, la carta, la pittura stessa - è infatti recuperato o trovato, e anche la decisione a priori di non utilizzare un telaio appartiene a questa logica. “Inevitabilmente quindi - nota Simone Frangi nel testo che accompagna la mostra - ogni materiale che passa tra le mani del pittore ci mette di fronte alla sua storia di estrazione, più o meno violenta, alla sua trasformazione e consumazione”.
Offman recupera e conserva la polvere dalla moka dei suoi caffè, chiede agli amici di metterla da parte e portargliela, la setaccia, la asciuga e la impasta con colle per trasformarla in materia pittorica. “Un pacchetto di caffè rappresenta una mappa, mi ha spiegato una volta Jessica Sartriani, esperta di caffè” racconta Francis Offman, poiché caduto il mito della purezza del prodotto coloniale per eccellenza, ogni contenitore trasporta una miscela: la polvere è dunque una cartografia trans- coloniale che lega luoghi d’espropriazione e di appiattimento colturale e culturale.
Tra i suoi materiali privilegiati, sempre recuperati e mai veramente acquistati, il cemento e il gesso di Bologna raccontano la storia del suo rapporto con il paesaggio che lo ha accolto così diverso da quello di origine.
“Il risultato è un dipinto astratto, non c’è dubbio. - continua Davide Ferri - Ma può alludere vagamente ad un paesaggio (per certi gialli, marroni e verdi che evocano la vitalità della terra, o per certi azzurri che si incuneano tra le cose come frammenti e porzioni di cielo e corsi d’acqua), ma non c’è nulla - una linea d’orizzonte, il rimando a figure definite - che possa realmente configurarli come tali. Mettiamola così: i lavori di Offman sono astratti, ma mi sembrano richiamare, pur senza descriverla, l’immagine di un paesaggio esuberante e contrastato, un paesaggio di movimenti continui, di tremolii e sovvertimenti tellurici”. Esiste una tenace genealogia transcontinentale della pittura che, concentrandosi sulla pasta delle proprie materie e liberando le fibre dei propri supporti dallo stretto vincolo di significazione, si allontana con costanza da soggetti e specifiche tematizzazioni. La scomparsa della figura umana massiccia nel lavoro pittorico dell’artista ruandese di base in Italia Francis Offman e la sua dissoluzione molecolare nelle tracce delle sue attività segniche è un evento recente di questa storiografia non lineare e non allineata, che lo sguardo moderno coloniale ha sperato di poter addomesticare con il marchio dell’astrazione. Nulla infatti è astratto nel senso di ab-soluto e universale: ancor meno la pittura, veicolata ad acqua a temperatura “ambiente”, legata
da forme di solidarietà con i raggi solari o con l’umidità, che a seconda del variare delle stagioni, interferiscono con la secchezza o con la malleabilità della materia pittorica stessa. Riconoscere questa interdipendenza ecologica nel lavoro pittorico significa per Offman non offendere l’intelligenza della natura e riconoscersi come vivo e senziente tanto quanto vissuto ed agito. L’astrazione che Offman frequenta in pittura sembra immergersi, senza intenzionalità, in un training visuale che l’artista ha frequentato in vita: intrecci di foglie di banano, impasti monocromatici di sterco, forme e disegni architettonici, emersi in un Ruanda della memoria. L’astrazione che Offman frequenta si allontana da quel gergo codificato dai maestri occidentali iscritti nelle nostre storiografie e si avvicina più sensibilmente ad una forma di economia materiale del quotidiano, simile a quella che l’artista sonora Aurélie Lierman definisce “Afrique concrète”. Offman tratta la pittura come strumento di registrazione di movimenti e occupazioni di un corpo umano che non è più considerabile come misura delle cose. La pittura tratta Offman come una presenza che arranca, che prende la responsabilità della sua interazione con le cose e con la contingenza della sua esistenza: ogni materiale che passa tra le mani del pittore ci mette infatti di fronte alla sua storia di estrazione, più o meno violenta. Al suo trattamento, alla sua modificazione. L’architettura concettuale del lavoro di Offman si avvicina ad un processo di “sviluppo prodotto”, di cui l’artista monitora la sostenibilità e la biografia materiale. In un buon numero di serie, infinite e senza nome, aperte da Offman nel 2020, fa