Federica Giglio. Oltreoltreoltreoltre
Dal 04 Maggio 2013 al 02 Giugno 2013
Spoleto | Perugia
Luogo: Palazzo Collicola Arti Visive – Museo Carandente
Indirizzo: piazza Collicola 1
Orari: 10-13/ 14.30-17; chiuso il martedì
Telefono per informazioni: +39 02 89053149
E-Mail info: info@adicorbetta.org
Sito ufficiale: http://www.palazzocollicola.it
Ritrovarsi… dopo un tempo in cui la distanza non è stata assenza ma pausa viva, in attesa di nuove dimore che rimettessero in circolo le energie umane e professionali. Sono passati alcuni anni dal viaggio di MOSTRAMOSTRO, il sogno realizzato di Federica Giglio, un’esposizione e un libro che facevano il punto ma anche la linea, la curva e il volume di una vita tra esterno e interiorità, catene e cielo, buio e luce… Sono trascorsi vari cicli stagionali senza che nulla di quel momento venisse sprecato: perché l’arte può e deve vivere di pause organiche, momenti diluiti in cui si metabolizza il quotidiano, lentamente ma inesorabilmente, fino alla catarsi di una scintilla con cui l’artista (ri)sente il peso lucido e docile della necessità espressiva, rivelando(ci) il risultato di un percorso liberatorio.
Tutto parte dal punto che è stato lasciato come momentaneo ultimo punto…
Ritrovarci… il sottoscritto e Federica Giglio, dentro la seconda tappa di un viaggio dal finale momentaneo, assieme su una nuova barca al largo del medesimo mare. Non credo nelle casualità, soprattutto quando molteplici segnali indicano le radici e le ragioni di certi incontri. Ripenso ad alcuni frangenti che mi chiariscono la famelica necessità della creazione, lungo rotte immaginate in cui l’artista ha indicato il giusto capitano, in modo da concentrarsi sull’orizzonte, per osservare il movimento del sole e della luna, le geometrie stellari, i panneggi mobili delle nuvole. Ho così deciso di navigare al timone di questa barca visionaria, lasciando che Federica diventasse acqua e vento mentre assorbiva il sole, la luna, le stelle. Mi sono disposto nella condizione emotiva della vela che gestisce con raziocinio quel vento e quel mare, intuendo le rotte e modulando la velocità di navigazione. E poi devo ammetterlo, il viaggio era nelle fondamenta del nostro incontro: la precedente mostra fu allestita presso l’Ala Mazzoniana di Stazione Termini, cuore urbano del viaggio più terreno, dove i binari diventano sicurezza direzionale. Da Roma ci siamo spostati verso l’Umbria, terra di santi e antichi borghi, di larga natura e ampio silenzio. Ai valori speciali appartiene anche il giglio, fiore dai codici sacri in terra umbra, legato all’iconografia della purezza come dimostrano le opere di Pinturicchio e Luca Signorelli. Emerge una relazione simbolica tra il giglio e la figura di Gesù, portatore di purezza e maestro di doni salvifici. Penso al cognome di Federica, al fatto che la sua anagrafe includa il senso del dono e indichi una via possibile, laicamente propria, umanamente ricca, emotivamente pulsante. Dal giglio a Giglio, sulle rotte umbre del destino…
La pausa viva riguarda l’attesa sensibile, la pazienza come metodo quotidiano, un crescendo da fermi fino alla prossima urgenza, fino al momento in cui l’opera chiederà spazio. L’arte non prevede processi lineari lungo precisi ordini temporali, al contrario implica un disegno privato che corrisponde alla mappatura dell’universo interiore. Per questo l’esperienza dell’opera prescinde dalle regole condivise, dalle consuetudini sociali e culturali, dai ritmi che l’organizzazione umana impone. L’arte è il risultato di un’altra impellenza, intima e propria, una chiave d’urgenza che detiene un personale bioritmo e crea una nuova natura, un Genoma della rinascita inseguita. L’opera come ossigeno e cibo, chimica primaria che rincorre l’archetipo innato, la svolta di un nodo che si scioglie per aprire nuove conoscenze. FG mette l’intero peso lordo del suo quotidiano dentro il peso netto dell’opera, gestendo l’angolo terapeutico del fattore artistico, il rilascio invisibile dei contenuti che si riempiono di odori, pelle, sentimenti, parole… ciò che molti chiamano malattia indica il punto di partenza per Federica, uno stadio intermedio tra la memoria vigile e la continua rinascita, così da trasformare il bipolarismo in una lente d’ingrandimento sentimentale, uno zoom che disseziona il dettaglio per addomesticare la diversità.
