Tokyo 1954. Le carte giapponesi di Tomaso Buzzi
Dal 27 Marzo 2015 al 19 Aprile 2015
Pavia
Luogo: Spazio per le arti contemporanee del Broletto
Indirizzo: piazza della Vittoria
Orari: da giovedì a domenica 16-19. Chiuso domenica 5 aprile, aperto lunedì 6 aprile
Enti promotori:
- Comune di Pavia - Settore Cultura
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 0382.399424
E-Mail info: chiara.argenteri@comune.pv.it
In contemporanea con Japan now!, l'importante mostra di arte giapponese allestita nella Sala mostre del Castello Visconteo di Pavia, nello Spazio per le arti contemporanee del Broletto sarà protagonista da venerdì 27 marzo 2015 – inaugurazione ore 18 – il Giappone di Tomaso Buzzi: lottatori di sumo e maschere kabuki porteranno lo spettatore a contatto con la parte più tradizionale del Paese del Sol Levante.
Organizzata da Giorgio Forni, Direttore della Fondazione Sartirana Arte, in collaborazione con il Settore Cultura del Comune di Pavia, Tokyo 1954 – Le carte giapponesi di Tomaso Buzzi presenta fino al 19 aprile 2015 un’accurata selezione di chine e carboncini di Tomaso Buzzi (Sondrio 1900 – Rapallo 1981), artista riservato e geniale, carismatico ed eclettico, tra i più grandi architetti italiani del ventesimo secolo, realizzati durante la sua permanenza in Giappone negli anni cinquanta del Novecento.
Accanto alla carriera, ben più nota, di architetto, Buzzi possedeva anche una particolare predisposizione al disegno: schizzi, matite, acquerelli, chine, carboncini. Fissava di tutto sulla carta, le città più care e le architetture, i cieli, le nature morte, ma anche nudi femminili, ritratti, e poi angeli, strumenti musicali, spaventapasseri, maschere giapponesi, lottatori di sumo e cuochi. Nei disegni ci sono le sue passioni, gli interessi, le manie, le idee, quanto gli rimane impresso negli occhi. Buzzi usava la matita per preservare i ricordi dall’inceneritore istantaneo della memoria, e dipingeva a due mani (sinistra e destra in contemporanea) su qualsiasi superficie: carta da pacco, fogli lucidi e da disegno, papiri... Cancellava e ridisegnava, utilizzava entrambi i lati e spesso corredava gli schizzi con appunti, scritti, pensieri, lampi di genio per futuri sviluppi.
Chiamato a Tokyo nel 1954 per ristrutturare l’edificio dell’ambasciata italiana, Buzzi durante il suo soggiorno traccia su carta immagini ed esperienze del Paese del Sol Levante: decine di fotogrammi, ciascuno a significare un pezzo del percorso, un’idea, un pensiero, una visione fissata nella mente. Sovente ripete un medesimo soggetto, ma con un linguaggio sempre nuovo che risponde alla sua sensibilità incandescente ed aperta. Immortala, col segno vibrante, nervoso, inquieto che lo caratterizza, i lottatori di sumo, lo sport nazionale giapponese, le cui origini risalgono agli inizi del VI secolo. Colti nelle diverse pose plastiche, che li rendono leggeri nonostante il peso specifico dei loro corpi, i lottatori di Buzzi indossano tutti il mawashi e i loro capelli sono acconciati con la particolare crocchia detta oi-cho mage. Nel percorso espositivo, i lottatori stanno al fianco di un’altra immagine simbolica del Giappone, quella delle maschere teatrali. Buzzi ci consegna una carrellata, intensa e pregnante, delle maschere kabuki della tradizione oriundo-nipponica. E ne sottolinea, con grande efficacia di tratto, il loro aspetto popolare. Il Teatro Kabuki infatti è una forma di drammaturgia giapponese dell’inizio del ‘600 – formata da tre ideogrammi: “ka” (canto), “bu” (paura), e “ki” (identità) – che rappresenta per molti la volgarizzazione del ben più nobile Teatro Nō – dall’ideogramma “nō” (abilità) –, nato nel ‘300 e che presuppone una cultura elevata per essere compreso.
