Giotto e il Novecento
Dal 06 Dicembre 2022 al 04 Giugno 2023
Rovereto | Trento
Luogo: Mart Rovereto
Indirizzo: Corso Bettini 43
Orari: Mart-Dom 10-18, Venerdì 10-21. Lunedì chiuso
Curatori: Alessandra Tiddia. Da un'idea di Vittorio Sgarbi
Enti promotori:
- In collaborazione con Assessorato alla cultura del Comune di Padova e Musei Civici
Costo del biglietto: Intero 11 €, ridotto 7 €. Gratuito fino ai 14 anni e persone con disabilità
Telefono per informazioni: 800 397760
Sito ufficiale: http://www.mart.tn.it
Tutta l’arte è contemporanea
Il rapporto tra antico e contemporaneo è da sempre al centro dell’indagine del Mart di Rovereto. La struttura stessa del museo celebra le forme classiche del Panteon, rievocato nelle forme e nelle proporzioni della cupola, e dell’impluvium romano che caratterizza la fontana posta sotto la cupola stessa.
La proposta espositiva basata su confronti e parallelismi è una delle cifre stilistiche riconosciute al museo di Rovereto che già nel 2013 proponeva una straordinaria mostra su Antonello da Messina,a cura degli studiosi Ferdinando Bologna e Federico De Melis. Per l’occasione, le opere del maestro quattrocentesco venivano messe a confronto con la ritrattistica contemporanea, raccolta in un progetto curato dal filosofo francese Jean-Luc Nancy.
In tempi più recenti, l’indirizzo della presidenza di Vittorio Sgarbi ha rinnovato questa felice intuizione. Il palinsesto del Mart attraversa i secoli, i maestri classici e moderni dialogano tra loro e con le opere di una collezione pubblica tra le più ricche d’Europa.
Negli ultimi anni si sono susseguite: Caravaggio. Il contemporaneo, nel 2020; Picasso, de Chirico, Dalí. Dialogo con Raffaello e Botticelli. Il suo tempo. E il nostro tempo nel 2021, Canova tra innocenza e peccato la scorsa primavera. Dal 6 dicembre 2022 al 4 giugno 2023, è la volta di Giotto e il Novecento.
Alla ricerca delle connessioni tra la storia, i grandi classici e i linguaggi del XX secolo, il Mart pone a confronto epoche distanti, offrendo nuove stratificate letture.
Giotto e il Novecento
È un’esposizione solenne e necessaria quella che il Mart dedica all’insegnamento di Giotto, il maestro che rivoluzionò la pittura medievale e che, secondo gli storici dell’arte, inaugurò l’era moderna.
Se la strada per Giotto e il Novecento è stata aperta in anni recenti da diversi significativi studi - come il catalogo della mostra curata nel 2009 da Stefan Weppelmann e Gerhard Wolf dedicata al confronto fra Rothko e Giotto, al Kunsthistorisches Institut Max Planck di Firenze e il saggio pubblicato nel 2012 da Alessandro Del Puppo su Giotto, Rimbaud, Paolo Uccello in relazione a Carrà -; la mostra non poteva non realizzarsi al Mart di Rovereto la cui Collezione annovera decine di capolavori inequivocabilmente influenzati dall’attività di Giotto e la cui attività ruota intorno al confronto tra antico e moderno.
La mostra si apre con una grande installazione immersiva che riproduce la Cappella degli Scrovegni di Padova,il capolavoro assoluto di Giotto.Una sofisticata videoproiezione, costruita partendo dalle immagini ad altissima risoluzione realizzate dall’Università di Padova e messe a disposizione dai Musei Civici di Padova, “trasporta” virtualmente i visitatori e le visitatrici del Mart all’interno del famosissimo ciclo di affreschi del XIV secolo, Patrimonio Mondiale UNESCO. Fondamentale, a questo proposito, la preziosa collaborazione con l’Assessorato alla cultura del Comune di Padova.
Nelle intenzioni della curatrice Alessandra Tiddia: “La mostra prende avvio da un portale immersivo che attraverso le proiezioni delle immagini degli affreschi della Cappella degli Scrovegni intende restituire al visitatore la suggestione di un’esperienza fondamentale per molti artisti, ovvero la visione del ciclo di affreschi. […] Varcata questa soglia si dischiude al visitatore un percorso che da Carrà giunge, attraverso il Novecento italiano, alle esperienze di Matisse, Rothko, Albers, Klein, per avviarsi verso la fine della mostra con l’installazione di James Turrell, Thyco Blue, un altro portale esperienziale, che conclude il viaggio, durato più di un secolo, attraverso le suggestioni giottesche”.