Scrivevo nel libro MOSTRAMOSTRO: “Talvolta capitano incontri particolarmente intensi lungo la tua strada. Si tratta di qualcuno che si porta appresso storie forti e crudeli, talmente dense da educare la nostra coscienza a nuovi dilemmi morali. Persone che asciugano la prosa dei propri eventi e la raccontano attraverso le magie anomale dell’invenzione creativa. Realizzando opere con una luce interna che non puoi definire in maniera netta, proprio perché in tali soggetti l’attaccamento alla vita e la necessità espressiva si appartengono con suadente empatia. Federica Giglio è una di queste storie umane, la più significativa a mia memoria recente. Da raccontare per molteplici ragioni. Ad esempio, dicendo che il suo progetto nasce da un fatto reale, da una malattia tatuata su giorno e notte, sulla vita e sullo stile del vivere, sui modi e modelli del proprio essere. Ma non parleremo di sintomatologie e terapie, evitando una supponenza scientifica che fermerebbe la procreazione dello sguardo fertile. Perché di pensieri e visioni stiamo parlando. Di esperienze vissute e metabolizzate. Di brevi o lunghi monologhi con la morte. Di lunghi o lunghissimi dialoghi con la vita. Una vicenda estrema che l’attitudine creativa ha reso disponibile e universale…”
Sono parole oltre le date di una mostra, frasi che non hanno perso nulla del loro peso morale. Le riprendo oggi come collante umano per raccontare il nuovo viaggio di Federica, la rinnovata sorte che capta nella pittura la sua sintesi liberatoria. Anche MOSTRAMOSTRO aveva passaggi pittorici ma appartenevano alla complessità linguistica, come se il quadro fosse una delle plausibili sintassi. In quel caso l’artista sentiva il bisogno di molte voci che esprimessero le diverse spinte interiori, una convivenza di mondi figurativi per dare volume alla sua geografia diseguale, alle sue armonie eterogenee, al suo muoversi endogeno. Sono trascorsi sette anni e l’urgenza del fine chiedeva un mezzo adeguato che divenisse un compagno domestico, più diretto nel rapporto tra idea e risultato, senza processi intermedi di elaborazione collettiva. Niente di meglio della pittura per esprimersi con minime mediazioni linguistiche, ricorrendo alla fotografia come puro disegno e approccio strutturale. Gli undici quadri partono, infatti, da uno scatto fotografico al soggetto prescelto: un prologo funzionale, un tracciato realistico su cui la pittura è intervenuta con libertà interpretativa. Serviva la foto come base elettiva, affinché il volto e la postura si connettessero al reale; la pittura ha poi assolto il compito del virtuale fantastico, definendo il codice iconografico dell’opera. Che qui significa aprire l’interpretazione al dato sensoriale ed emotivo, alle ispirazioni di texture e colori, al compito ornamentale come indicazione su caratteri e attitudini del soggetto. FG ha elaborato le opere come campiture geografiche con una loro vitalità organica, gli stessi colori recitano una parte teatrale, i dettagli pulsano come bottoni d’accensione. Le opere sembrano vestite da un intricato mix antropologico, una sorta di limbo estetico che include il contrasto e lo stridore. Storie di tessuti, culture africane, estasi barocca, spunti contemporanei, flussi tra epoche, imprinting randomici, richiami astronomici e cellulari, motivi animali e vegetali… è la pittura a creare dialoghi inaspettati, armonie sottilissime, architetture plastiche tra le molteplici scie ispirative. L’artista ha espresso la propria complessità attraverso il flusso liberatorio del pennello, definendosi con la modulazione del collage pittorico, unendo alti e bassi, luce e ombra, implosione e deflagrazione. Gli undici quadri respirano singolarmente ma vivono assieme come unificazione corporea: ci narrano Federica Giglio nelle sue complesse gamme emotive, rilevando la ricchezza e il mistero dei mondi interiori.