Tomaso Buzzi (Sondrio 1900 – Rapallo 1981), artista riservato e geniale, carismatico ed eclettico, è tra i più grandi architetti italiani del ventesimo secolo. Protagonista della scena meneghina degli anni Venti e Trenta del Novecento, Buzzi comincia accanto a Giò Ponti. Insieme fondano la storica rivista Domus, e insieme firmano alcuni dei progetti più noti. Arrivano persino a creare (con Paolo Venini, della storica Venini di Murano, di cui Buzzi era direttore artistico) una società per commercializzare le loro opere di design. A quel tempo, il giovane Buzzi, famosissimo e riverito ovunque, università inclusa, è ordinario di Disegno dal Vero al Politecnico di Milano. La sua fama non si oscura con la guerra, anzi. Nel dopoguerra è Ponti a elemosinare le attenzioni di Buzzi, che invece lo allontana rimproverandogli un eccesso di compromessi col regime fascista. Nel frattempo Buzzi, ormai ritenuto l’architetto che nessun potente italiano può farsi mancare, è chiamato per i suoi lavori da tutta la nobiltà romana, da intellettuali, ecclesiastici e politici. Progetta Palazzo Marcoli a Roma e, sempre nella capitale, il Teatro della Cometa. Realizza molte ville (tra cui Pacelli a Forte dei Marmi, Nasi Agnelli a Cap-Ferrat, Necchi a Nervi, Matarazzo a San Paolo in Brasile), restaura e ristruttura edifici storici (tra cui il castello di San Michele di Pagana e quello di Paraggi, la rocca di Spilimbergo, la chiesa della Salute e l’Arsenale a Venezia, il palazzo del Duca d’Alba a Madrid e molte opere del Palladio). Non scrive più sulle riviste specializzate dei suoi colleghi che rimprovera di accademismo, ma solo su Vogue e Harper’s Bazaar. Tomaso Buzzi è sulla cresta dell’onda.
Poi, nel 1956 compra un convento, ridotto a rudere, nei pressi di Orvieto: la Scarzuola. Deciso a trasformarlo in una sorta di “autobiografia in pietra” della sua carriera di artista, comincia a lavorare freneticamente al progetto della sua città ideale, la Buzzinda. Si trasferisce a vivere lì e passa gran parte del tempo in cantiere, con gli artigiani del luogo. Interpreta per loro i suoi schizzi realizzati a due mani (disegnava e correggeva con la destra e la sinistra contemporaneamente), e vede nascere un percorso in cui verde, acqua, fuoco, terra, vita e morte, divini e mortali si integrano. Una summa onirica e coinvolgente di tutto il sapere architettonico, ma anche filosofico, storico e sapienziale. Buzzi lavora alla Scarzuola sino al 1976. Nel frattempo, sgomento, l’establishment culturale e accademico lo emargina immediatamente per le sue stramberie. A costoro, che gli chiedono come un architetto così serio e importante possa lasciarsi andare a certe cose, Buzzi risponde “Quando sono con voi sono vestito, e in cravatta; quando sono qui, alla Scarzuola, sono nudo e questo non potete sopportarlo”.
Organizzata da Giorgio Forni, Direttore della Fondazione Sartirana Arte, in collaborazione con il Settore Cultura del Comune di Pavia, Tokyo 1954 – Le carte giapponesi di Tomaso Buzzi presenta fino al 19 aprile 2015 un’accurata selezione di chine e carboncini di Tomaso Buzzi (Sondrio 1900 – Rapallo 1981), artista riservato e geniale, carismatico ed eclettico, tra i più grandi architetti italiani del ventesimo secolo, realizzati durante la sua permanenza in Giappone negli anni cinquanta del Novecento.
Accanto alla carriera, ben più nota, di architetto, Buzzi possedeva anche una particolare predisposizione al disegno: schizzi, matite, acquerelli, chine, carboncini. Fissava di tutto sulla carta, le città più care e le architetture, i cieli, le nature morte, ma anche nudi femminili, ritratti, e poi angeli, strumenti musicali, spaventapasseri, maschere giapponesi, lottatori di sumo e cuochi. Nei disegni ci sono le sue passioni, gli interessi, le manie, le idee, quanto gli rimane impresso negli occhi. Buzzi usava la matita per preservare i ricordi dall’inceneritore istantaneo della memoria, e dipingeva a due mani (sinistra e destra in contemporanea) su qualsiasi superficie: carta da pacco, fogli lucidi e da disegno, papiri... Cancellava e ridisegnava, utilizzava entrambi i lati e spesso corredava gli schizzi con appunti, scritti, pensieri, lampi di genio per futuri sviluppi.
