L'Apocalisse e la luce

Giorgio De Chirico, L'Apocalisse TAV XX 1

Giorgio De Chirico, L'Apocalisse TAV XX 1, L'Apocalisse e la luce, Museo Palazzo de’ Mayo, Chieti

 

Dal 27 Aprile 2012 al 15 Luglio 2012

Chieti

Luogo: Museo Palazzo de’ Mayo

Indirizzo: corso Marrucino 121

Orari: martedì-domenica 10-13; sabato e domenica anche apertura pomeridiana 6-20; dal 1° luglio orario estivo martedì-domenica 19-23

Curatori: Giovanni Gazzaneo, Elena Pontiggia

Costo del biglietto: ingresso gratuito

Telefono per informazioni: +39 0871 568206/ 0871 359801

E-Mail info: info@rosifontana.it

Sito ufficiale: http://www.rosifontana.it


La Fondazione Carichieti apre la stagione 2012 del Museo Palazzo de’ Mayo con una mostra significativa e originale: “De Chirico. L’apocalisse e la luce”, in programma dal 27 aprile al 15 luglio 2012.

Del Maestro della metafisica si conoscono bene l’opera e i capolavori. Poco indagata è, invece, la tematica religiosa, che si sviluppa negli anni Quaranta, a partire dalle incisioni per l’Apocalisse, e prosegue negli anni successivi con una ricerca sconosciuta, e spesso inedita, dagli esiti complessi e problematici.

Il percorso della rassegna, ideata da Crocevia – Fondazione Alfredo e Teresita Paglione, prodotta dalla Fondazione Carichieti, in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico di Roma, e curata da Giovanni Gazzaneo e Elena Pontiggia, offre dunque al pubblico e agli studiosi una nuova e sorprendente chiave di lettura dell’opera dechirichiana.

Cinquantacinque le opere esposte a Palazzo de’ Mayo. Il percorso espositivo parte idealmente dall’Apocalisse: un’ opera permeata di una poetica decisamente “poco apocalittica – come scrive Elena Pontiggia nel saggio in catalogo – e caratterizzata da atmosfere di tranquilla serenità, di candore fanciullesco, di stilemi iconografici più fantasiosi che raccapriccianti”.

Del capolavoro della grafica dechirichiana saranno in mostra sia le venti litografie realizzate nel 1940 e pubblicate nel 1941, rilegate in volume, sia le ventidue litografie acquarellate a mano dal Maestro dell’edizione del 1977. Accanto ad esse figurano dipinti che spaziano dal Buon samaritano e San Tobia e i viandanti, entrambi del 1939 all’ Annunciazione del 1954 al Tondo Doni da Michelangelo, 1975, una delle ultime opere dell’artista.

Culmine dell’esposizione è La salita al Calvario, il capolavoro sacro di de Chirico: una tela monumentale realizzata nel 1947 e per anni conservata gelosamente dal Maestro nella sua abitazione. Restaurata per l’occasione dalla Fondazione Carichieti, arriva in prestito straordinario dalla chiesa di San Francesco a Ripa di Roma, dove è collocata sulla tomba di de Chirico e della moglie. Provengono infine dalla Galleria di Arte Contemporanea della Pro Civitate Christiana di Assisi, il Gesù divino lavoratore (1951) e quattro disegni inediti (1949), mentre dell'Istituto delle Suore Clarisse di Rieti è il prestito della Crocifissione del 1950.

In occasione dell’esposizione di Chieti, oltre al catalogo della mostra, introdotto da monsignor Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, verrà presentato anche il catalogo ragionato dell'opera sacra di de Chirico, a cura di Crocevia – Fondazione Alfredo e Teresita Paglione. Il testo, che per la prima volta affronta l’argomento in maniera sistematica e criticamente approfondita, presenta oltre centocinquanta opere, molte delle quali inedite o di rara pubblicazione. Entrambi i volumi sono pubblicati da Silvana Editoriale.

Architetto Mario Di Nisio
Presidente della Fondazione Carichieti
Per la prima volta nel 2012, per la quarta da quando è stato restituito alla vita e all’arte, Palazzo de’ Mayo ospita una mostra temporanea di notevole valore, a conferma della qualità che ha caratterizzato le esposizioni che l’hanno preceduta. Dal 27 aprile al 15 luglio 2012, l’ala del monumentale complesso riservata alle mostre temporanee accoglierà nelle sue sale alcuni capolavori di Giorgio de Chirico, una delle figure più significative e complesse nel panorama artistico del Novecento europeo.

