Oltre il Novecento. Ubaldo Oppi – Arturo Martini, due artisti a confronto
Dal 11 Novembre 2021 al 02 Dicembre 2021
Milano
Luogo: Galleria Carlo Orsi
Indirizzo: Via Bagutta 14
Orari: Lunedi – Venerdi 11-18. Sabato la galleria riceve solo su appuntamento
Enti promotori:
- Amedeo Porro Fine Arts e Galleria Carlo Orsi
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Amedeo Porro organizza negli spazi espositivi milanesi della Galleria Carlo Orsi la mostra “Oltre il Novecento. Ubaldo Oppi – Arturo Martini, due artisti a confronto”che riprende un vecchio tema di affiancamentoespositivo di due artisti rappresentanti della più alta cultura artistica del primo Novecento italiano.
Oppi e Martini nascono nello stesso anno – 1889- a pochi mesi di distanza; Ubaldo Oppi, a Bologna (da cui la famiglia mosse nel 1893 ancor lui giovanetto nella città di Vicenza dove poi visse tutta la sua vita) Arturo Martini a Treviso. Due formazioni e caratteri molto simili. Peraltro come se il destino li avesse in qualche modo legati, moriranno tutti e due giovani e in anni vicini, nel 1942 Oppi a 53 anni e nel 1947 Martini a 58.
Il confronto tra questi due artisti nasce dall’accostamento di due opere che hanno un ruolo cardine nel loro percorso – La Povertà Serena di Ubaldo Oppi e La Nena di Arturo Martini. Questi due lavori si inseriscono in una delle tematiche più interessanti del primo Novecento, il dibattito tra le cosiddette arti tradizionali – pittura e scultura - e il nuovo medium di rappresentazione, la fotografia.
La fotografia, che sin dai suoi albori si interroga sulla possibilità di rappresentare oggettivamente la realtà, è la grande novità con cui artisti e studiosi dell’epoca si confrontano e Martini ed Oppi non fanno eccezione, focalizzandosi particolarmente sul tema della ritrattistica. Nel caso di La Povertà Serena e La Nena gli artisti dialogano con questo tema dedicandosi a ritratti di familiari, ma il risultato non potrebbe essere più distante e le opere diventano emblematiche dei due poli attorno a cui verteva l’acceso dibattito: l’individualizzazione di Arturo Martini– tesa verso la caratterizzazione del soggetto e della sua interiorità – e la tipizzazione di Ubaldo Oppi – alla ricerca di una sintesi formale che si potrebbe definire archetipica.
Oppi peraltro aveva sperimentato sulla propria pelle cosa volesse dire “ispirarsi” alla fotografia. Nel 1925 infatti viene denunciato dalla Famiglia Artistica Milanese di aver copiato da una fotografia l’opera che aveva esposto alla Galleria Pesaro e contemporaneamente venduto alle Civiche Raccolte della città di Milano “Sera romagnola”.
Era questo un nudo di donna in piedi, con le mani dietro alla nuca, un dipinto estremamente sensuale con sullo sfondo un paesaggio al tramonto.
A queste accuse Oppi rispose con queste parole: “Chi ha detto che il mezzo meccanico, quando sia inteso come mezzo, come sussidio, non possa essere adoperato anche da noi? ....chi, superando la prima impressione, cercasse i rapporti tra le masse plastiche del quadro e della fotografia, vedrebbe che parlare di plagio diventa semplicemente ridicolo”.
Siamo nel 1925, l’anticipazione di una certa arte contemporanea.
Il diverso approccio al tema del ritratto caratterizza quindi anche il resto della loro produzione artistica e consente una lettura ‘per differenze’ di uno dei momenti storico-artistici più ricchi di tutto il Novecento. Entrambi attratti dai movimenti d’avanguardia formulati nell’ambiente parigino, Oppi e Martini elaborano risposte divergenti, esplorabili tramite le opere presenti in mostra con una tecnica pittorico/scultorea molto personale e lontana dagli stilemi del momento.