apparizione mimetica il caffè: se, quando giunge a noi, quella polvere è già passata in molte mani, cosa può voler dire manipolarla ulteriormente? Quali scenari etici si aprono nel suo utilizzo e nello “sporcarsi le mani” con una storia intrisa dalla riattivazione di rotte imperialiste, prolungate dalla circolazione neoliberale di un bene ormai di lusso. Come sostiene Jessica Sartriani in un recente testo sulla pratica di Offman, “un pacchetto di caffè rappresenta una mappa” poiché, caduto il mito della “purezza” del prodotto coloniale per eccellenza estratto dall’esotica e sottomessa Etiopia, ogni contenitore trasporta una miscela: la polvere è dunque una cartografia trans-coloniale, che lega nodi tra diversi settlement europei in Africa, in Asia e in Abya Yala - luoghi d’espropriazione e di appiattimento colturale/culturale attraverso l’imposizione delle monoculture - e che getta luce sulle relazioni costitutive tra colonialismo, piantocene e tratta transatlantica e transmediterranea di corpi razzializzati. La relazione tra Offman e la pittura è mediata dal principio alchemico della “migrazione della materia”: se ogni sostanza ha un struttura diasporica e lascia un segno del proprio passaggio, allora la pittura, come il caffè, può squadernarsi come uno spazio sociale. Sottratta al discorso del linguaggio culturale e del codice linguistico la pittura può diventare, letteralmente, una piattaforma per esprimere concetti complessi nella forma accessibile dell’epifania. Ovvero un modo di accedere alla profondità dell’idea senza bloccarne accesso attraverso il linguaggio, vero dispositivo di limitazione inventato dalle scienze. La ruminazione che la pittura permette, quella lentezza che assomiglia ad una forma di macero riflessivo, obbliga a convocare la quarta dimensione. Il tempo, profondo ed abissale, non lineare né circolare, è la “giusta unità di misura” per quantificare e qualificare l’efficacia del supporto pittorico, ormai zona cosmopolita perché aperto al mis-undertanding e all’interpretazione. In Offman la pittura è un luogo di macerazione, non gestuale né performativo: è uno spazio paludoso di inerzia e di allenamento. Se l’invenzione di tecnologie sociali come il razzismo ha sancito un appiattimento coloniale dei paesaggi della conoscenza, nella pittura vi è qualcosa che resiste poiché non ha nulla a che fare con la razionalità sostenuta dal capitalismo. Se vi è una rivendicazione possibile tramite la pittura è quella dell’opposizione alla disumanizzazione. testo di Simone Frangi
Trasferitosi in Italia nel 1999, dopo aver studiato Scienze dell’Amministrazione all’Università degli Studi di Milano si è poi spostato a Bologna dove oggi vive e lavora dopo aver concluso l’Accademia di Belle Arti frequentando il corso di pittura di Luca Bertolo e aggiudicandosi nel 2018 il premio ArtUp della critica nell’ambito di OpenTour.
Come nota Davide Ferri, “la pratica di Francis Offman pare svolgersi attorno ad un’unica regola: non acquistare nulla, prendersi cura degli scarti”. Tutto quanto usa per la realizzazione delle sue opere - i supporti e le tele, la carta, la pittura stessa - è infatti recuperato o trovato, e anche la decisione a priori di non utilizzare un telaio appartiene a questa logica. “Inevitabilmente quindi - nota Simone Frangi nel testo che accompagna la mostra - ogni materiale che passa tra le mani del pittore ci mette di fronte alla sua storia di estrazione, più o meno violenta, alla sua trasformazione e consumazione”.
Offman recupera e conserva la polvere dalla moka dei suoi caffè, chiede agli amici di metterla da parte e portargliela, la setaccia, la asciuga e la impasta con colle per trasformarla in materia pittorica. “Un pacchetto di caffè rappresenta una mappa, mi ha spiegato una volta Jessica Sartriani, esperta di caffè” racconta Francis Offman, poiché caduto il mito della purezza del prodotto coloniale per eccellenza, ogni contenitore trasporta una miscela: la polvere è dunque una cartografia trans- coloniale che lega luoghi d’espropriazione e di appiattimento colturale e culturale.
Tra i suoi materiali privilegiati, sempre recuperati e mai veramente acquistati, il cemento e il gesso di Bologna raccontano la storia del suo rapporto con il paesaggio che lo ha accolto così diverso da quello di origine.