Seguendo un ordine cronologico e tematico l’esposizione prosegue tra opere di grandi autori e autrici del XX e XXI secolo accomunati dalla passione per la figura di Giotto, studiato, imitato, o preso a modello di perfezione e spiritualità.
E sopra tutto metto Giotto.
Mario Sironi
Per alcuni il richiamo è esplicito e dichiarato: è il caso, per esempio, dei grandi maestri italiani del secolo scorso che rintracciarono in Giotto il principale testimone di un’eternità alla quale guardare.
[…] faccio ritorno a forme primitive, concrete, mi sento un Giotto dei miei tempi
Carlo Carrà
Tra Metafisica, Valori plastici e Realismo Magico, i protagonisti della prima parte della mostra sono i dipinti di CarloCarrà, le pitture murali di Mario Sironi,le soluzioni plastiche di Arturo Martini, gli spazisospesi di Giorgio de Chirico,ma anche gli ideali stilistici di Gino Severini, Massimo Campigli, Achille Funi, Ubaldo Oppi.
In Giotto il senso architettonico raggiunge spazi metafisici.
Giorgio de Chirico
Suddivisa in sette sezioni, la mostra prosegue tra Atmosfere rurali e Sacre Maternità nelle quali i soggetti bucolici e le figure femminili esprimono quel richiamo e quell’idealizzazione della tradizione tipica del periodo tra le due grandi guerre. Ne sono rappresentanti in mostra, tra molti altri, Albin Egger-Lienz, Ardengo Soffici, Pompeo Borra e Tullio Garbari.
Il mito di Giotto non tramonta nel secondo dopoguerra, anzi influenza tanto i linguaggi figurativi, quanto il nuovo astrattismo. In mostra si incontrano i lavori di Gastone Celada e Lorenzo Bonechi, la sintesi formale e pura di Fausto Melotti, le geometrie senza tempo di Giorgio Morandi e la pittura astratta di Giorgio Griffa e di Serge Poliakoff.
Nelle ultime sale, l’arte più recente non è meno debitrice alla lezione medievale di quanto lo sia quella del primo novecento.
Quando vedo gli affreschi di Giotto […] percepisco immediatamente il sentimento che ne emerge, perché è nelle linee, nella composizione, nel colore.
Henri Matisse
Tanto gli europei Henri Matisse, Yves Klein e Josef Albers quanto gli statunitensi come Mark Rotko riconoscono il loro debito nei confronti di Giotto, ispiratore assoluto. In particolare, a influenzare alcuni tra gli artisti più conosciuti è il suo celebre blu.
Che cos’è il blu? È l’invisibile diventato visibile.
Yves Klein
Un colore che non è più mera tinta sull’opera, ma diventa spazio ultraterreno sul quale si affacciano le tele bucate di Lucio Fontana. L’equilibrio che i contemporanei riconoscono a Giotto e ai suoi cieli è alla base anche della spazialità delle campiture sfumate di Mark Rothko o dei quadrati di Josef Albers.
Il colore di Giotto produceva lo straordinario effetto della sua tattilità.
Mark Rothko
Lo stratificarsi di elementi iconografici insito nello studio della storia dell’arte riconosce nell’opera di Giotto una modernità astratta, una tensione spirituale e trascendentale che rivive, per esempio, nella grande installazione immersivadi James Turrell, maestro contemporaneo della luce e dei colori studioso della percezione. Tycho Blue è una stanza di puro e luminoso blu, realizzata a partire dai progetti dell’artista del 1969 e mai più riallestita.
Chiudono la mostra le installazioni di due artiste, Chiara Dynys e Tacita Dean, il cui lavoro rinnova ancora una volta il dialogo con uno dei più grandi maestri di tutti i tempi.
Il progetto
Giotto e il Novecento è curata da Alessandra Tiddia, con il contributo di numerosi studiosi e in collaborazione con i Musei Civici di Padova.
In mostra oltre 200 opere di cui una cinquantina proveniente dal patrimonio del Mart, tra cui Le figlie di Loth, di Carlo Carrà. Scelto come immagine guida della mostra, il celebre capolavoro è anche l’opera-simbolo delle collezioni museali. Nel 2019, in occasione del suo centenario, è stata riprodotta a rilievo per consentirle la fruizione anche alle persone cieche o ipovedenti.
