Leonardo Meoni. Gli altri colori purtroppo, sono tutti caduti
Dal 17 Giugno 2024 al 10 Ottobre 2024
Milano
Luogo: Museo Stefano Bardini
Indirizzo: Via dei Renai 37
Orari: Lun - Ven - Sab - Dom | 14:00 - 20:00 Ultimo ingresso un'ora prima della chiusura
Curatori: Sergio Risaliti
Il Museo Stefano Bardini presenta la mostra di Leonardo Meoni (Firenze, 1994) Gli altri colori purtroppo, sono tutti caduti, la prima mostra museale in Italia dell’artista.
Il progetto, a cura di Sergio Risaliti e organizzato dal Museo Novecento in collaborazione con Amanita, ospita una selezione di opere ideate specificamente per le sale espositive del Museo Bardini in stretto dialogo con la collezione dell’antiquario e connoisseur fiorentino.
“Una nuova mostra si aggiunge alle molte organizzate dal Museo Novecentoin questi ultimi anni qui al Museo Bardini – ha detto Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento. – Dopo le personali di John Currin, Glenn Brown, Anj Smith, Rachel Feinstein, Emiliano Maggi, Luca Pignatelli e Nathaniel Mary Quinn è la volta di Leonardo Meoni chiamato a confrontarsi con le straordinarie collezioni di questo museo e la loro messa in scena così speciale e peculiare. L’attenzione che rivolgiamo alle nuove generazioni va di pari passo con l’interesse che abbiamo sempre coltivato a creare dialoghi e confronti tra l’arte del passato e quella di oggi. Sono due principi forti del Museo Novecento la cui azione si snoda in città da piazza Santa Maria Novella in senso reticolare e collaborativo, a coinvolgere altri luoghi e istituzioni, per una rigenerazione del patrimonio e la dislocazione dei flussi di interesse e di scoperta. Le opere di Meoni sono state tutte commissionate e realizzate per questi spazi e infatti si integrano perfettamente con quanto vi risplende e risuona all’interno. Per un artista italiano la pittura è un’operazione molto difficile, il carico sulle spalle è enorme. Può bloccare l’ispirazione e farla cadere nell’accidia oppure trascinarla nella nostalgia e nel citazionismo di maniera. Meoni invece con spregiudicata audacia e freschezza elabora il figurativo e le tecniche sperimentando nuove iconografie che nascono dal dettaglio dalle lacune, utilizzando una tecnica e un materiale che nessuno ha sperimentato a questo livello prima di lui. Le sue ‘tele’, si iscrivono in una storia dell’arte italiana che dal rinascimento arriva all’arte povera, dove l’operazione mentale, concettuale dell’ideazione figurativa si concretizza attraverso una speciale e peculiare esecuzione su una materia inedita: nel suo caso il velluto che con certosina perizia quasi da cesellatore trasforma in una sintesi di disegno e scultura, di pittura e bassorilievo.”
Il titolo della mostra Gli altri colori purtroppo, sono tutti caduti, trae ispirazione da un brano di Cesare Brandi che rievoca la tecnica pittorica dell’affresco, la cui cattiva conservazione provoca la caduta di porzioni di pittura e la comparsa dei disegni preparatori retrostanti. Le lacune e le sinopie rappresentano per Meoni la visione di uno spazio ulteriore, velato, che tuttavia illumina l’intera composizione. Da qui emerge una riflessione più ampia sul restauro, sulla luce e il buio, e sul concetto del tempo, che porta alla caduta da cui, dichiara l’artista, “esce la luce, ovvero la sinopia, qualcosa che c’era dentro, la verità”. La sua pratica si lega fortemente a un’indagine sulla percezione, che declina in un originale uso del velluto, un materiale che assorbe la luce e rende la lettura dell’opera ambigua e cangiante, mutando costantemente volto a seconda del punto di osservazione. Troppa luce e troppa evidenza riducono le capacità cognitive dello sguardo e di pari passo inaridiscono lo spettro delle emozioni, riducendo a una superficiale reazione di fronte alla piatta trasparenza del significante.
L’intrinseca ‘oscurità’ del velluto implica quindi un necessario sforzo di adattamento da parte di chi guarda, che viene così invitato a concentrarsi sugli elementi essenziali della composizione. La mancanza di luce assume pertanto una connotazione positiva, obbligando l’osservatore a dedicare del tempo alla contemplazione, al fine di cogliere l’opera nella sua complessa interezza. Meoni rifiuta una lettura e un’interpretazione immediata dell’immagine, preferendo ricercare gli elementi intimi e nascosti della raffigurazione.