La visita inizia con due opere di Ubaldo Oppi del 1914: Consolare la madre e Paese col porto. Due quadri dipinti durante il periodo della Prima Guerra Mondiale e simboleggiano un’atmosfera tra la rassegnazione e la speranza. Il primo raffigura tre donne, due sorelle nell’atto di consolare lamadre assorta in un religioso raccoglimento per la probabile partenza del figlio verso il fronte.
Il secondo presenta la panoramica di un paese affacciato sul mare. Il dipinto trasmette la sensazione della solitudine e del silenzio, tipici di quei giorni di guerra dove la popolazione maschile era per la maggior parte riversata sul fronte di guerra.
Del 1919 è il capolavoro dal titolo La Povertà serena, un olio su cartone di cm. 100x70.
E’ questa un’opera dipinta dall’Oppi a guerra finita, rientrato dal campo di concentramento di Mauthausen dove era stato recluso per alcuni mesi.
A suo dire quel periodo fu determinante per la sua crescita morale e infatti egli rientra dalla prigionia con una gioia per la libertà riconquistata che trasmette subito nei suoi quadri i quali perdono quel fondo di angoscia che caratterizzavano le opere ante 1919.
Non si avverte più quella sensazione di abbandono e di rassegnazione riscontrata in Consolare la madre.
In questo quadro Oppi ritrae la fidanzata Adele, vezzosamente chiamata Dheli assieme alla madre.
Le due figure nella loro austerità danno la sensazione di una visione della vita positiva, serena e piena di speranze. Si tratta di due figure riprese frontalmente con lo sguardo della giovane rivolto verso l’osservatore con un sorriso quasi abbozzato. La madre volge invece lo sguardo in un punto
vuoto quasi a guardare ad un passato triste che non deve tornare. Le mani che si incrociano che nell’iconografia antica hanno un significato molto preciso: “ho fiducia in te”.
Il vaso di coccio vuoto rappresenta tutto ciò che deve essere completato; esso verrà riempito
di terra e darà nuova vita a piante fiorite.
Scrive Elena Pontiggia nel testo in catalogo: La povertà serena è un ritratto di madre e figlia nell’intimità della casa. E’ questa un’immagine che suggerisce laicamente una sorta di beatitudine evangelica: “beati i poveri” che sono sostenuti e confortati dal calore degli affetti, dalla tenerezza dei rapporti, dalla comprensione reciproca nata dall’affinità dei caratteri. La felicità non deriva dalla ricchezza dei beni ma dalla ricchezza di bene, cioè dalla profondità e dall’autenticità dei sentimenti. Molte sono le fonti per questo capolavoro, Derain, il Doganiere Russeau per i volti, i Primitivi del Quattrocento per la meravigliosa architettura dello sfondo.
Preludio al momento “magico” di Oppi, quello degli anni ’22-’25 che verrà chiamato “Realismo
Magico”.
Vino Insegna di Osteria dipinto anch’esso nel 1919 è un’opera che Pontiggia definisce ancor più
primitivista di La povertà serena.
Tutto è irreale in quest’opera, un’Osteria che non esiste, l’insegna che pare scritta in francese in con una O sospesa nel vuoto. L’ambiente appare un’architettura trasposta da una quinta del Teatro Olimpico di Vicenza. E ancora: il personaggio vestito in calzamaglia blu in stile Pontormo che indica le rose e il probabile vino contenuto nell’anfora in primo piano. Opera stilisticamente molto vicina a La povertà serena, anche qui, come osserva Gustave Kahn “Oppi è attento ai primitivi italiani e a El Greco….”
Cronologicamente ultima ecco l’opera Rose al mattino datata 1930. E’ un momento di forte trasformazione e viene dipinta alla fine del periodo più felice della carriera dell’artista. Opera ricca di simboli e di profezie prelude a un passato felice, simboleggiato dalle rose raccolte in un prezioso vaso cinese che danno la percezione della realtà effimera, della esistenza che dura “lo spazio di un mattino”. Con quest’opera si chiude la stagione più intensa della pittura di Ubaldo Oppi e da questo momento caduto in una sorta di crisi mistica, si dedicherà prevalentemente alla pittura religiosa decorando la Basilica del Santo a Padova con le scene di vita di San Francesco (1930-1931) e più tardi nel 1935 la chiesa di Bolzano Vicentino.