Appartengono inoltre al Mart altre due opere di Carrà, La Carrozzella e Composizione TA (Natura morta metafisica); diverse sculture di Arturo Martini, tra cui Il poeta Cechov; otto opere di Mario Sironi, tra cui L’Astronomia e Condottiero a cavallo; duePiazze di Italiadi Giorgio de Chirico; duepaesaggi e due nature morte di Giorgio Morandi; due teatrini di Fausto Melotti; due Concetto spaziale di Lucio Fontana e Study for Homage to the Square: Still Remembered di Josef Albers. Infine opere di Pompeo Borra, Massimo Campigli, Achille Funi, Tullio Garbari, Giorgio Griffa, Renato Paresce, Alessandro Pandolfi, Serge Poliakoff, Mario Radice e preziosi materiali di archivio.
Oltre ai capolavori provenienti dal patrimonio del Mart, le opere che compongono la mostra provengono da alcune tra le più importanti collezioni pubbliche e private europee, archivi e fondazioni e gallerie. Tra le istituzioni: Gallerie degli Uffizzi – Palazzo Pitti, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Musei Vaticani, Casa Museo Boschi di Stefano, Museo Revoltella, Fondazione Magnani Rocca, Fondazione Musei Civici di Venezia, Museo del Novecento di Milano, Museo del Novecento di Firenze, Panza Collection Mendrisio, Peggy Guggenheim Collection, Tiroler Landesmuseen Innsbruck e ovviamente Musei Civici di Padova.
A testimoniare la fortuna di Giotto nell’immaginario collettivo, in mostra anche una selezione di storici materiali del marchio italiano Fila che a Giotto dedica diverse linee di prodotti: album da disegno, pastelli e pennarelli prodotti tra gli anni ’30 e ’60, sulle cui confezioni campeggia l’iconica vignetta raffigurante il giovane Giotto al cospetto del maestro Cimabue.
La mostra Giotto e il Novecento è completata da un ricco catalogo su cui hanno scritto, oltre alla curatrice: Vittorio Sgarbi, presidente del Mart, Alessandro Del Puppo, Alessio Monciatti, Alexander Auf der Heyde, Daniela Ferrari, Elena Pontiggia, Federica Luser, Sergio Marinelli, Federica Millozzi, Marta Nezzo, Mauro Pratesi, Gražina Subelytė, Nico Stringa, Peter Assmann, Sergio Marinelli, Victoria Noel-Johnson.
Sagep Edizioni.
Radio Monte Carlo è media partner della mostra.
Riferimenti e contesto storico artistico
Estratto dal testo in catalogo Arte come rivelazione: da Giotto a Rothko, di Alessandra Tiddia
La fortuna critica e visiva di Giotto, proseguita dal Trecento fino a noi, ha avuto un momento eclatante nell’Ottocentoquando l’attenzione verso questo artista aveva assunto una valenza quasi mitica, complice l’enfasi posta su alcuni episodi della vita di Giotto, come quello celeberrimo dell’incontro fra Giotto e Cimabue, divenuto un soggetto caro alla pittura di storia in Accademia e un esempio di narrazione romantica.
Fu il clima antiaccademico delle avanguardie artistiche a favorire l’allontanamento dall’aneddotica esemplare della vicenda giottesca, e a far volgere l’attenzione degli artisti del nuovo secolo sulle modalità lessicali, formali, alla ricerca di una nuova espressività, di una nuova lingua.
In un clima ancora futurista e avanguardista, nel 1916, Carlo Carrà pubblica sulle pagine della rivista “La Voce” un testo inatteso, la Parlata su Giotto, aprendo la sua ricerca allo studio di questo artista, che poi riprenderà nella monografia del 1924, edita dalla rivista “Valori Plastici”. La pittura di “quel massiccio visionario trecentista” è dunque nuovamente rivelazione per Carlo Carrà.