“Il risultato è un dipinto astratto, non c’è dubbio. - continua Davide Ferri - Ma può alludere vagamente ad un paesaggio (per certi gialli, marroni e verdi che evocano la vitalità della terra, o per certi azzurri che si incuneano tra le cose come frammenti e porzioni di cielo e corsi d’acqua), ma non c’è nulla - una linea d’orizzonte, il rimando a figure definite - che possa realmente configurarli come tali. Mettiamola così: i lavori di Offman sono astratti, ma mi sembrano richiamare, pur senza descriverla, l’immagine di un paesaggio esuberante e contrastato, un paesaggio di movimenti continui, di tremolii e sovvertimenti tellurici”. Esiste una tenace genealogia transcontinentale della pittura che, concentrandosi sulla pasta delle proprie materie e liberando le fibre dei propri supporti dallo stretto vincolo di significazione, si allontana con costanza da soggetti e specifiche tematizzazioni. La scomparsa della figura umana massiccia nel lavoro pittorico dell’artista ruandese di base in Italia Francis Offman e la sua dissoluzione molecolare nelle tracce delle sue attività segniche è un evento recente di questa storiografia non lineare e non allineata, che lo sguardo moderno coloniale ha sperato di poter addomesticare con il marchio dell’astrazione. Nulla infatti è astratto nel senso di ab-soluto e universale: ancor meno la pittura, veicolata ad acqua a temperatura “ambiente”, legata
da forme di solidarietà con i raggi solari o con l’umidità, che a seconda del variare delle stagioni, interferiscono con la secchezza o con la malleabilità della materia pittorica stessa. Riconoscere questa interdipendenza ecologica nel lavoro pittorico significa per Offman non offendere l’intelligenza della natura e riconoscersi come vivo e senziente tanto quanto vissuto ed agito. L’astrazione che Offman frequenta in pittura sembra immergersi, senza intenzionalità, in un training visuale che l’artista ha frequentato in vita: intrecci di foglie di banano, impasti monocromatici di sterco, forme e disegni architettonici, emersi in un Ruanda della memoria. L’astrazione che Offman frequenta si allontana da quel gergo codificato dai maestri occidentali iscritti nelle nostre storiografie e si avvicina più sensibilmente ad una forma di economia materiale del quotidiano, simile a quella che l’artista sonora Aurélie Lierman definisce “Afrique concrète”. Offman tratta la pittura come strumento di registrazione di movimenti e occupazioni di un corpo umano che non è più considerabile come misura delle cose. La pittura tratta Offman come una presenza che arranca, che prende la responsabilità della sua interazione con le cose e con la contingenza della sua esistenza: ogni materiale che passa tra le mani del pittore ci mette infatti di fronte alla sua storia di estrazione, più o meno violenta. Al suo trattamento, alla sua modificazione. L’architettura concettuale del lavoro di Offman si avvicina ad un processo di “sviluppo prodotto”, di cui l’artista monitora la sostenibilità e la biografia materiale. In un buon numero di serie, infinite e senza nome, aperte da Offman nel 2020, fa apparizione mimetica il caffè: se, quando giunge a noi, quella polvere è già passata in molte mani, cosa può voler dire manipolarla ulteriormente? Quali scenari etici si aprono nel suo utilizzo e nello “sporcarsi le mani” con una storia intrisa dalla riattivazione di rotte imperialiste, prolungate dalla circolazione neoliberale di un bene ormai di lusso. Come sostiene Jessica Sartriani in un recente testo sulla pratica di Offman, “un pacchetto di caffè rappresenta una mappa” poiché, caduto il mito della “purezza” del prodotto coloniale per eccellenza estratto dall’esotica e sottomessa Etiopia, ogni contenitore trasporta una miscela: la polvere è dunque una cartografia trans-coloniale, che lega nodi tra diversi settlement europei in Africa, in Asia e in Abya Yala - luoghi d’espropriazione e di appiattimento colturale/culturale attraverso l’imposizione delle monoculture - e che getta luce sulle relazioni costitutive tra colonialismo, piantocene e tratta transatlantica e transmediterranea di corpi razzializzati. La relazione tra Offman e la pittura è mediata dal principio alchemico della “migrazione della materia”: se ogni sostanza ha un struttura diasporica e lascia un segno del proprio passaggio, allora la pittura, come il caffè, può squadernarsi come uno spazio sociale. Sottratta al discorso del linguaggio culturale e del codice linguistico la pittura può diventare, letteralmente, una piattaforma per esprimere concetti complessi nella forma accessibile dell’epifania. Ovvero un modo di accedere alla profondità dell’idea senza bloccarne accesso attraverso il linguaggio, vero dispositivo di limitazione inventato dalle scienze. La ruminazione che la pittura permette, quella lentezza che assomiglia ad una forma di macero riflessivo, obbliga a convocare la quarta dimensione. Il tempo, profondo ed abissale, non lineare né circolare, è la “giusta unità di misura” per quantificare e qualificare l’efficacia del supporto pittorico, ormai zona cosmopolita perché aperto al mis-undertanding e all’interpretazione. In Offman la pittura è un luogo di macerazione, non gestuale né performativo: è uno spazio paludoso di inerzia e di allenamento. Se l’invenzione di tecnologie sociali come il razzismo ha sancito un appiattimento coloniale dei paesaggi della conoscenza, nella pittura vi è qualcosa che resiste poiché non ha nulla a che fare con la razionalità sostenuta dal capitalismo. Se vi è una rivendicazione possibile tramite la pittura è quella dell’opposizione alla disumanizzazione. testo di Simone Frangi
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