Nicola Maria Martino. Ho dipinto, senza che ce ne fosse bisogno
Dal 03 Maggio 2014 al 31 Maggio 2014
Città Sant'Angelo | Pescara
Luogo: MuseoLaboratorio - ex Manifattura Tabacchi
Indirizzo: vico Lupinato 1
Orari: 18-21 o su appuntamento; chiuso lunedì e martedì
Curatori: Guido Curto
Telefono per informazioni: +39 085 960555
E-Mail info: info@museolaboratorio.org
Sito ufficiale: http://www.museolaboratorio.org
Sabato 3 maggio, presso il MuseoLaboratorio ex manifattura tabacchi di Città Sant’Angelo, si inaugura la mostra personale di Nicola Maria Martino: ‘Ho dipinto, senza che ce ne fosse bisogno’.
Nicola Maria Martino dipinge. Però, prima di dipingere, lui pensa. O forse sogna. Ma sempre a occhi aperti. Martino non è un pittore di getto, d’istinto, di pancia. Perché in lui il pensiero prevale sull’azione. Sia chiaro, non è, non vuole essere e non millanta d’essere un artista concettuale. Tuttavia, se leggete i tanti, bellissimi titoli dei suoi dipinti e anche il titolo di questa stessa mostra – Ho dipinto, senza che ce ne fosse bisogno – capirete che il senso acuto e arguto del suo fare Arte sta anzitutto nella forza evocativa della parola. Parola che diventa materia artistica quando è scritta, ad esempio, su un cartello bianco esposto da lui stesso in pubblico, teatralmente, provocatoriamente, ludicamente, come nei suoi primi lavori che erano vere e proprie azioni performative, messe in atto per strada quando ancora era un giovane studente contestatore nella guttusiana e “organica” Accademia di Belle Arti di Roma. Lui da ribelle anarchico, benché (o forse meglio dire perché) fosse devoto al suo Maestro, il futurista Sante Monachesi, espone sé stesso in varie performance on the road sia a Roma sia a Zurigo, l’austera città svizzera dove risiedeva da ragazza l’amatissima moglie Marianne Wild, conosciuta quand’entrambi erano all’Accademia di Belle Arti di Roma: lui già assistente di Decorazione e lei, bellissima straniera, giovane matricola.
Ben presto, però, Martino si rende conto che i suoi interventi metropolitani potevano essere confusi con altre “operazioni” di matrice concettual-politicosociale. E siccome per Nicola Maria Martino l’arte è pura libertà e, quindi, non dev’essere strumento di denuncia o propaganda, ma solo e soltanto trasgressione mentale, negli anni ’70 ricomincia a praticare quella pittura tanto amata fin da ragazzo, quando trasgredendo i consigli del padre, Prefetto, invece che a Giurisprudenza s’era inscritto all’Accademia di Roma, alla Scuola di Decorazione. E qui studia sia con il “grande” Monachesi, sia ammirando i Maestri del passato: Matisse in primis. Perché dietro alla superficie di un aspetto dandy, sempre elegantissimo, si cela la profondità di un uomo colto, dalle molte e svariate letture; un vero intellettuale mediterraneo che da sempre apprende anche dalle molte esperienze di viaggio e dalla visione di altri mondi: il Sudamerica, dove ha lontane origini la famiglia peruviana della moglie, la Siria, dove ha esposto giovanissimo al Museo di Arte Contemporanea, l’Arabia Saudita, e poi agli inizi degli anni ’80 a Parigi dove espone da Nicole Rousset Altounian (NRA) presenti tra l’altro Pierre Restany e tutti i Nouveaux Philosophes, un successo mai dimenticato. A Chicago nel 1984 dove fu scelto a rappresentare la pittura italiana, e ancora a Johannesburg, insieme alla transavanguardia e alla pittura colta. Paesi e paesaggi diversi dalla natia Puglia, osservati senza mai preclusioni, anzi con generosa apertura mentale. Da tutte queste visioni, tratte sia dai libri sia dai viaggi, nascono iconografie vagamente oniriche, in apparenza semplici, ma che, a ben vedere, rimandano ad una concezione lirica dell’Arte, dove gli oggetti, le cose, sono il Correlativo Oggettivo di tanti mutevoli stati d’animo. Uno stato d’animo che in lui, lo si vede nel vivido colore, è quasi sempre gioioso e giocoso, connotato semmai da un’ironia soffusa, subliminalmente autoironica, come nel titolo di questa mostra, della quale con modestia non falsa, ma autocritica, dichiara: “non ce n’era bisogno”. Anche se questa antologica ci offre una visione disincantata, ma incantante del mondo, della quale noi sentivamo il bisogno.