Chiamato a Tokyo nel 1954 per ristrutturare l’edificio dell’ambasciata italiana, Buzzi durante il suo soggiorno traccia su carta immagini ed esperienze del Paese del Sol Levante: decine di fotogrammi, ciascuno a significare un pezzo del percorso, un’idea, un pensiero, una visione fissata nella mente. Sovente ripete un medesimo soggetto, ma con un linguaggio sempre nuovo che risponde alla sua sensibilità incandescente ed aperta. Immortala, col segno vibrante, nervoso, inquieto che lo caratterizza, i lottatori di sumo, lo sport nazionale giapponese, le cui origini risalgono agli inizi del VI secolo. Colti nelle diverse pose plastiche, che li rendono leggeri nonostante il peso specifico dei loro corpi, i lottatori di Buzzi indossano tutti il mawashi e i loro capelli sono acconciati con la particolare crocchia detta oi-cho mage. Nel percorso espositivo, i lottatori stanno al fianco di un’altra immagine simbolica del Giappone, quella delle maschere teatrali. Buzzi ci consegna una carrellata, intensa e pregnante, delle maschere kabuki della tradizione oriundo-nipponica. E ne sottolinea, con grande efficacia di tratto, il loro aspetto popolare. Il Teatro Kabuki infatti è una forma di drammaturgia giapponese dell’inizio del ‘600 – formata da tre ideogrammi: “ka” (canto), “bu” (paura), e “ki” (identità) – che rappresenta per molti la volgarizzazione del ben più nobile Teatro Nō – dall’ideogramma “nō” (abilità) –, nato nel ‘300 e che presuppone una cultura elevata per essere compreso.
Tomaso Buzzi (Sondrio 1900 – Rapallo 1981), artista riservato e geniale, carismatico ed eclettico, è tra i più grandi architetti italiani del ventesimo secolo. Protagonista della scena meneghina degli anni Venti e Trenta del Novecento, Buzzi comincia accanto a Giò Ponti. Insieme fondano la storica rivista Domus, e insieme firmano alcuni dei progetti più noti. Arrivano persino a creare (con Paolo Venini, della storica Venini di Murano, di cui Buzzi era direttore artistico) una società per commercializzare le loro opere di design. A quel tempo, il giovane Buzzi, famosissimo e riverito ovunque, università inclusa, è ordinario di Disegno dal Vero al Politecnico di Milano. La sua fama non si oscura con la guerra, anzi. Nel dopoguerra è Ponti a elemosinare le attenzioni di Buzzi, che invece lo allontana rimproverandogli un eccesso di compromessi col regime fascista. Nel frattempo Buzzi, ormai ritenuto l’architetto che nessun potente italiano può farsi mancare, è chiamato per i suoi lavori da tutta la nobiltà romana, da intellettuali, ecclesiastici e politici. Progetta Palazzo Marcoli a Roma e, sempre nella capitale, il Teatro della Cometa. Realizza molte ville (tra cui Pacelli a Forte dei Marmi, Nasi Agnelli a Cap-Ferrat, Necchi a Nervi, Matarazzo a San Paolo in Brasile), restaura e ristruttura edifici storici (tra cui il castello di San Michele di Pagana e quello di Paraggi, la rocca di Spilimbergo, la chiesa della Salute e l’Arsenale a Venezia, il palazzo del Duca d’Alba a Madrid e molte opere del Palladio). Non scrive più sulle riviste specializzate dei suoi colleghi che rimprovera di accademismo, ma solo su Vogue e Harper’s Bazaar. Tomaso Buzzi è sulla cresta dell’onda.
Poi, nel 1956 compra un convento, ridotto a rudere, nei pressi di Orvieto: la Scarzuola. Deciso a trasformarlo in una sorta di “autobiografia in pietra” della sua carriera di artista, comincia a lavorare freneticamente al progetto della sua città ideale, la Buzzinda. Si trasferisce a vivere lì e passa gran parte del tempo in cantiere, con gli artigiani del luogo. Interpreta per loro i suoi schizzi realizzati a due mani (disegnava e correggeva con la destra e la sinistra contemporaneamente), e vede nascere un percorso in cui verde, acqua, fuoco, terra, vita e morte, divini e mortali si integrano. Una summa onirica e coinvolgente di tutto il sapere architettonico, ma anche filosofico, storico e sapienziale. Buzzi lavora alla Scarzuola sino al 1976. Nel frattempo, sgomento, l’establishment culturale e accademico lo emargina immediatamente per le sue stramberie. A costoro, che gli chiedono come un architetto così serio e importante possa lasciarsi andare a certe cose, Buzzi risponde “Quando sono con voi sono vestito, e in cravatta; quando sono qui, alla Scarzuola, sono nudo e questo non potete sopportarlo”.
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