Di Arturo Martini verranno esposte una ceramica, un bronzo e sei terrecotte.
Donna sdraiata del 1929/1930 esemplare unico, sinora inedita e quindi qui esposta al pubblico per la prima volta. Eseguita nei laboratori di Mario Labò assieme ad un gruppo
di altre 30 bellissime ceramiche per la maggior parte di tema animalistico, venne subito acquistata alla Esposizione Triennale di Monza del 1930 assieme ad altre 19 dai coniugi collezionisti Herta e Arturo Wedekind per la loro villa-museo ad Acqui Terme.
Del 1930 il capolavoro ritrattistico de La Nena, il volto romantico della figlia Maria all’età di nove
anni. Opera eseguita “da stampo” e considerata da Vianello la seconda plasmata da Martini in piccola serie, è considerato il più intenso tra i ritratti martiniani dove la fanciulla è ripresa nel momento della partenza per il collegio a bordo di un treno affacciata al finestrino.
Camillo Sbarbaro ricorda così Martini: Lo trovai in uno stambugio, ad Albissola, che stava per così dire dando alla luce una sua terracotta: il volto di una fanciulla con le trecce accercinate, il berrettuccio e una trasognata timidezza nel viso già “serio”. L’immagine era ancora cieca (le mancavano gliocchi, n.d.a.). “Ora la sveglio” ci disse Martini.
La terracotta degli Amanti a cavallo eseguita nel 1932 è un altro dei temi “romantici” martiniani.
Un uomo e una donna si incontrano e nella foga della passione si abbracciano teneramente ancora
in sella. Un tema ricorrente questo che esegue in altri lavori in quegli anni.
Perentoria e fiera la Vittoria in cammino o Vittoria alata, una ceramica di grandi dimensioni del 1936 ideata per il concorso indetto dalla Biennale di Venezia per il primo decennale della Marcia su Roma. Eseguita inizialmente in terracotta e poi tradotta in gres nei laboratori Mathon di Corsico (Mi). L’opera ebbe un notevole successo di pubblico e di critica tanto che molti furono gli esemplari eseguiti in bronzo tramite la Galleria Milano che all’epoca ne acquisto il diritto di riproduzione.
Bellissima la formella a muro della Deposizione del 1933 chiamata Deposizione Pepori in memoria
del nome dell’acquirente dell’epoca. Un’opera intensa, ricca di pathos religioso racchiusa in una cornice ben definita dove la tragedia della Deposizione di Cristo è vissuto dalla Maria Maddalena inginocchiata di fronte al corpo di Cristo. Opera che mette in evidenza la maestria di Martini nel modellare la terracotta. Con pochi gesti plasmando con pollice e indice la materia ancora morbida è riuscito a creare un’atmosfera intensa e silenziosa.
Centauro e bagnanti in terracotta è stata eseguita nel 1935. Esemplare unico, rinvenuto da Claudia Gian Ferrari negli anni Novanta in una collezione sul lago di Como. Sono questi gli anni felici di Martini quando esegue il ciclo di Blevio con capolavori come il Centometrista, l’Ulisse, la Casta Susanna per citarne alcuni. Ma è anche il momento della esecuzione de Il Sonno, dei Leoni di Monterosso e del bellissimo Tobiolo. Modellata di getto come farebbe un bambino con del pongo, Martini in quest’opera ricorda la plasticità e rapidità di esecuzione dell’opera precedente, la
Deposizione.
La famiglia del 1937 è un bronzo che i milanesi dovrebbero guardare con occhio attento. E’ infatti uno dei due bronzi tratti dal ciclo del 1937 che ruota attorno alla Giustizia nel grande marmo che Martini eseguì per il palazzo di Giustizia di Milano: la Giustizia Corporativa. L’opera è stata estrapolata dal gruppo della Famiglia da Martini con alcune varianti. Un raro documento in dimensioni ridotte del grande capolavoro martiniano.