Sempre da MOSTRAMOSTRO: “Essere consapevoli del dolore intimo richiama un coraggio, estetico e morale, senza compromessi. Federica Giglio prima assiste allo spettacolo del mondo con occhi recettivi. Poi metabolizza le informazioni con la spietata, esigente sacralità del suo immaginario. Ogni lavoro accumula interi blocchi d’esperienza nella singola forma. Assorbe la densità del processo nel suo tessuto connettivo, nella pelle superficiale, nei rimandi più diretti ma anche nei codici meno leggibili. Ammiri la qualità estetica e capisci l’onestà del percorso, la convinzione categorica di una sfida crudele. Decodifichi la spinta che l’autrice intraprende con se stessa lungo sentieri di (necessaria) solitudine e (altrettanto necessaria) condivisione. Percepisci le riflessioni che si sono accumulate negli anni: giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo. Quella di Federica (la chiamo per nome visto che i suoi modi ricreano subito un’intimità affettuosa) è una storia dove ogni secondo enfatizza il battito della vita. Il tempo astronomico sembra passare tra le atmosfere del progetto, dove la sospensione metafisica delle installazioni spinge lo sguardo ad introiettarsi nelle proprie gallerie interiori.
FG ha scelto la convivenza, in questo caso tra umano e animale, più precisamente tra persone e gatti. Un chiarimento immediato: non entrerò nell’universo dei felini, evitando l’equivoco che le opere siano ritratti di animali domestici coi loro caratteri somatici, le differenze di razza, le qualità del pedigree. Il gatto ha qui un ruolo catalizzante che nasce dalla ricerca di un nodo catartico, un preciso fattore simbolico che unisca la pienezza altalenante della vita con la densa simbologia dell’opera. Non è un caso che siano tutti della stessa razza, a conferma di una strategia del gusto e del bello, dove il carattere somatico indica la scelta razionale e la cosciente ossessione. La presenza maniacale di gatti British e Scottish definisce l’anomalia e la coerenza strategica del gesto, così da levare ogni casualità alla presenza scenica del felino. Il quotidiano di FG si divide tra la famiglia genetica (un marito, un figlio maschio, una figlia femmina) e la famiglia “adottiva” in chiave animale. Da una parte la costruzione umana, dall’altra la scelta elettiva, al centro Federica e le sue ossessioni coerenti, la sua voglia di amore, la sua forza indomita, le sue urgenze irrefrenabili. Quei gatti hanno creato un ritmo armonico nella vita di Federica, sono stati il soggetto privilegiato dentro le sue solitudini, una spinta meditativa lungo notti insonni. Li vediamo in braccio alle persone che FG ha voluto ritrarre, in perfetta posa davanti al nostro sguardo, allineati ai nostri occhi spietati. Quel gioco di pupille è una calamita cosmica che ci trascina nel valore simbolico del quadro, nel cortocircuito dello sguardo dentro lo sguardo, nelle sublimi ambiguità che un’opera si porta dentro.
Le persone ritratte sono parenti, amici intimi, conoscenti speciali (oltre ad esserci un necessario autoritratto). Colpiscono i loro volti teatrali, trasformati da FG in un mascheramento senza maschera, dove il colore ricrea espressioni alchemiche, fiere e intriganti, dentro la storia umanistica del volto occidentale. Dal doppio ritratto (persona+gatto) emerge sempre un carattere, un intrico di equilibri emotivi, una dimensione vitale. Corre la memoria ai ritratti fotografici di William Wegman: per lui soltanto bracchi di Weimar in una miriade di scene e situazioni “umane”. I cani dell’americano giocano con la dimensione privata dell’ossessione, cercando nuove ragioni del ritratto, rompendo gli spazi del realismo figurativo, usando l’ironia e la forza dei sentimenti personali. FG fa qualcosa di simile, svelandoci un viaggio segreto nella sua psiche, dentro la fermezza dei suoi obiettivi esistenziali, non dimenticando il peso agile dell’ironia e la libertà di colorare il mondo a propria immagine e somiglianza. Esiste qualcosa di più riuscito dell’opera che sfugge da ogni parte mentre cerchiamo di afferrarla?
L’opera nasce sempre da una necessità, altrimenti sarebbe soltanto manufatto estetico, oggetto decorativo, simulacro senza cuore. Probabilmente non arriva da un atto altruistico, anche perché l’altruismo non appartiene alla natura creatrice. Altruistico, invece, può essere il modo di offrire l’opera agli altri, renderla un dono che ognuno potrà scoprire, rivoltare, interpretare come meglio crede. Creare è una forma di complesso egoismo che sfocia verso la collettività reattiva. Un rapporto solipsistico dove l’autore si mette in gioco, sfida i propri limiti, cerca una salvezza che non trascuri la purificazione e la rinascita interiore. L’opera come diario privato che si offre alle pagine altrui, diventando l’inchiostro scuro con cui trascrivere gli spostamenti in avanti dell’umana specie.
