"Terre" dalla Collezione Olgiati
Dal 27 Marzo 2021 al 06 Giugno 2021
Lugano |
Luogo: Collezione Giancarlo e Danna Olgiati
Indirizzo: Riva Caccia 1
Orari: da venerdì a domenica: 11:00 – 18:00
Costo del biglietto: Ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +41 (0)91 815 79 73
E-Mail info: info@collezioneolgiati.ch
Sito ufficiale: http://www.collezioneolgiati.ch
La Collezione Giancarlo e Danna Olgiati riapre la stagione espositiva con un allestimento tematico dal titolo “Terre” dalla Collezione Olgiati. L’esposizione propone una selezione di ventidue opere di pittura e scultura che spaziano dagli anni Venti al presente, raccolte intorno al titolo “Terre” e accomunate da una dimensione “materica”. I quattordici artisti presenti in mostra – di epoche diverse e di varia origine geografica – indagano con straordinaria varietà di esiti le qualità espressive della materia: dalla pittura dominata dai colori della terra di Zoran Mušič, alle ricerche informali di ambito italiano ed europeo, fino ai materiali “cosmici” di Enrico Prampolini, Eliseo Mattiacci e Anselm Kiefer. La mostra presenta un importante nucleo di opere di cui molte mai esposte in precedenza, offrendo uno sguardo inedito sulla Collezione Giancarlo e Danna Olgiati nel suo complesso, in termini di scelte artistiche e di visione d’insieme.
Il progetto espositivo prende le mosse da un significativo gruppo di cinque dipinti del pittore e artista grafico di origini slovene Zoran Mušič (Gorizia, 1909 – Venezia, 2005): Paesaggio senese(1953), Enclos primitif (E3) (1960), Motif végétal (1972), Terre d’istria (1957) e Terre dalmate(1959). Sono opere che testimoniano la stagione creativa che segue il trasferimento dell’artista a Parigi nel 1953, quando la sua produzione pittorica si avvicina al linguaggio dell’informale francese. Attraverso una pittura di motivi organici dalle tonalità aride che spesso sconfina oltre il figurativo, Mušič racconta un universo intimo e personale, in cui riaffiora il ricordo delle terre dell’infanzia e del vissuto dell’artista.
Nella stessa sala dialogano importanti opere di tre maestri del Novecento italiano, Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995), Leoncillo (Leoncillo Leonardi, Spoleto, 1915 – Roma, 1968) ed Emilio Vedova (Venezia, 1919 – 2006). Protagonisti della stagione informale, ci introducono ad una poetica fondata sul valore intrinseco della materia ridotta al suo stato primordiale. Interrogandosi sulla possibilità di rappresentare un mondo devastato a seguito della distruzione operata dai conflitti mondiali, questi autori danno vita a una ricerca che si libera dal controllo ideale e razionale dell’immagine in favore dell’espressività degli elementi (sacchi di juta, ferro, legno o plastica) e la terra nella sua sostanza friabile e grumosa. Di Burri abbiamo un Bianco Nero Cretto del 1972, la cui superficie frammentata che richiama le fessurazioni delle terre argillose restituisce la “sofferenza” della materia esposta al processo di essiccamento; una composizione che prefigura tutta la drammaticità del Grande Cretto(1984-89) realizzato dall’artista a Gibellina, sulle macerie della città rasa al suolo dal terremoto che, nel 1968, colpì la Valle del Belice, in Sicilia. La scultura Senza titolo (1960) rivela l’originale processo creativo con cui Leoncillo utilizza il gres (materiale ceramico a pasta dura), lasciando trasparire la profonda identificazione dell’autore con la materia stessa (“creta carne mia”, affermava l’artista), mentre nella scultura Per uno spazio - 29 (1987-88) di Emilio Vedova è la carica gestuale della pittura ad imporsi, andando ad inglobare a sé un altro materiale (il legno), fino a connotarlo di una qualità plastico-spaziale.