Nella sua arte la sintesi fra plasticismo e colore, così attuale e vicina alla sensibilità contemporanea, assume una valenza mistica, universale, perenne, che attrae molti artisti del Novecento, specie quelli usciti dall’esperienza dell’avanguardia futurista, come lo stesso Carrà, ma anche Gino Severini o Fortunato Depero, che conserva fra le sue carte d’archivio una foto Alinari con la raffigurazione del Giudizio Universale agli Scrovegni di Padova. Ma anche per Mario Sironi e Arturo Martini che elaborano, a livello rispettivamente pittorico e plastico, un linguaggio espressivo che rimedita le figure e le atmosfere giottesche, mentre Casorati le studia attentamente anche dal punto di vista cromatico, come rivelano i suoi appunti sulle cartoline degli Scrovegni conservate nell’Archivio Casorati e de Chirico è affascinato dalla concezione dello spazio nelle raffigurazione giottesche, anche di quel vuoto, oggi possiamo dire pre-metafisico, che costruisce e contribuisce alla narrazione pittorica degli affreschi giotteschi.
Oltre Oceano, ritroviamo Giotto fra le passioni di uno dei massimi esponenti dell’Astrazione come Rothko, come anche nell’ammirazione coltivata dal maestro del Realismo americano, ovvero Eduard Hopper, per il quale “l’arte che racchiude una verità fondamentale è sempre moderna. Per questo Giotto è moderno come Cézanne”. Per Hopper tutta l’arte, anche quella del passato, è “sempre moderna” perché ha qualcosa da dire a chi vive nel presente, è contemporanea all’esperienza dell’osservatore non perché accade ora ma perché racchiude la verità.
Il fascino esercitato da Giotto fu fondamentale anche per un altro dei protagonisti della contemporaneità, inventore di quel blu che prende il suo nome proprio a partire dalla rivelazione avvenuta al cospetto di alcuni pannelli monocromi nell’abside di sinistra della Basilica inferiore, all’interno della Basilica di San Francesco di Assisi, ovvero quella dedicata a San Giovanni Battista: Yves Klein ne fu molto impressionato al punto da avviare la sua ricerca esistenziale e artistica nella direzione della monocromia blu.
La mostra intende farsi racconto di queste storie e ragioni, in un itinerario che, partendo da Carrà giunge sino a noi, seguendo le tracce della grande lezione giottesca, ovvero la rivelazione del trascendente che rende visibile ai nostri occhi e alle nostre sensibilità l’invisibile.
Il percorso di mostra. Testi a parete.
La ricostruzione digitale della Cappella degli Scrovegni, basata su immagini in altissima risoluzione realizzate dall’Università di Padova e messe a disposizione dai Musei Civici, costituisce l’incipit della mostra Giotto e il Novecento, un percorso che indaga la grande fortuna critica del Maestro toscano nell’arte moderna e contemporanea.
Nei primi anni del Trecento, Giotto di Bondone (Colle di Vespignano, 1267 circa – Firenze, 1337) è chiamato a Padova ad affrescare la cappella privata della famiglia Scrovegni, dove realizza uno dei suoi maggiori capolavori: un ciclo di pitture sacre dedicate alle storie di Maria, di Cristo e dei santi Gioacchino e Anna che si snodano su tre livelli lungo le pareti, mentre la controfacciata rappresenta il Giudizio Universale e la volta è decorata con stelle e pianeti del firmamento. Un’opera straordinariamente innovativa per realismo, espressività e senso dello spazio, che anticipa un linguaggio figurativo che fiorirà più di un secolo dopo.
La sua notorietà aumenta nel corso dell’Ottocento, grazie alla diffusione delle stampe e delle fotografie che riproducono gli affreschi giotteschi e alla sua apertura al pubblico, nel 1882, dopo che la cappella era stata acquistata dal Comune. Da allora, moltissimi artisti hanno potuto visitarla, rimanendo affascinati dal blu oltremare della volta stellata, dalle architetture e dalle figure che Giotto dipinge con un nuovo senso plastico, dall’umanità espressa dai gesti e dai volti.
Nel Novecento il mito romantico di Giotto, fanciullo prodigio scoperto da Cimabue, lascia il posto a un’attenzione che si concentra sui valori formali e cromatici della sua pittura, senza dimenticare la sua intensa valenza spirituale.