Iniziatore della pittura metafisica, operò una continua ricerca che lo condusse anche alla rievocazione di motivi classici e al recupero della grande tradizione della pittura barocca e romantica. Per questi motivi una mostra di de Chirico è già di per sé un avvenimento di scontata importanza, ma quella di Chieti ha un valore tutto suo, aggiuntivo. È infatti la prima, fatta eccezione per quella realizzata da Achille Bonito Oliva nel 2004 (La passione secondo de Chirico presso la chiesa romana di San Francesco d'Assisi a Ripa Grande in Trastevere), dedicata a un “momento” particolare, tra i meno conosciuti ma di sicuro rilevante, dell’arte del grande Maestro, quello religioso, come si evince dal titolo stesso della rassegna: De Chirico. L’Apocalisse e la luce. [...]

Io mi limito, invece, a sottolineare il legame che unisce le quattro mostre con le quali Palazzo de’ Mayo ha iniziato la sua attività; un legame che individua nelle scelte rigorose e di alto profilo degli autori e delle opere da esporre di volta in volta l’elemento caratterizzante della “politica” prescelta. Rigore e alto profilo che ben si possono riconoscere nella “personale” di Mimmo Paladino che dal gennaio al giugno dello scorso anno ha proposto, unitamente al Nuovo Guerriero (ispirato al Guerriero di Capestrano, conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Villa Frigerj), i suoi capolavori, nei quali il gusto e l’essenziale plasticità dei nostri tempi si coniugano con l’equilibrio e la possanza delle sculture classiche; nei “cento scatti” di Pepi . Merisio, tra i maggiori e più sensibili fotografi della scena internazionale, che, dal 13 luglio al 2 ottobre 2011, ci hanno raccontato per immagini, emozionando, L’Abruzzo nell’Italia di ieri; nei documenti, negli oggetti, nei ritratti, negli scritti della mostra che, dedicata alla figura di Giuseppe Garibaldi (Garibaldi e l’Unità d’Italia. I Mille volti del Mito, 29 ottobre 2011 - 29 gennaio 2012) ha dato degna conclusione alle tante iniziative organizzate nella provincia di Chieti per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. [...]

A breve, infatti, a conclusione di un impegnativo restauro e di un attento allestimento, Palazzo de’ Mayo aprirà alla collettività, agli studiosi, agli appassionati dell’arte, ai giovani il suo museo permanente, il Centro Abruzzese Studi Manzoniani, l’auditorium,le sale conferenze, la biblioteca specializzata in storia dell’arte e quella dedicata ai ragazzi, le corti, coperte e non, il giardino all’italiana e gli spazi archeologici, avviandosi a svolgere quel ruolo al quale la Fondazione Carichieti l’ha destinato: essere la “Cittadella della Cultura” a servizio dell’Abruzzo tutto.

Paolo Picozza
Presidente Fondazione Giorgio e Isa de Chirico
Giorgio de Chirico tendeva a mantenere la propria religiosità entro confini intimi e privati, eppure tanto importante nell’opera, nel pensiero e nel sentire dell’artista, tanto da fargli dichiarare e ribadire in più occasioni: “L’arte è sempre sacra, anche quando tratta un soggetto profano” (L’arte sacra, in La Commedia dell’Arte Moderna del 1945). Un afflato mistico, un momento religioso autentico e molto intenso l’artista deve averlo vissuto in concomitanza con la seconda guerra mondiale, investendo l’ultimo scorcio degli anni trenta e i due decenni successivi: nei suoi scritti teorici inizia a riflettere di aspetti spirituali e nella sua pittura comincia ad accostarsi a soggetti sacri. Dal 1939 dunque dà avvio a una consistente produzione a oggetto e carattere strettamente religioso, sicuramente notevole a livello qualitativo,in un ciclo che sostanzialmente si conclude verso il 1952-1953.