Il Nudino o Casta Susanna è un altro dei piccoli capolavori eseguiti in terracotta da Martini nel 1935. Soggetto scelto per la Biennale di Venezia del 1936 e sempre riproposto in ogni importante manifestazione espositiva dell’artista. Opera molto rara, di questo soggetto esistono solo due terrecotte, un gesso e alcuni bronzi.
Oppi e Martini nascono nello stesso anno – 1889- a pochi mesi di distanza; Ubaldo Oppi, a Bologna (da cui la famiglia mosse nel 1893 ancor lui giovanetto nella città di Vicenza dove poi visse tutta la sua vita) Arturo Martini a Treviso. Due formazioni e caratteri molto simili. Peraltro come se il destino li avesse in qualche modo legati, moriranno tutti e due giovani e in anni vicini, nel 1942 Oppi a 53 anni e nel 1947 Martini a 58.
Il confronto tra questi due artisti nasce dall’accostamento di due opere che hanno un ruolo cardine nel loro percorso – La Povertà Serena di Ubaldo Oppi e La Nena di Arturo Martini. Questi due lavori si inseriscono in una delle tematiche più interessanti del primo Novecento, il dibattito tra le cosiddette arti tradizionali – pittura e scultura - e il nuovo medium di rappresentazione, la fotografia.
La fotografia, che sin dai suoi albori si interroga sulla possibilità di rappresentare oggettivamente la realtà, è la grande novità con cui artisti e studiosi dell’epoca si confrontano e Martini ed Oppi non fanno eccezione, focalizzandosi particolarmente sul tema della ritrattistica. Nel caso di La Povertà Serena e La Nena gli artisti dialogano con questo tema dedicandosi a ritratti di familiari, ma il risultato non potrebbe essere più distante e le opere diventano emblematiche dei due poli attorno a cui verteva l’acceso dibattito: l’individualizzazione di Arturo Martini– tesa verso la caratterizzazione del soggetto e della sua interiorità – e la tipizzazione di Ubaldo Oppi – alla ricerca di una sintesi formale che si potrebbe definire archetipica.
Oppi peraltro aveva sperimentato sulla propria pelle cosa volesse dire “ispirarsi” alla fotografia. Nel 1925 infatti viene denunciato dalla Famiglia Artistica Milanese di aver copiato da una fotografia l’opera che aveva esposto alla Galleria Pesaro e contemporaneamente venduto alle Civiche Raccolte della città di Milano “Sera romagnola”.
Era questo un nudo di donna in piedi, con le mani dietro alla nuca, un dipinto estremamente sensuale con sullo sfondo un paesaggio al tramonto.
A queste accuse Oppi rispose con queste parole: “Chi ha detto che il mezzo meccanico, quando sia inteso come mezzo, come sussidio, non possa essere adoperato anche da noi? ....chi, superando la prima impressione, cercasse i rapporti tra le masse plastiche del quadro e della fotografia, vedrebbe che parlare di plagio diventa semplicemente ridicolo”.
Siamo nel 1925, l’anticipazione di una certa arte contemporanea.
Il diverso approccio al tema del ritratto caratterizza quindi anche il resto della loro produzione artistica e consente una lettura ‘per differenze’ di uno dei momenti storico-artistici più ricchi di tutto il Novecento. Entrambi attratti dai movimenti d’avanguardia formulati nell’ambiente parigino, Oppi e Martini elaborano risposte divergenti, esplorabili tramite le opere presenti in mostra con una tecnica pittorico/scultorea molto personale e lontana dagli stilemi del momento.
La visita inizia con due opere di Ubaldo Oppi del 1914: Consolare la madre e Paese col porto. Due quadri dipinti durante il periodo della Prima Guerra Mondiale e simboleggiano un’atmosfera tra la rassegnazione e la speranza. Il primo raffigura tre donne, due sorelle nell’atto di consolare lamadre assorta in un religioso raccoglimento per la probabile partenza del figlio verso il fronte.