Attraverso sette sezioni tematiche, la mostra ripercorre la storia di un intenso dialogo con l’arte del Maestro toscano, dalla Parlata su Giotto (1916) di Carlo Carrà alle soluzioni plastiche di Arturo Martini; dai saldi volumi delle figure dipinte da Mario Sironi e altri protagonisti della pittura murale agli spazi metafisici di Giorgio de Chirico; dalle atmosfere rurali, strettamente legate ai valori tradizionali promossi da movimenti artistici come Novecento italiano e Valori Plastici all’astrazione internazionale del secondo dopoguerra, particolarmente interessata al ruolo del colore. Più di duecento opere nelle quali possiamo rintracciare la grande lezione giottesca: la rivelazione del trascendente, la capacità di dare forma all’invisibile.
Parlare di Giotto, dipingere come Giotto
Nel 1916, in un clima ancora futurista e avanguardista, Carlo Carrà pubblica sulle pagine della rivista “La Voce” un testo intitolato Parlata su Giotto, con cui inaugura il suo dialogo con l’arte degli antichi Maestri. Lo studio dell’arte del Tre e Quattrocento rappresenta, non solo per lui, una tappa fondamentale nella ricerca di un linguaggio moderno e, allo stesso tempo, ricco di rimandi al passato. Tra “ritorno all’ordine”, moderna classicità e primitivismo, nell’arte italiana del primo dopoguerra affiora l’eco della pittura giottesca. È ancora Carrà, nella sua monografia del 1924 edita da Valori Plastici, a sottolineare l’attualità dell’opera del Maestro toscano. I dipinti di questo periodo, come Le figlie di Loth (1919) e Pino sul mare(1921), sembrano aver assorbito le qualità costruttive e sintetiche dell’arte di Giotto.
Anche Mario Sironi e Arturo Martini elaborano, a livello rispettivamente pittorico e plastico, un linguaggio espressivo che rimedita le atmosfere giottesche. Le monumentali figure dipinte da Sironi (Il pastore, 1932) sono eredi del senso del volume che contraddistingue gli affreschi di Giotto a Padova e a Firenze; mentre le sue opere policentriche, come Composizione murale(1934), dove figure e oggetti sono inquadrati da diversi punti di vista accostati o sovrapposti, ricordano anch’esse la pittura medioevale.
La semplificazione di sapore arcaico delle sculture di Martini si rifà alla grande tradizione italica che dagli etruschi arriva fino all’età di Giotto. In alcune delle sue ceramiche si impone il tema dello spazio architettonico: le piccole figure sono ambientate all’interno di in una stanza, con frammenti di architettura che ricordano quinte teatrali.
Queste nuove sensibilità preparano il campo alle grandi celebrazioni del sesto centenario della morte di Giotto, culminate nella mostra del 1937 a Firenze, dove la sua arte viene assunta come modello e testimone della grandezza italiana nel passato e nel presente.
La rinascita della pittura murale
Nel 1933 Sironi redige il Manifesto della pittura murale, sottoscritto da Carrà, Campigli e Funi, dove si afferma che “la pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull'immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori.”
La pittura murale dell’Italia fascista si rifà alle qualità narrative dei grandi cicli decorativi giotteschi e risponde all’intento di veicolare un messaggio ed esprimere chiaramente i valori della nuova società. Lo si può vedere negli affreschi realizzati da Sironi a Roma, nell’Aula magna dell’Università La Sapienza, alla quale si riferiscono i cartoni preparatori qui esposti, e nei bozzetti di Ubaldo Oppi, che nel 1938 partecipa al concorso per la decorazione dell’atrio del Liviano, la nuova sede della Facoltà di Lettere a Padova, intitolata allo storico romano Tito Livio. Il soggetto dell’opera è la continuità tra cultura romana e cultura moderna, un tema caro alla retorica fascista. La riqualificazione della sede dell’università, fortemente voluta all’inizio del decennio dal rettore Carlo Anti, coinvolge alcuni dei protagonisti della rinascita della decorazione murale, come Massimo Campigli, che realizza gli affreschi del grande atrio disegnato dall’architetto Gio Ponti, e Achille Funi e Ferruccio Ferrazzi che decorano, rispettivamente, la Sala di Medicina e quella di Scienze a Palazzo del Bo.
Oltre all’affresco, il muralismo del ventennio riscopre l’uso del mosaico, una tecnica che si presta a decorare con forme sintetiche e colori brillanti ampie superfici e che ha nell’arte romana e bizantina i suoi esempi più fulgidi.
Tra Metafisica e Valori plastici
Se nelle opere di Carrà, Sironi e Martini si possono osservare evidenti affinità formali con la pittura giottesca, il rapporto di Giorgio de Chirico con il Maestro toscano riguarda, invece, le atmosfere metafisiche delle sue costruzioni architettoniche.