Chiudo il viaggio con le parole che avete appena letto. Sembrano scritte sulla pelle degli undici quadri in mostra, una specie di tatuaggio interiore che attraversa la pittura e il senso emotivo oltre la figurazione. In realtà le scrissi per MOSTRAMOSTRO, immaginando le varie installazioni come un atto necessario che implicava i pregi sentimentali del dono. Il tempo trascorso tra le due esposizioni si annulla nell’istante del nostro primo sguardo: undici volti umani, undici gatti in posa, undici quadri che ci osservano con la ieratica fissità della statuaria romana. I loro occhi ci seguono, come i cavalli dipinti nel mantovano Palazzo Te.
Tutto parte dal punto che è stato lasciato come momentaneo ultimo punto…
Ritrovarci… il sottoscritto e Federica Giglio, dentro la seconda tappa di un viaggio dal finale momentaneo, assieme su una nuova barca al largo del medesimo mare. Non credo nelle casualità, soprattutto quando molteplici segnali indicano le radici e le ragioni di certi incontri. Ripenso ad alcuni frangenti che mi chiariscono la famelica necessità della creazione, lungo rotte immaginate in cui l’artista ha indicato il giusto capitano, in modo da concentrarsi sull’orizzonte, per osservare il movimento del sole e della luna, le geometrie stellari, i panneggi mobili delle nuvole. Ho così deciso di navigare al timone di questa barca visionaria, lasciando che Federica diventasse acqua e vento mentre assorbiva il sole, la luna, le stelle. Mi sono disposto nella condizione emotiva della vela che gestisce con raziocinio quel vento e quel mare, intuendo le rotte e modulando la velocità di navigazione. E poi devo ammetterlo, il viaggio era nelle fondamenta del nostro incontro: la precedente mostra fu allestita presso l’Ala Mazzoniana di Stazione Termini, cuore urbano del viaggio più terreno, dove i binari diventano sicurezza direzionale. Da Roma ci siamo spostati verso l’Umbria, terra di santi e antichi borghi, di larga natura e ampio silenzio. Ai valori speciali appartiene anche il giglio, fiore dai codici sacri in terra umbra, legato all’iconografia della purezza come dimostrano le opere di Pinturicchio e Luca Signorelli. Emerge una relazione simbolica tra il giglio e la figura di Gesù, portatore di purezza e maestro di doni salvifici. Penso al cognome di Federica, al fatto che la sua anagrafe includa il senso del dono e indichi una via possibile, laicamente propria, umanamente ricca, emotivamente pulsante. Dal giglio a Giglio, sulle rotte umbre del destino…
La pausa viva riguarda l’attesa sensibile, la pazienza come metodo quotidiano, un crescendo da fermi fino alla prossima urgenza, fino al momento in cui l’opera chiederà spazio. L’arte non prevede processi lineari lungo precisi ordini temporali, al contrario implica un disegno privato che corrisponde alla mappatura dell’universo interiore. Per questo l’esperienza dell’opera prescinde dalle regole condivise, dalle consuetudini sociali e culturali, dai ritmi che l’organizzazione umana impone. L’arte è il risultato di un’altra impellenza, intima e propria, una chiave d’urgenza che detiene un personale bioritmo e crea una nuova natura, un Genoma della rinascita inseguita. L’opera come ossigeno e cibo, chimica primaria che rincorre l’archetipo innato, la svolta di un nodo che si scioglie per aprire nuove conoscenze. FG mette l’intero peso lordo del suo quotidiano dentro il peso netto dell’opera, gestendo l’angolo terapeutico del fattore artistico, il rilascio invisibile dei contenuti che si riempiono di odori, pelle, sentimenti, parole… ciò che molti chiamano malattia indica il punto di partenza per Federica, uno stadio intermedio tra la memoria vigile e la continua rinascita, così da trasformare il bipolarismo in una lente d’ingrandimento sentimentale, uno zoom che disseziona il dettaglio per addomesticare la diversità.