Inizia con una straordinaria Pietà in terracotta policroma,illustra l’Apocalisse, dipinge Cristo e la tempesta, la Deposizione e molti altri lavori durante e dopo la guerra. Gli orrori del conflitto bellico, il nazismo, il senso di morte incidono profondamente sulla sua sensibilità: in precedenza non aveva mai rappresentato temi religiosi, eccezion fatta per i d’après,come San Giorgio e il drago da Mantegna o la Sacra famiglia da Michelangelo, ma in questi e altri casi ciò che gli interessava era la pittura, non tanto le questioni di fede o la sacralità dell’evento.

Nel 1940 realizza delle sorprendenti litografie per illustrare l’Apocalisse: si assiste a uno sconcertante mutamento stilistico,c’è la freschezza e la levità del tratto di un disegno infantile,insieme a una grande perizia; l’effetto è che l’immagine si svuota di ogni corporeità. A questa nuova fase appartengono le Crocifissioni, Natività, Deposizioni, Il buon samaritano,L’Annunciazione, Cristo issato sulla croce e lo straordinario e complesso dipinto La salita al Calvario che mette in particolare luce come de Chirico avesse compreso la spiritualità di san Francesco d’Assisi. Del 1951 è l’olio su tela del Gesù divino lavoratore, con la pialla in mano, la cui ieratica umiltà lo rende uno degli ultimi capolavori di questa toccante stagione.

Elena Pontiggia
Curatore della mostra
dal saggio in catalogo
Delle tavole disegnate da de Chirico per il libro di San Giovanni conosciamo con certezza la data di esecuzione, fra l’agosto e il dicembre del 1940. L’artista infatti nell’articolo Perché ho illustrato l’Apocalisse, che esce nel gennaio 1941, scrive che in agosto aveva accettato “con entusiasmo” la proposta, rivoltagli da Raffaele Carrieri, di eseguire alcune litografie per una nuova edizione dello scritto di Patmos. Poiché l’opera, a questa data, è praticamente finita, possiamo collocare le tavole nella seconda metà del 1940, giungendo al massimo ai primissimi giorni del 1941. [...]

Quella serie apparentemente trascurabile (e dalla critica infatti trascurata) di venti fogli porta un’innovazione iconografica profonda nella storia millenaria delle illustrazioni del libro giovanneo. Nessuno, da almeno mezzo millennio, aveva disegnato un’Apocalisse così poco apocalittica come de Chirico. E nessuno, forse, ne aveva raffigurato gli eventi con tanta tranquilla serenità, venata in alcune parti da un candore addirittura fanciullesco. Il libro sacro più misterioso e terribile, tradizionalmente interpretato come profezia della fine del mondo (anche se in realtà è più una meditazione sulla dolorosa storia dell’uomo che sul suo destino escatologico e culmina con la luce sfolgorante della Nuova Gerusalemme e del trionfo dell’Agnello); le visionarie pagine giovannee, abitate da mostri e draghi, oscurate dalle tenebre dell’Anticristo e percorse dai flagelli orrendi dei Quattro Cavalieri, diventano in de Chirico un racconto fiabesco, insieme spontaneo e colto, soffuso in certi punti di un evangelico spirito d’infanzia, in altri di solenni accenti classici.

Vediamo il primo di questi due aspetti. “In quella grande e strana casa che è l’Apocalisse [...] io sogno, incuriosito e felice, come il fanciullo, tra i suoi balocchi, nella notte di Natale”, confessa l’artista. Certo, le rivelazioni di Giovanni non sembrano le più adatte per un sogno felice, eppure nelle tavole di de Chirico aleggia davvero una sorta di stupefatta giocosità che prevale sui toni ieratici e sui sentimenti di terrore. Spesso le sue carte ritrovano l’“ingenuità” di certe raffigurazioni altomedioevali, ma con un sapore di quotidianità che solo un moderno può avere. E anche dove compaiono bestie feroci e dragoni il loro aspetto è più fantasioso che raccapricciante. Non sembrano demoni, ma animali di peluche.