Gli affreschi di Giotto nelle cappelle Bardi e Peruzzi della Chiesa di Santa Croce a Firenze sono strettamente collegati alla nascita della Metafisica. Come ricorda de Chirico, egli si trovava in quella piazza quando ebbe la visione che gli ispirò L’enigma di un pomeriggio d’autunno (1910), un’opera che presenta elementi riconducibili alle Storie di San Francesco della Cappella Bardi e che è la prima delle sue celebri Piazze d’Italia. In questi ambienti silenziosi e senza tempo, scanditi da portici e finestre che evidenziano le linee prospettiche, riecheggiano le “scatole spaziali” degli affreschi giotteschi. Nel saggio del 1920 Il senso architettonico nella pittura antica, scrivendo di Giotto,de Chirico sottolinea che “Tutte le aperture (porte, arcate, finestre) che accompagnano le sue figure lasciano presentire il mistero cosmico”.
Questo mistero metafisico pervade anche le architetture rappresentate nei dipinti di Arturo Nathan, Renato Paresce, Gianfilippo Usellini e Gigiotti Zanini, mentre i paesaggi e le figure di Carlo Bonacina, Pompeo Borra, Edita Broglio, Ubaldo Oppi, Severo Pozzati e Alberto Salietti sono accomunati da una semplificazione formale di gusto primitivista. Questi e altri artisti presenti in questa sezione della mostra fanno parte di Novecento Italiano o partecipano all’ambiente culturale di Valori Plastici, rivista fondata da Mario Broglio che anima il dibattito artistico italiano tra il 1918 e il 1922.
Atmosfere rurali
I soggetti bucolici sono assai diffusi nella pittura italiana tra le due guerre e riflettono un’idealizzazione della vita contadina e di un ambiente semplice, genuino, rassicurante, espressione di una tradizione millenaria. In questo contesto è ambientato anche il mito di Giotto, la narrazione romantica del pastorello che ritrae le pecore mostrando un innato talento al suo futuro maestro Cimabue. Secondo tale concezione, la creatività artistica sboccia naturalmente in un ambiente agreste e lo stile pittorico di Giotto viene ingenuamente interpretato come un linguaggio istintivo e popolare, adatto quindi a rappresentare soggetti di vita rurale come quelli che vediamo nelle opere di Gisberto Ceracchini, Giuseppe Gorni, Carlo Minelli, Pietro Morando.
Alla sintesi e alla volumetria della pittura giottesca si ispirano, in particolare, le grandi e massicce figure dipinte da Giuseppe Capogrossi, Albin Egger-Lienz, Italo Mus e Pietro Gaudenzi, quest’ultimo vincitore del Premio Cremona, nel 1940, con il trittico intitolato Il grano. L’artista interpreta il tema di quell’edizione del concorso artistico, La battaglia del grano, alludendo all’autarchia agraria promossa dal regime fascista e rappresentando i contadini che zappano la terra su cui viene coltivato il cereale e le donne che portano il pane cotto nel forno del paese, frutto di un lungo e faticoso lavoro.
Sacre maternità
Nelle atmosfere rurali predilette da questi artisti sono ambientate anche scene di vita che hanno come protagoniste figure femminili portatrici di valori tradizionali, primo fra tutti quello della maternità. Sono madri contadine e popolane, come la giovane donna dipinta da Ardengo Soffici con cromie accese, che sembra venirci incontro al ritorno dai campi con il suo bambino in braccio. O come la donna vicino al pozzo, nel quadro di Pompeo Borra, dove una composizione rigorosa ed essenziale ordina le architetture, i mobili e gli oggetti come nella pittura giottesca.
In queste ambientazioni spira già un’aria di sacralità che esalta il valore dell’amore materno, la dignità e la dolcezza di queste madri esemplari, tanto che esse non ci appaiono molto diverse dalle Madonne raffigurate da Egger-Lienz e Sironi.
Troviamo riferimenti più espliciti all’iconografia tradizionale della sacra maternità nella Madonna della Pace (1927) di Tullio Garbari che, con il suo tipico stile primitivista e naïf, rappresenta la Vergine seduta su un albero di mele dal tronco contorto, simile all’albero su cui Giovanni Segantini aveva collocato il suo Angelo della vita. Intorno a lei, gli emblemi dell’Eucarestia e quelli tipicamente mariani come il giglio e la rosa nel vaso trasparente, che rimanda all’idea di purezza virginale. Anche qui l’ambientazione è agreste: all’orizzonte si riconoscono le montagne della Valsugana, terra d’origine di Garbari, una mucca che allatta e un uomo che miete il grano, rispettivamente simboli di maternità e prosperità.