Scrivevo nel libro MOSTRAMOSTRO: “Talvolta capitano incontri particolarmente intensi lungo la tua strada. Si tratta di qualcuno che si porta appresso storie forti e crudeli, talmente dense da educare la nostra coscienza a nuovi dilemmi morali. Persone che asciugano la prosa dei propri eventi e la raccontano attraverso le magie anomale dell’invenzione creativa. Realizzando opere con una luce interna che non puoi definire in maniera netta, proprio perché in tali soggetti l’attaccamento alla vita e la necessità espressiva si appartengono con suadente empatia. Federica Giglio è una di queste storie umane, la più significativa a mia memoria recente. Da raccontare per molteplici ragioni. Ad esempio, dicendo che il suo progetto nasce da un fatto reale, da una malattia tatuata su giorno e notte, sulla vita e sullo stile del vivere, sui modi e modelli del proprio essere. Ma non parleremo di sintomatologie e terapie, evitando una supponenza scientifica che fermerebbe la procreazione dello sguardo fertile. Perché di pensieri e visioni stiamo parlando. Di esperienze vissute e metabolizzate. Di brevi o lunghi monologhi con la morte. Di lunghi o lunghissimi dialoghi con la vita. Una vicenda estrema che l’attitudine creativa ha reso disponibile e universale…”
Sono parole oltre le date di una mostra, frasi che non hanno perso nulla del loro peso morale. Le riprendo oggi come collante umano per raccontare il nuovo viaggio di Federica, la rinnovata sorte che capta nella pittura la sua sintesi liberatoria. Anche MOSTRAMOSTRO aveva passaggi pittorici ma appartenevano alla complessità linguistica, come se il quadro fosse una delle plausibili sintassi. In quel caso l’artista sentiva il bisogno di molte voci che esprimessero le diverse spinte interiori, una convivenza di mondi figurativi per dare volume alla sua geografia diseguale, alle sue armonie eterogenee, al suo muoversi endogeno. Sono trascorsi sette anni e l’urgenza del fine chiedeva un mezzo adeguato che divenisse un compagno domestico, più diretto nel rapporto tra idea e risultato, senza processi intermedi di elaborazione collettiva. Niente di meglio della pittura per esprimersi con minime mediazioni linguistiche, ricorrendo alla fotografia come puro disegno e approccio strutturale. Gli undici quadri partono, infatti, da uno scatto fotografico al soggetto prescelto: un prologo funzionale, un tracciato realistico su cui la pittura è intervenuta con libertà interpretativa. Serviva la foto come base elettiva, affinché il volto e la postura si connettessero al reale; la pittura ha poi assolto il compito del virtuale fantastico, definendo il codice iconografico dell’opera. Che qui significa aprire l’interpretazione al dato sensoriale ed emotivo, alle ispirazioni di texture e colori, al compito ornamentale come indicazione su caratteri e attitudini del soggetto. FG ha elaborato le opere come campiture geografiche con una loro vitalità organica, gli stessi colori recitano una parte teatrale, i dettagli pulsano come bottoni d’accensione. Le opere sembrano vestite da un intricato mix antropologico, una sorta di limbo estetico che include il contrasto e lo stridore. Storie di tessuti, culture africane, estasi barocca, spunti contemporanei, flussi tra epoche, imprinting randomici, richiami astronomici e cellulari, motivi animali e vegetali… è la pittura a creare dialoghi inaspettati, armonie sottilissime, architetture plastiche tra le molteplici scie ispirative. L’artista ha espresso la propria complessità attraverso il flusso liberatorio del pennello, definendosi con la modulazione del collage pittorico, unendo alti e bassi, luce e ombra, implosione e deflagrazione. Gli undici quadri respirano singolarmente ma vivono assieme come unificazione corporea: ci narrano Federica Giglio nelle sue complesse gamme emotive, rilevando la ricchezza e il mistero dei mondi interiori.
Sempre da MOSTRAMOSTRO: “Essere consapevoli del dolore intimo richiama un coraggio, estetico e morale, senza compromessi. Federica Giglio prima assiste allo spettacolo del mondo con occhi recettivi. Poi metabolizza le informazioni con la spietata, esigente sacralità del suo immaginario. Ogni lavoro accumula interi blocchi d’esperienza nella singola forma. Assorbe la densità del processo nel suo tessuto connettivo, nella pelle superficiale, nei rimandi più diretti ma anche nei codici meno leggibili. Ammiri la qualità estetica e capisci l’onestà del percorso, la convinzione categorica di una sfida crudele. Decodifichi la spinta che l’autrice intraprende con se stessa lungo sentieri di (necessaria) solitudine e (altrettanto necessaria) condivisione. Percepisci le riflessioni che si sono accumulate negli anni: giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo. Quella di Federica (la chiamo per nome visto che i suoi modi ricreano subito un’intimità affettuosa) è una storia dove ogni secondo enfatizza il battito della vita. Il tempo astronomico sembra passare tra le atmosfere del progetto, dove la sospensione metafisica delle installazioni spinge lo sguardo ad introiettarsi nelle proprie gallerie interiori.