Il secondo presenta la panoramica di un paese affacciato sul mare. Il dipinto trasmette la sensazione della solitudine e del silenzio, tipici di quei giorni di guerra dove la popolazione maschile era per la maggior parte riversata sul fronte di guerra.
Del 1919 è il capolavoro dal titolo La Povertà serena, un olio su cartone di cm. 100x70.
E’ questa un’opera dipinta dall’Oppi a guerra finita, rientrato dal campo di concentramento di Mauthausen dove era stato recluso per alcuni mesi.
A suo dire quel periodo fu determinante per la sua crescita morale e infatti egli rientra dalla prigionia con una gioia per la libertà riconquistata che trasmette subito nei suoi quadri i quali perdono quel fondo di angoscia che caratterizzavano le opere ante 1919.
Non si avverte più quella sensazione di abbandono e di rassegnazione riscontrata in Consolare la madre.
In questo quadro Oppi ritrae la fidanzata Adele, vezzosamente chiamata Dheli assieme alla madre.
Le due figure nella loro austerità danno la sensazione di una visione della vita positiva, serena e piena di speranze. Si tratta di due figure riprese frontalmente con lo sguardo della giovane rivolto verso l’osservatore con un sorriso quasi abbozzato. La madre volge invece lo sguardo in un punto
vuoto quasi a guardare ad un passato triste che non deve tornare. Le mani che si incrociano che nell’iconografia antica hanno un significato molto preciso: “ho fiducia in te”.
Il vaso di coccio vuoto rappresenta tutto ciò che deve essere completato; esso verrà riempito
di terra e darà nuova vita a piante fiorite.
Scrive Elena Pontiggia nel testo in catalogo: La povertà serena è un ritratto di madre e figlia nell’intimità della casa. E’ questa un’immagine che suggerisce laicamente una sorta di beatitudine evangelica: “beati i poveri” che sono sostenuti e confortati dal calore degli affetti, dalla tenerezza dei rapporti, dalla comprensione reciproca nata dall’affinità dei caratteri. La felicità non deriva dalla ricchezza dei beni ma dalla ricchezza di bene, cioè dalla profondità e dall’autenticità dei sentimenti. Molte sono le fonti per questo capolavoro, Derain, il Doganiere Russeau per i volti, i Primitivi del Quattrocento per la meravigliosa architettura dello sfondo.
Preludio al momento “magico” di Oppi, quello degli anni ’22-’25 che verrà chiamato “Realismo
Magico”.
Vino Insegna di Osteria dipinto anch’esso nel 1919 è un’opera che Pontiggia definisce ancor più
primitivista di La povertà serena.
Tutto è irreale in quest’opera, un’Osteria che non esiste, l’insegna che pare scritta in francese in con una O sospesa nel vuoto. L’ambiente appare un’architettura trasposta da una quinta del Teatro Olimpico di Vicenza. E ancora: il personaggio vestito in calzamaglia blu in stile Pontormo che indica le rose e il probabile vino contenuto nell’anfora in primo piano. Opera stilisticamente molto vicina a La povertà serena, anche qui, come osserva Gustave Kahn “Oppi è attento ai primitivi italiani e a El Greco….”
Cronologicamente ultima ecco l’opera Rose al mattino datata 1930. E’ un momento di forte trasformazione e viene dipinta alla fine del periodo più felice della carriera dell’artista. Opera ricca di simboli e di profezie prelude a un passato felice, simboleggiato dalle rose raccolte in un prezioso vaso cinese che danno la percezione della realtà effimera, della esistenza che dura “lo spazio di un mattino”. Con quest’opera si chiude la stagione più intensa della pittura di Ubaldo Oppi e da questo momento caduto in una sorta di crisi mistica, si dedicherà prevalentemente alla pittura religiosa decorando la Basilica del Santo a Padova con le scene di vita di San Francesco (1930-1931) e più tardi nel 1935 la chiesa di Bolzano Vicentino.
Di Arturo Martini verranno esposte una ceramica, un bronzo e sei terrecotte.