L’incontro con l’arte informale prosegue nella sezione successiva con le opere pittoriche di due dei suoi maggiori interpreti in ambito europeo: Marrò (1958) di Antoni Tàpies (Barcellona 1923 – 2012) e Masque de terre (1960) di Jean Dubuffet (Le Havre, 1901 – Parigi, 1985). Entrambi esplorano l’uso di materie povere, come i detriti o la terra, mescolati alla pittura a olio, nella completa assenza di figurazione che non lascia spazio ad altro che al potere suggestivo della materia grezza. Se Dubuffet pone l'accento sull'aspetto primordiale e istintivo dell’interazione con la materia, Tàpies realizza un’opera che appare come un vero e proprio “muro” di terra solcato da segni e incisioni, solida presenza che ci invita ad andare oltre la materia stessa.
La mostra prosegue, al di là di ogni distinzione cronologica, con un omaggio allo scultore italiano Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947). La scultura di piccolo formato in terra refrattaria Violoncellista (1931 ca.) si colloca nella fase più alta della sua creazione, che egli stesso ha definito il “periodo del canto”, quando riceve il primo premio per la scultura alla Prima Quadriennale di Roma (1931) ed è invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia (1932).
A parete e in dialogo con la scultura di Martini, l’opera in gesso dipinto Deux oiseaux (1926) di Max Ernst (Brühl, Germania, 1891 – Parigi, 1976), eseguita a due anni di distanza dalla fondazione del movimento surrealista a Parigi. Con singolare inventività tecnica, Ernst elabora una raffinata composizione dove si possono distinguere vaghe forme di uccello emergenti da tessiture materiche e cromatiche eterogenee. Pur realizzata a quasi un secolo di distanza, la scultura Belle du vent (2003) di Rebecca Horn (Michelstadt, 1944), costituita da una coppia di elementi in pietra vulcanica azionati da un motore, suggerisce un’atmosfera altrettanto onirica e surreale. Attraverso un linguaggio simbolico, l’artista tedesca combina dispositivi meccanici e materiali organici per indagare temi quali la natura nel suo andamento ciclico, lo scorrere del tempo, l’esistenza umana. Tra gli artisti della contemporaneità, inoltre, il tedesco Markus Lüpertz (Reichenberg, 1941) e il colombiano Gabriel Sierra (San Juan Nepomuceno, 1975) – presenti in mostra rispettivamente con il dipinto Ulysses II (2011) e l’opera a parete Untitled(2014) – rivelano due distinte modalità di relazionarsi con il concetto di materia: il primo evocandolo all’interno di una dimensione prettamente pittorica, mentre il secondo assemblando oggetti tridimensionali dalla forte connotazione architettonica che vanno a sovvertire le coordinate spazio-temporali contingenti.
Il percorso si chiude con un capitolo dedicato ai materiali “cosmici”, attraverso l’opera di Enrico Prampolini, Eliseo Mattiacci e Anselm Kiefer. Di Enrico Prampolini (Modena, 1894 – Roma, 1956), forse il più eclettico e originale esponente del futurismo italiano, vengono presentate quattro opere: i due celebri polimaterici Automatismo polimaterico C (1940) e Automatismo polimaterico F (1941) esprimono una visione lirica e spirituale della realtà, definita dall’artista stesso “idealismo cosmico”. Attraverso l’elaborazione polimaterica, Prampolini intende proiettarsi “oltre i confini della realtà terrestre”, sino ad indagare i misteri del cosmo. Se in queste opere vengono evocati i processi produttivi e i ritmi biologici della natura, nel decennio successivo prevale piuttosto la concezione della materia come inedita realtà extra-pittorica e anti-illusoria, come si può evincere dalle due opere polimateriche Apparizioni bioplastiche (1954) e Composizione S6: zolfo e cobalto (1955).
Il tema del rapporto dell’uomo col cosmo contraddistingue l’intera vicenda creativa dell’artista marchigiano Eliseo Mattiacci (Cagli, 1940 – Fossombrone, 2019). L’autore stesso riferisce come sue fonti d’ispirazione “il cielo, il Cosmo, l’immensità dell’infinito”. Entrambi i lavori qui esposti, Spazio meteoritico (1984) e Esplorare (2003), ben rappresentano l’enigmatico rigore con cui Mattiacci formula il suo universo visivo attraverso l’uso originale dei metalli, materiali “vivi” in grado di attivare scambi di energie e nuove relazioni spaziali.