Guido Curto
Nicola Maria Martino dipinge. Però, prima di dipingere, lui pensa. O forse sogna. Ma sempre a occhi aperti. Martino non è un pittore di getto, d’istinto, di pancia. Perché in lui il pensiero prevale sull’azione. Sia chiaro, non è, non vuole essere e non millanta d’essere un artista concettuale. Tuttavia, se leggete i tanti, bellissimi titoli dei suoi dipinti e anche il titolo di questa stessa mostra – Ho dipinto, senza che ce ne fosse bisogno – capirete che il senso acuto e arguto del suo fare Arte sta anzitutto nella forza evocativa della parola. Parola che diventa materia artistica quando è scritta, ad esempio, su un cartello bianco esposto da lui stesso in pubblico, teatralmente, provocatoriamente, ludicamente, come nei suoi primi lavori che erano vere e proprie azioni performative, messe in atto per strada quando ancora era un giovane studente contestatore nella guttusiana e “organica” Accademia di Belle Arti di Roma. Lui da ribelle anarchico, benché (o forse meglio dire perché) fosse devoto al suo Maestro, il futurista Sante Monachesi, espone sé stesso in varie performance on the road sia a Roma sia a Zurigo, l’austera città svizzera dove risiedeva da ragazza l’amatissima moglie Marianne Wild, conosciuta quand’entrambi erano all’Accademia di Belle Arti di Roma: lui già assistente di Decorazione e lei, bellissima straniera, giovane matricola.
Ben presto, però, Martino si rende conto che i suoi interventi metropolitani potevano essere confusi con altre “operazioni” di matrice concettual-politicosociale. E siccome per Nicola Maria Martino l’arte è pura libertà e, quindi, non dev’essere strumento di denuncia o propaganda, ma solo e soltanto trasgressione mentale, negli anni ’70 ricomincia a praticare quella pittura tanto amata fin da ragazzo, quando trasgredendo i consigli del padre, Prefetto, invece che a Giurisprudenza s’era inscritto all’Accademia di Roma, alla Scuola di Decorazione. E qui studia sia con il “grande” Monachesi, sia ammirando i Maestri del passato: Matisse in primis. Perché dietro alla superficie di un aspetto dandy, sempre elegantissimo, si cela la profondità di un uomo colto, dalle molte e svariate letture; un vero intellettuale mediterraneo che da sempre apprende anche dalle molte esperienze di viaggio e dalla visione di altri mondi: il Sudamerica, dove ha lontane origini la famiglia peruviana della moglie, la Siria, dove ha esposto giovanissimo al Museo di Arte Contemporanea, l’Arabia Saudita, e poi agli inizi degli anni ’80 a Parigi dove espone da Nicole Rousset Altounian (NRA) presenti tra l’altro Pierre Restany e tutti i Nouveaux Philosophes, un successo mai dimenticato. A Chicago nel 1984 dove fu scelto a rappresentare la pittura italiana, e ancora a Johannesburg, insieme alla transavanguardia e alla pittura colta. Paesi e paesaggi diversi dalla natia Puglia, osservati senza mai preclusioni, anzi con generosa apertura mentale. Da tutte queste visioni, tratte sia dai libri sia dai viaggi, nascono iconografie vagamente oniriche, in apparenza semplici, ma che, a ben vedere, rimandano ad una concezione lirica dell’Arte, dove gli oggetti, le cose, sono il Correlativo Oggettivo di tanti mutevoli stati d’animo. Uno stato d’animo che in lui, lo si vede nel vivido colore, è quasi sempre gioioso e giocoso, connotato semmai da un’ironia soffusa, subliminalmente autoironica, come nel titolo di questa mostra, della quale con modestia non falsa, ma autocritica, dichiara: “non ce n’era bisogno”. Anche se questa antologica ci offre una visione disincantata, ma incantante del mondo, della quale noi sentivamo il bisogno.
Guido Curto
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