Indimenticabile, tra tutte, è la prima tavola del ciclo, dove la venuta finale di Cristo che avanza tra le quinte delle nubi (scostate volonterosamente dal servizio d’ordine degli angeli, come se fossero i tendaggi di un sipario teatrale), ha l’aria di un raduno gioioso di una compagnia di amici per il sospirato ritorno di una persona cara. L’umanità di tutte le epoche, dall’alba della storia alla fine dei tempi, si assiepa tranquillamente in primo piano con la stessa confidenza adorante, ma non intimidita, che potrebbe avere una folla di ammiratori accorsa a festeggiare un leader o un beniamino amatissimo. Nessuno si inginocchia, nessuno ha paura, nessuno trema. Tutti sono venuti all’appuntamento così com’erano: il bambino col suo giocattolo, la lavandaia con la cesta di vimini a tracolla, il patrizio romano appena uscito dalle terme, il cavaliere spagnolo con l’armatura istoriata, l’anziano col suo bastone, il mercante del Medio Oriente col cammello, la coppia di innamorati stretta in un abbraccio, il cane senza guinzaglio.

La composizione ha quella assurdità plausibile, quella naturalezza soprannaturale che si trova solo nelle pagine dei mistici o dei poeti. E fa pensare al realismo metafisico di certi versi di Vladimir Holan: “Perdonami, o Dio, ma il Giudizio Universale/ per me non assomiglia a uno squillare di trombe/ ma piuttosto al chicchirichì di un gallo./ Allora la mamma metterà in tavola/ e saremo di nuovo tutti insieme”.

Anche le catastrofi cosmiche sono interpretate da de Chirico con una immediatezza stupefatta: così nella tavola VIII “...e le stelle del cielo caddero sulla terra” si coglie un senso quasi ludico nel precipitare delle stelle, che sembrano festosi yo-yo, e nella fuga dei re della terra, disposti sulla spiaggia come i soldatini di un teatro delle marionette. E cosa dire del drappo che pende mollemente dalla coltre delle nuvole, come un lenzuolo steso ad asciugare su un terrazzo (tav. XV)? È’ un’allusione alla Tenda della testimonianza, a sua volta immagine dell’Arca dell’Alleanza, o solo la veste dimenticata di qualche angelo? Del resto la Gerusalemme celeste, la città con le mura di diaspro e le fondamenta ornate di pietre preziose, qui (tav. XXI) ha l’aspetto di una città- giocattolo e scende dalle nubi raccolta in un fazzoletto, come il fagotto di un mendicante.

Sono accenti di un candore insolito nell’opera di de Chirico, cui probabilmente non sono estranei né l’affabilità narrativa di Bontempelli, né la naïveté colloquiale di Carrieri, entrambi amici dell’artista e coinvolti anch’essi nell’avventura dell’Apocalisse. [...] Accanto a queste suggestioni, del resto, non va dimenticato un dato psicologico che può spiegare il tono fiabesco di queste tavole: quella sfumatura, per così dire, fanciullesca del carattere dell’artista, che convive con una cultura profonda e raffinatissima, e che Emanuelli, parlando dell’Apocalisse, definisce la “naturalezza” di de Chirico.

Oltre agli accenti più “ingenui” (lontani, però, dalla stucchevolezza e dalla sgrammaticatura di un certo primitivismo novecentesco) troviamo poi nell’Apocalisse anche nobili cadenze antiche, in una trama di suggestioni che si estende dalla grecità a Signorelli, dal Carpaccio al Pollaiolo a Raffaello. De Chirico non dimentica di essere un Pictor classicus ed esercita sulla composizione un controllo formale che elude i passaggi più aspri del testo giovanneo ed evita ogni tragicità espressionista. In alcune tavole si ispira anche al più celebre ciclo di illustrazioni dell’Apocalisse, quello di Dürer, ma opposto è il tono del suo racconto, che attenua l’orrido e il terribile, e disegna i paesaggi di Patmos con una grazia quattrocentesca.

Insolita, in questo senso, è la sua interpretazione dei Quattro Cavalieri. Anziché disegnarli tutti insieme, secondo l’iconografia più diffusa, de Chirico li rappresenta a uno a uno, scindendo la loro corsa affollata e tumultuosa in una sequenza di composte statue equestri: un tema classico per eccellenza, questo, confluito poi nel barocco e nel romanticismo, cui l’artista è particolarmente attento in questi anni in cui studia il Seicento, Delacroix, Gericault. Così, se si esclude il condottiero simbolo della Morte (che però ha una parvenza di marionetta e risulta più accorato che terrificante, tav. VII), gli altri tre cavalieri ci si presentano come eleganti Dioscuri nello splendore della giovinezza, non come i tremendi messaggeri di sterminio di cui parla Giovanni.[...]