Di ispirazione cosmico-astronomica, infine, la grande opera pittorica Eridanus (2004) di Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945): qui la sfera celeste solcata dalla geometria della costellazione dalla quale aggetta un sottomarino in piombo, mette in luce la riflessione dell’artista sul rapporto con la storia recente della nazione tedesca.
Questo nuovo allestimento propone una panoramica sull’arte tra ventesimo e ventunesimo secolo capace di evidenziare l’irrinunciabile esigenza dell’uomo di confrontarsi con la terra – nella sua accezione fisica e metafisica – luogo di origine, sviluppo e fine di ogni essere umano.
Il progetto espositivo prende le mosse da un significativo gruppo di cinque dipinti del pittore e artista grafico di origini slovene Zoran Mušič (Gorizia, 1909 – Venezia, 2005): Paesaggio senese(1953), Enclos primitif (E3) (1960), Motif végétal (1972), Terre d’istria (1957) e Terre dalmate(1959). Sono opere che testimoniano la stagione creativa che segue il trasferimento dell’artista a Parigi nel 1953, quando la sua produzione pittorica si avvicina al linguaggio dell’informale francese. Attraverso una pittura di motivi organici dalle tonalità aride che spesso sconfina oltre il figurativo, Mušič racconta un universo intimo e personale, in cui riaffiora il ricordo delle terre dell’infanzia e del vissuto dell’artista.
Nella stessa sala dialogano importanti opere di tre maestri del Novecento italiano, Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995), Leoncillo (Leoncillo Leonardi, Spoleto, 1915 – Roma, 1968) ed Emilio Vedova (Venezia, 1919 – 2006). Protagonisti della stagione informale, ci introducono ad una poetica fondata sul valore intrinseco della materia ridotta al suo stato primordiale. Interrogandosi sulla possibilità di rappresentare un mondo devastato a seguito della distruzione operata dai conflitti mondiali, questi autori danno vita a una ricerca che si libera dal controllo ideale e razionale dell’immagine in favore dell’espressività degli elementi (sacchi di juta, ferro, legno o plastica) e la terra nella sua sostanza friabile e grumosa. Di Burri abbiamo un Bianco Nero Cretto del 1972, la cui superficie frammentata che richiama le fessurazioni delle terre argillose restituisce la “sofferenza” della materia esposta al processo di essiccamento; una composizione che prefigura tutta la drammaticità del Grande Cretto(1984-89) realizzato dall’artista a Gibellina, sulle macerie della città rasa al suolo dal terremoto che, nel 1968, colpì la Valle del Belice, in Sicilia. La scultura Senza titolo (1960) rivela l’originale processo creativo con cui Leoncillo utilizza il gres (materiale ceramico a pasta dura), lasciando trasparire la profonda identificazione dell’autore con la materia stessa (“creta carne mia”, affermava l’artista), mentre nella scultura Per uno spazio - 29 (1987-88) di Emilio Vedova è la carica gestuale della pittura ad imporsi, andando ad inglobare a sé un altro materiale (il legno), fino a connotarlo di una qualità plastico-spaziale.
L’incontro con l’arte informale prosegue nella sezione successiva con le opere pittoriche di due dei suoi maggiori interpreti in ambito europeo: Marrò (1958) di Antoni Tàpies (Barcellona 1923 – 2012) e Masque de terre (1960) di Jean Dubuffet (Le Havre, 1901 – Parigi, 1985). Entrambi esplorano l’uso di materie povere, come i detriti o la terra, mescolati alla pittura a olio, nella completa assenza di figurazione che non lascia spazio ad altro che al potere suggestivo della materia grezza. Se Dubuffet pone l'accento sull'aspetto primordiale e istintivo dell’interazione con la materia, Tàpies realizza un’opera che appare come un vero e proprio “muro” di terra solcato da segni e incisioni, solida presenza che ci invita ad andare oltre la materia stessa.