Donna sdraiata del 1929/1930 esemplare unico, sinora inedita e quindi qui esposta al pubblico per la prima volta. Eseguita nei laboratori di Mario Labò assieme ad un gruppo
di altre 30 bellissime ceramiche per la maggior parte di tema animalistico, venne subito acquistata alla Esposizione Triennale di Monza del 1930 assieme ad altre 19 dai coniugi collezionisti Herta e Arturo Wedekind per la loro villa-museo ad Acqui Terme.
Del 1930 il capolavoro ritrattistico de La Nena, il volto romantico della figlia Maria all’età di nove
anni. Opera eseguita “da stampo” e considerata da Vianello la seconda plasmata da Martini in piccola serie, è considerato il più intenso tra i ritratti martiniani dove la fanciulla è ripresa nel momento della partenza per il collegio a bordo di un treno affacciata al finestrino.
Camillo Sbarbaro ricorda così Martini: Lo trovai in uno stambugio, ad Albissola, che stava per così dire dando alla luce una sua terracotta: il volto di una fanciulla con le trecce accercinate, il berrettuccio e una trasognata timidezza nel viso già “serio”. L’immagine era ancora cieca (le mancavano gliocchi, n.d.a.). “Ora la sveglio” ci disse Martini.
La terracotta degli Amanti a cavallo eseguita nel 1932 è un altro dei temi “romantici” martiniani.
Un uomo e una donna si incontrano e nella foga della passione si abbracciano teneramente ancora
in sella. Un tema ricorrente questo che esegue in altri lavori in quegli anni.
Perentoria e fiera la Vittoria in cammino o Vittoria alata, una ceramica di grandi dimensioni del 1936 ideata per il concorso indetto dalla Biennale di Venezia per il primo decennale della Marcia su Roma. Eseguita inizialmente in terracotta e poi tradotta in gres nei laboratori Mathon di Corsico (Mi). L’opera ebbe un notevole successo di pubblico e di critica tanto che molti furono gli esemplari eseguiti in bronzo tramite la Galleria Milano che all’epoca ne acquisto il diritto di riproduzione.
Bellissima la formella a muro della Deposizione del 1933 chiamata Deposizione Pepori in memoria
del nome dell’acquirente dell’epoca. Un’opera intensa, ricca di pathos religioso racchiusa in una cornice ben definita dove la tragedia della Deposizione di Cristo è vissuto dalla Maria Maddalena inginocchiata di fronte al corpo di Cristo. Opera che mette in evidenza la maestria di Martini nel modellare la terracotta. Con pochi gesti plasmando con pollice e indice la materia ancora morbida è riuscito a creare un’atmosfera intensa e silenziosa.
Centauro e bagnanti in terracotta è stata eseguita nel 1935. Esemplare unico, rinvenuto da Claudia Gian Ferrari negli anni Novanta in una collezione sul lago di Como. Sono questi gli anni felici di Martini quando esegue il ciclo di Blevio con capolavori come il Centometrista, l’Ulisse, la Casta Susanna per citarne alcuni. Ma è anche il momento della esecuzione de Il Sonno, dei Leoni di Monterosso e del bellissimo Tobiolo. Modellata di getto come farebbe un bambino con del pongo, Martini in quest’opera ricorda la plasticità e rapidità di esecuzione dell’opera precedente, la
Deposizione.
La famiglia del 1937 è un bronzo che i milanesi dovrebbero guardare con occhio attento. E’ infatti uno dei due bronzi tratti dal ciclo del 1937 che ruota attorno alla Giustizia nel grande marmo che Martini eseguì per il palazzo di Giustizia di Milano: la Giustizia Corporativa. L’opera è stata estrapolata dal gruppo della Famiglia da Martini con alcune varianti. Un raro documento in dimensioni ridotte del grande capolavoro martiniano.
Il Nudino o Casta Susanna è un altro dei piccoli capolavori eseguiti in terracotta da Martini nel 1935. Soggetto scelto per la Biennale di Venezia del 1936 e sempre riproposto in ogni importante manifestazione espositiva dell’artista. Opera molto rara, di questo soggetto esistono solo due terrecotte, un gesso e alcuni bronzi.
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