Altrettanto classici, nelle illustrazioni dell’Apocalisse, sono poi l’angelo dal bel torso policleteo che ingiunge a Giovanni di divorare il libro sacro (tav. X); la colonna dorica accanto all’Angelo che annuncia il giudizio di Dio (tav. XIV); il cavallo bianco su cui avanza il Cavaliere Fedele (tav. XVII). E più ancora è classica, o per meglio dire apollinea, la misura della narrazione, equilibrata e sobria, lontana da ogni ricerca dell’effetto come da ogni teatro dell’angoscia.

Giovanni Gazzaneo
Curatore della mostra
dal saggio in catalogo
Le opere sacre di de Chirico affascinano per il loro lessico familiare. Il racconto della storia della Salvezza sembra calarsi in un presente senza tempo, che è anche il nostro quotidiano: dalla lotta tra terra e cielo di Giacobbe e l’angelo, alla giocosa freschezza del ciclo dell’Apocalisse, al fanciullesco abbandono del Bambino Gesù benedicente, allo sguardo di Francesco nella Salita al Calvario, invito a caricarci ogni giorno della nostra croce. Una familiarità non facile da riscontrare nelle opere a soggetto religioso del Novecento. Sgorga dalla straordinaria cultura del Pictor Optimus, che si è fatto carico della tradizione millenaria guardando ai grandi maestri e a quelle icone che sono i punti cardinali dell’immaginario cristiano. E insieme è frutto della semplicità del segno, quasi a voler incarnare la logica di Dio che entrando nella storia degli uomini sceglie prevalentemente i semplici, i poveri, gli illetterati. Achille Bonito Oliva parla di “francescana elementarità”.

La sua arte sacra se da un lato è strettamente imparentata alla ricerca dell’essenziale che caratterizza la stagione metafisica, dall’altra ha la stessa potenza dirompente della rivoluzione copernicana: la centralità della figura umana, che comporta la scomparsa dell’architettura come soggetto, è per de Chirico la premessa essenziale della possibilità stessa di un’arte a soggetto religioso.

Disumanizzata dalle avanguardie e scomparsa in tanta arte contemporanea, la decostruzione e l’assenza della figura umana erano necessarie per liberarsi dei secoli di arte cristiana che avevano proposto l’uomo come immagine di Dio e la storia degli uomini legata in modo inscindibile alla storia della Salvezza [...].

L’apertura al sacro si accompagna alla critica alla modernità, a partire dalla libertà intesa come indeterminatezza, senza riferimenti cardinali e senza confini, nel segno della contraddizione e del puro arbitrio. Critica rivolta a quella fame e sete di novità e originalità che spesso nascondono, dietro la povertà dell’opera, l’incapacità di fare e di dare forma e colore a un’idea e a un’emozione, di proporre una bellezza che sappia parlare ai nostri giorni e a quelli a venire, degna di essere contemplata e di durare. “L’arte moderna – scrive de Chirico – è la più grande responsabile della decadenza delle qualità morali e spirituali degli uomini nella nostra epoca. Possiamo dire che nessun’altra epoca è riuscita, non dico a far penetrare, poiché è impossibile, ma a portare il male, l’assurdo e la stupidità così vicino a quelle cose sublimi dello spirito che sono le differenti forme dell’arte, come lo ha fatto la nostra epoca per mezzo dell’arte moderna”. [...]

La scoperta del sacro è anche riscoperta. La ricerca di un linguaggio contemporaneo nel segno della bellezza da contemplare e della sfida all’oblio del tempo non ha possibilità alcuna se non si innesta nella millenaria tradizione e se ne fa carico. A partire da quella passione del Pictor Optimus di guardare ai maestri del passato e di fare un’opera d’arte dell’opera d’arte, e non semplici copie. Scrive a firma di Isabella Far: “L’influenza che l’arte religiosa ha sempre avuto sul lavoro di Giorgio de Chirico è molto importante. È a quei quadri che ha copiato spassionatamente nei musei, cercando di fare delle copie che fossero opere d’arte, a quei quadri, dico, che deve la comprensione della bellezza pittorica. Tale fatto è stato per lui una sì grande rivelazione, che da quel giorno ha cominciato a cercare, senza mai scoraggiarsi, di scoprire i segreti dei grandi maestri”. E ancora: “Le Madonne di Raffaello, del Correggio e di Murillo hanno rivelato a Giorgio de Chirico, quand’era adolescente, la vera grandezza della pittura [...]. Già allora, mentre era ancora adolescente, intuì, pel merito di tali capolavori, che il mistero divino include nella sua grandiosità anche il mistero dell’arte. Gli fu in tal modo concesso di capire che l’arte è il fenomeno il quale con la sua perfezione ci porta più vicino a Dio; gli fu concesso di capire che in essa si rivela la presenza divina”.