La mostra prosegue, al di là di ogni distinzione cronologica, con un omaggio allo scultore italiano Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947). La scultura di piccolo formato in terra refrattaria Violoncellista (1931 ca.) si colloca nella fase più alta della sua creazione, che egli stesso ha definito il “periodo del canto”, quando riceve il primo premio per la scultura alla Prima Quadriennale di Roma (1931) ed è invitato con una sala personale alla Biennale di Venezia (1932).
A parete e in dialogo con la scultura di Martini, l’opera in gesso dipinto Deux oiseaux (1926) di Max Ernst (Brühl, Germania, 1891 – Parigi, 1976), eseguita a due anni di distanza dalla fondazione del movimento surrealista a Parigi. Con singolare inventività tecnica, Ernst elabora una raffinata composizione dove si possono distinguere vaghe forme di uccello emergenti da tessiture materiche e cromatiche eterogenee. Pur realizzata a quasi un secolo di distanza, la scultura Belle du vent (2003) di Rebecca Horn (Michelstadt, 1944), costituita da una coppia di elementi in pietra vulcanica azionati da un motore, suggerisce un’atmosfera altrettanto onirica e surreale. Attraverso un linguaggio simbolico, l’artista tedesca combina dispositivi meccanici e materiali organici per indagare temi quali la natura nel suo andamento ciclico, lo scorrere del tempo, l’esistenza umana. Tra gli artisti della contemporaneità, inoltre, il tedesco Markus Lüpertz (Reichenberg, 1941) e il colombiano Gabriel Sierra (San Juan Nepomuceno, 1975) – presenti in mostra rispettivamente con il dipinto Ulysses II (2011) e l’opera a parete Untitled(2014) – rivelano due distinte modalità di relazionarsi con il concetto di materia: il primo evocandolo all’interno di una dimensione prettamente pittorica, mentre il secondo assemblando oggetti tridimensionali dalla forte connotazione architettonica che vanno a sovvertire le coordinate spazio-temporali contingenti.
Il percorso si chiude con un capitolo dedicato ai materiali “cosmici”, attraverso l’opera di Enrico Prampolini, Eliseo Mattiacci e Anselm Kiefer. Di Enrico Prampolini (Modena, 1894 – Roma, 1956), forse il più eclettico e originale esponente del futurismo italiano, vengono presentate quattro opere: i due celebri polimaterici Automatismo polimaterico C (1940) e Automatismo polimaterico F (1941) esprimono una visione lirica e spirituale della realtà, definita dall’artista stesso “idealismo cosmico”. Attraverso l’elaborazione polimaterica, Prampolini intende proiettarsi “oltre i confini della realtà terrestre”, sino ad indagare i misteri del cosmo. Se in queste opere vengono evocati i processi produttivi e i ritmi biologici della natura, nel decennio successivo prevale piuttosto la concezione della materia come inedita realtà extra-pittorica e anti-illusoria, come si può evincere dalle due opere polimateriche Apparizioni bioplastiche (1954) e Composizione S6: zolfo e cobalto (1955).
Il tema del rapporto dell’uomo col cosmo contraddistingue l’intera vicenda creativa dell’artista marchigiano Eliseo Mattiacci (Cagli, 1940 – Fossombrone, 2019). L’autore stesso riferisce come sue fonti d’ispirazione “il cielo, il Cosmo, l’immensità dell’infinito”. Entrambi i lavori qui esposti, Spazio meteoritico (1984) e Esplorare (2003), ben rappresentano l’enigmatico rigore con cui Mattiacci formula il suo universo visivo attraverso l’uso originale dei metalli, materiali “vivi” in grado di attivare scambi di energie e nuove relazioni spaziali.
Di ispirazione cosmico-astronomica, infine, la grande opera pittorica Eridanus (2004) di Anselm Kiefer (Donaueschingen, 1945): qui la sfera celeste solcata dalla geometria della costellazione dalla quale aggetta un sottomarino in piombo, mette in luce la riflessione dell’artista sul rapporto con la storia recente della nazione tedesca.
Questo nuovo allestimento propone una panoramica sull’arte tra ventesimo e ventunesimo secolo capace di evidenziare l’irrinunciabile esigenza dell’uomo di confrontarsi con la terra – nella sua accezione fisica e metafisica – luogo di origine, sviluppo e fine di ogni essere umano.
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