La mostra al Museo Stefano Bardini si articola in diverse sezioni che sviluppano il dialogo tra luce e oscurità. Nella cosiddetta Sala dei soffitti veneziani sono esposte tre grandi opere che indagano i paesaggi pittorici quattrocenteschi. Riprendendo i dettagli paesaggistici degli affreschi di Piero della Francesca e Benozzo Gozzoli, Meoni seleziona gli elementi delle vedute toscane che restituiscono un paesaggio intimo ed essenziale. Il velluto come materiale si presta a questa riflessione per la sua natura cangiante. Le opere in mostra diventano quadri che svelano “macchie” diverse a seconda della direzione in cui sono guardati.
All’interno delle sale al primo piano del museo che si affacciano sull’antistante Piazza de’ Mozzi, l’artista realizza quattro grandi opere di velluto che mascherano ed oscurano le finestre dell’edificio. Privando le sale della luce naturale, lo sguardo viene indirizzato ai dettagli nascosti del museo, della collezione permanente e delle opere di Meoni, esposti nell’ultima sezione della mostra, nel Salone dei Dipinti.
Dall’idea di mascherare le finestre del museo si articolano le opere dell’artista quali “Spengo il sole se chiudo gli occhi”. Tappandosi gli occhi è possibile vedere all’interno di questi, dice Meoni “C’è una mascheratura che viene ripresa da scene contemporanee: un carnevale di Rio, un po’ kitsch, un po’ glam. Mascherare il corpo è comunque qualcosa che riguarda l’oscurità. Un’idea che c’è anche nel salone al primo piano del museo. Al centro del soffitto è possibile vedere la decorazione di un sole che dovrebbe illuminare e portare la luce, ma che diventa il ritratto di una mancanza di luce, di una sottrazione”.
Leonardo Meoni (Firenze, 1994) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze e l’Accademia di Belle Arti di Brera e ha partecipato a varie mostre collettive e progetti espositivi, in Italia e all’estero. Lavorando con un approccio fortemente materico, le opere di Leonardo Meoni sono radicate in una corporeità tridimensionale. In stretto contatto con i precetti dell’arte pittorica, del tempo, della rappresentazione e dei gesti, Meoni sfuma empaticamente i confini tra generi e pratiche artistiche esistenti in uno spazio intermedio tra pittura, scultura e disegno, enfatizzando nel suo lavoro la contaminazione di pratiche e concetti diversi verso l’ibridazione universale.
Le opere di Meoni sono il risultato di un gesto performativo. Il velluto viene infatti “pettinato” e fissato in una continua connessione tra il disegno e la scultura. In un gioco materico di spostamento più che di addizione e sottrazione, si aggiunge alla dimensione tridimensionale delle opere di Meoni una temporalità segnata dal movimento dell’artista. Il velluto, assorbendo la luce, restituisce un’immagine ambigua, come una fotografia primordiale in cui il controllo del riflesso è soggetto agli elementi circostanti e non alla precisione del mezzo, creando una figura che si oppone alla interpretazione immediata.
Il progetto, a cura di Sergio Risaliti e organizzato dal Museo Novecento in collaborazione con Amanita, ospita una selezione di opere ideate specificamente per le sale espositive del Museo Bardini in stretto dialogo con la collezione dell’antiquario e connoisseur fiorentino.
“Una nuova mostra si aggiunge alle molte organizzate dal Museo Novecentoin questi ultimi anni qui al Museo Bardini – ha detto Sergio Risaliti, direttore del Museo Novecento. – Dopo le personali di John Currin, Glenn Brown, Anj Smith, Rachel Feinstein, Emiliano Maggi, Luca Pignatelli e Nathaniel Mary Quinn è la volta di Leonardo Meoni chiamato a confrontarsi con le straordinarie collezioni di questo museo e la loro messa in scena così speciale e peculiare. L’attenzione che rivolgiamo alle nuove generazioni va di pari passo con l’interesse che abbiamo sempre coltivato a creare dialoghi e confronti tra l’arte del passato e quella di oggi. Sono due principi forti del Museo Novecento la cui azione si snoda in città da piazza Santa Maria Novella in senso reticolare e collaborativo, a coinvolgere altri luoghi e istituzioni, per una rigenerazione del patrimonio e la dislocazione dei flussi di interesse e di scoperta. Le opere di Meoni sono state tutte commissionate e realizzate per questi spazi e infatti si integrano perfettamente con quanto vi risplende e risuona all’interno. Per un artista italiano la pittura è un’operazione molto difficile, il carico sulle spalle è enorme. Può bloccare l’ispirazione e farla cadere nell’accidia oppure trascinarla nella nostalgia e nel citazionismo di maniera. Meoni invece con spregiudicata audacia e freschezza elabora il figurativo e le tecniche sperimentando nuove iconografie che nascono dal dettaglio dalle lacune, utilizzando una tecnica e un materiale che nessuno ha sperimentato a questo livello prima di lui. Le sue ‘tele’, si iscrivono in una storia dell’arte italiana che dal rinascimento arriva all’arte povera, dove l’operazione mentale, concettuale dell’ideazione figurativa si concretizza attraverso una speciale e peculiare esecuzione su una materia inedita: nel suo caso il velluto che con certosina perizia quasi da cesellatore trasforma in una sintesi di disegno e scultura, di pittura e bassorilievo.”