De Chirico è stato tra i pochi artisti del Novecento ad aver colto il paradosso del Cristo che è insieme il “più bello fra i figli dell’uomo” (Salmo 45,3) e l’Ecce homo senza “bellezza né apparenza” (Isaia 53,2). Sono questi i due volti sempre presenti nell’arte cristiana, come ha in più occasioni sottolineato Benedetto XVI: il volto del dolore (che il secolo scorso ci ha proposto nel segno della croce) e il volto della gloria (che il Novecento ha saputo esprimere molto raramente), entrambi belli perché espressione dell’amore più grande, quello che dà la vita. La Salita al Calvario e l’Apocalisse sono espressioni di questo paradosso antico di duemila anni eppure sempre nuovo, a cui i linguaggi della contemporaneità sono chiamati a dare espressione e a cui de Chirico ha saputo offrire forma e colore.

Mons. Bruno Forte
Il Pictor Optimus inizia a dipingere soggetti dichiaratamente ispirati alla tradizione religiosa cristiana alla fine degli anni trenta e vi si dedica con qualche continuità negli anni quaranta e cinquanta, più episodicamente nei successivi. Certamente hanno un sapore “sacro” molti dei temi della sua produzione: il viaggio, la partenza e la nostalgia del ritorno – tutte metafore della vita –, la relazione fra esistenza e materia inanimata, fra scorrere del tempo ed eternità, l’allusione al rapporto col padre. Si comprende in questa luce come per de Chirico l’arte sia sempre sacra, anche quando tratta un soggetto profano. Tuttavia, è la percezione dell’enigma e della gioia, del timore e della meraviglia, in una mescolanza apparentemente contraddittoria, a dare all’intera opera dell’Artista una tonalità filosofico-sapienziale e religiosa: gli enigmi non sono solo “le grandi domande che ci siamo sempre posti – perché il mondo è stato creato, perché nasciamo, viviamo e moriamo”, ma si nascondono in tutte le cose, soprattutto in quelle “che di solito si considerano insignificanti”. La pittura metafisica rivela che il mondo intero è un enigma, che non ha spiegazione né scopo manifesti: in questa fase, de Chirico parla esplicitamente di un “non senso dell’universo”.

Il tremendum si esprime nella forma della scultoreità delle figure,della teatralità arcana degli sfondi. E insieme si percepisce in queste pitture come un salutare distacco, una tranquillità del “sapiente”, che pare stia a osservare la scena di questo mondo che passa e sembra non passare. Sarà però nella produzione esplicitamente sacra che il timore si trasformerà in sgomento davanti al dolore umano e la meraviglia gioiosa assumerà la forma del gioco sereno dinanzi all’Eterno: è quanto si coglie nelle illustrazioni per l’Apocalisse e nella scultura La pietà, entrambe del 1940. La “foresta dei simboli” dell’ultimo libro della Bibbia ha in realtà ispirato innumerevoli opere d’arte: nessuno, però, come de Chirico ha disegnato un’Apocalisse così poco drammatica, in figure pervase da una tale tranquillità e venate perfino di una sorta di fanciullesca innocenza. Probabilmente senza averne piena consapevolezza, data anche l’interpretazione corrente ai suoi tempi, de Chirico ha compreso che quel libro ispirato narra di una liturgia cosmica, che mira a rassicurare la chiesa nascente,provata ormai dalle persecuzioni, della vicinanza fedele e vittoriosa del suo Signore. Una teologia della speranza sotto forma di teologia della storia: tale è in realtà l’Apocalisse, e tale la raffigura il genio dell’artista, quasi stemperando il dramma col sorriso diffuso di chi sa di una finale vittoria.

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