FG ha scelto la convivenza, in questo caso tra umano e animale, più precisamente tra persone e gatti. Un chiarimento immediato: non entrerò nell’universo dei felini, evitando l’equivoco che le opere siano ritratti di animali domestici coi loro caratteri somatici, le differenze di razza, le qualità del pedigree. Il gatto ha qui un ruolo catalizzante che nasce dalla ricerca di un nodo catartico, un preciso fattore simbolico che unisca la pienezza altalenante della vita con la densa simbologia dell’opera. Non è un caso che siano tutti della stessa razza, a conferma di una strategia del gusto e del bello, dove il carattere somatico indica la scelta razionale e la cosciente ossessione. La presenza maniacale di gatti British e Scottish definisce l’anomalia e la coerenza strategica del gesto, così da levare ogni casualità alla presenza scenica del felino. Il quotidiano di FG si divide tra la famiglia genetica (un marito, un figlio maschio, una figlia femmina) e la famiglia “adottiva” in chiave animale. Da una parte la costruzione umana, dall’altra la scelta elettiva, al centro Federica e le sue ossessioni coerenti, la sua voglia di amore, la sua forza indomita, le sue urgenze irrefrenabili. Quei gatti hanno creato un ritmo armonico nella vita di Federica, sono stati il soggetto privilegiato dentro le sue solitudini, una spinta meditativa lungo notti insonni. Li vediamo in braccio alle persone che FG ha voluto ritrarre, in perfetta posa davanti al nostro sguardo, allineati ai nostri occhi spietati. Quel gioco di pupille è una calamita cosmica che ci trascina nel valore simbolico del quadro, nel cortocircuito dello sguardo dentro lo sguardo, nelle sublimi ambiguità che un’opera si porta dentro.
Le persone ritratte sono parenti, amici intimi, conoscenti speciali (oltre ad esserci un necessario autoritratto). Colpiscono i loro volti teatrali, trasformati da FG in un mascheramento senza maschera, dove il colore ricrea espressioni alchemiche, fiere e intriganti, dentro la storia umanistica del volto occidentale. Dal doppio ritratto (persona+gatto) emerge sempre un carattere, un intrico di equilibri emotivi, una dimensione vitale. Corre la memoria ai ritratti fotografici di William Wegman: per lui soltanto bracchi di Weimar in una miriade di scene e situazioni “umane”. I cani dell’americano giocano con la dimensione privata dell’ossessione, cercando nuove ragioni del ritratto, rompendo gli spazi del realismo figurativo, usando l’ironia e la forza dei sentimenti personali. FG fa qualcosa di simile, svelandoci un viaggio segreto nella sua psiche, dentro la fermezza dei suoi obiettivi esistenziali, non dimenticando il peso agile dell’ironia e la libertà di colorare il mondo a propria immagine e somiglianza. Esiste qualcosa di più riuscito dell’opera che sfugge da ogni parte mentre cerchiamo di afferrarla?
L’opera nasce sempre da una necessità, altrimenti sarebbe soltanto manufatto estetico, oggetto decorativo, simulacro senza cuore. Probabilmente non arriva da un atto altruistico, anche perché l’altruismo non appartiene alla natura creatrice. Altruistico, invece, può essere il modo di offrire l’opera agli altri, renderla un dono che ognuno potrà scoprire, rivoltare, interpretare come meglio crede. Creare è una forma di complesso egoismo che sfocia verso la collettività reattiva. Un rapporto solipsistico dove l’autore si mette in gioco, sfida i propri limiti, cerca una salvezza che non trascuri la purificazione e la rinascita interiore. L’opera come diario privato che si offre alle pagine altrui, diventando l’inchiostro scuro con cui trascrivere gli spostamenti in avanti dell’umana specie.
Chiudo il viaggio con le parole che avete appena letto. Sembrano scritte sulla pelle degli undici quadri in mostra, una specie di tatuaggio interiore che attraversa la pittura e il senso emotivo oltre la figurazione. In realtà le scrissi per MOSTRAMOSTRO, immaginando le varie installazioni come un atto necessario che implicava i pregi sentimentali del dono. Il tempo trascorso tra le due esposizioni si annulla nell’istante del nostro primo sguardo: undici volti umani, undici gatti in posa, undici quadri che ci osservano con la ieratica fissità della statuaria romana. I loro occhi ci seguono, come i cavalli dipinti nel mantovano Palazzo Te.
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