Il titolo della mostra Gli altri colori purtroppo, sono tutti caduti, trae ispirazione da un brano di Cesare Brandi che rievoca la tecnica pittorica dell’affresco, la cui cattiva conservazione provoca la caduta di porzioni di pittura e la comparsa dei disegni preparatori retrostanti. Le lacune e le sinopie rappresentano per Meoni la visione di uno spazio ulteriore, velato, che tuttavia illumina l’intera composizione. Da qui emerge una riflessione più ampia sul restauro, sulla luce e il buio, e sul concetto del tempo, che porta alla caduta da cui, dichiara l’artista, “esce la luce, ovvero la sinopia, qualcosa che c’era dentro, la verità”. La sua pratica si lega fortemente a un’indagine sulla percezione, che declina in un originale uso del velluto, un materiale che assorbe la luce e rende la lettura dell’opera ambigua e cangiante, mutando costantemente volto a seconda del punto di osservazione. Troppa luce e troppa evidenza riducono le capacità cognitive dello sguardo e di pari passo inaridiscono lo spettro delle emozioni, riducendo a una superficiale reazione di fronte alla piatta trasparenza del significante.
L’intrinseca ‘oscurità’ del velluto implica quindi un necessario sforzo di adattamento da parte di chi guarda, che viene così invitato a concentrarsi sugli elementi essenziali della composizione. La mancanza di luce assume pertanto una connotazione positiva, obbligando l’osservatore a dedicare del tempo alla contemplazione, al fine di cogliere l’opera nella sua complessa interezza. Meoni rifiuta una lettura e un’interpretazione immediata dell’immagine, preferendo ricercare gli elementi intimi e nascosti della raffigurazione.
La mostra al Museo Stefano Bardini si articola in diverse sezioni che sviluppano il dialogo tra luce e oscurità. Nella cosiddetta Sala dei soffitti veneziani sono esposte tre grandi opere che indagano i paesaggi pittorici quattrocenteschi. Riprendendo i dettagli paesaggistici degli affreschi di Piero della Francesca e Benozzo Gozzoli, Meoni seleziona gli elementi delle vedute toscane che restituiscono un paesaggio intimo ed essenziale. Il velluto come materiale si presta a questa riflessione per la sua natura cangiante. Le opere in mostra diventano quadri che svelano “macchie” diverse a seconda della direzione in cui sono guardati.
All’interno delle sale al primo piano del museo che si affacciano sull’antistante Piazza de’ Mozzi, l’artista realizza quattro grandi opere di velluto che mascherano ed oscurano le finestre dell’edificio. Privando le sale della luce naturale, lo sguardo viene indirizzato ai dettagli nascosti del museo, della collezione permanente e delle opere di Meoni, esposti nell’ultima sezione della mostra, nel Salone dei Dipinti.
Dall’idea di mascherare le finestre del museo si articolano le opere dell’artista quali “Spengo il sole se chiudo gli occhi”. Tappandosi gli occhi è possibile vedere all’interno di questi, dice Meoni “C’è una mascheratura che viene ripresa da scene contemporanee: un carnevale di Rio, un po’ kitsch, un po’ glam. Mascherare il corpo è comunque qualcosa che riguarda l’oscurità. Un’idea che c’è anche nel salone al primo piano del museo. Al centro del soffitto è possibile vedere la decorazione di un sole che dovrebbe illuminare e portare la luce, ma che diventa il ritratto di una mancanza di luce, di una sottrazione”.
Leonardo Meoni (Firenze, 1994) ha studiato presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze e l’Accademia di Belle Arti di Brera e ha partecipato a varie mostre collettive e progetti espositivi, in Italia e all’estero. Lavorando con un approccio fortemente materico, le opere di Leonardo Meoni sono radicate in una corporeità tridimensionale. In stretto contatto con i precetti dell’arte pittorica, del tempo, della rappresentazione e dei gesti, Meoni sfuma empaticamente i confini tra generi e pratiche artistiche esistenti in uno spazio intermedio tra pittura, scultura e disegno, enfatizzando nel suo lavoro la contaminazione di pratiche e concetti diversi verso l’ibridazione universale.
Le opere di Meoni sono il risultato di un gesto performativo. Il velluto viene infatti “pettinato” e fissato in una continua connessione tra il disegno e la scultura. In un gioco materico di spostamento più che di addizione e sottrazione, si aggiunge alla dimensione tridimensionale delle opere di Meoni una temporalità segnata dal movimento dell’artista. Il velluto, assorbendo la luce, restituisce un’immagine ambigua, come una fotografia primordiale in cui il controllo del riflesso è soggetto agli elementi circostanti e non alla precisione del mezzo, creando una figura che si oppone alla interpretazione immediata.
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