Echi giotteschi tra figurazione e astrazione
La suggestione della pittura di Giotto si riconosce anche nelle opere della seconda metà del Novecento, caratterizzate da un linguaggio figurativo oppure astratto.
I dipinti di Gastone Celada e Lorenzo Bonechi spiccano per il loro carattere neo-giottesco, su cui si innestano variazioni ironiche (si veda I contrasti, 1951, di Celada) o cromatiche.
Echi giotteschi si possono rintracciare anche nella purezza e nella sintesi delle forme plastiche di Fausto Melotti, con la sua interpretazione moderna ed essenziale dell’arte sacra (Cena in Emmaus, 1933) e i suoi “teatrini” di terracotta abitati da piccole figure appena abbozzate, nonchè nelle geometrie che scandiscono i paesaggi e le nature morte di Giorgio Morandi.
Infine, le opere di Giorgio Griffa e di Serge Poliakoff ci introducono a una pittura che ha definitivamente abbandonato le forme della realtà ma che, non per questo, ha smesso di trarre ispirazione dall’arte antica. I colori diluiti che impregnano le tele del primo sono il frutto di una riflessione sulla tradizione dell’affresco, mentre il pittore di origini russe ha dichiarato apertamente il suo amore per la pittura medioevale, dalla quale ha tratto molti insegnamenti di carattere compositivo.
Un colore trascendente: il blu di Giotto nella contemporaneità
Parole di ammirazione nei confronti della pittura giottesca sono state spese anche da altri protagonisti dell’arte internazionale del Novecento come Josef Albers, Yves Klein, Henri Matisse, Mark Rothko.
Matisse visita gli affreschi padovani in più di un’occasione nei primi decenni del secolo, riconoscendovi un’imprescindibile lezione formale. Il ritmo, il senso del colore, la composizione basata su linee e forme semplici sono caratteri fondanti di una pittura che per l’artista francese deve rappresentare soprattutto un piacere dei sensi. Tale piacevolezza contraddistingue i collage di carte colorate con cui Matisse realizza Jazz, un libro d’artista edito da Tériade nel 1947 che ricorda il gusto per l’improvvisazione di quel genere musicale. Lo sfondo blu trapunto di stelle di una delle sue più celebri illustrazioni, Icaro, discende direttamente dalla volta degli Scrovegni.
Il blu su cui si concentra la ricerca di Klein, invece, nasce dalla rivelazione avvenuta al cospetto di alcuni pannelli monocromi nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Un blu che rappresenta l’infinito: quello spazio ultraterreno sul quale si affacciano anche le tele bucate da Lucio Fontana. Un colore capace di rendere visibile l’invisibile, proprio come riesce a fare l’intera tavolozza della pittura di Rothko, con le sue campiture che sfumano l’una nell’altra dando origine a una spazialità indefinita e fluttuante. Una dimensione trascendente espressa anche dall’installazione luminosa di Turrell e dalle opere di altri artisti contemporanei che, ancora oggi, rinnovano il dialogo con l’arte di Giotto.
Il rapporto tra antico e contemporaneo è da sempre al centro dell’indagine del Mart di Rovereto. La struttura stessa del museo celebra le forme classiche del Panteon, rievocato nelle forme e nelle proporzioni della cupola, e dell’impluvium romano che caratterizza la fontana posta sotto la cupola stessa.
La proposta espositiva basata su confronti e parallelismi è una delle cifre stilistiche riconosciute al museo di Rovereto che già nel 2013 proponeva una straordinaria mostra su Antonello da Messina,a cura degli studiosi Ferdinando Bologna e Federico De Melis. Per l’occasione, le opere del maestro quattrocentesco venivano messe a confronto con la ritrattistica contemporanea, raccolta in un progetto curato dal filosofo francese Jean-Luc Nancy.
In tempi più recenti, l’indirizzo della presidenza di Vittorio Sgarbi ha rinnovato questa felice intuizione. Il palinsesto del Mart attraversa i secoli, i maestri classici e moderni dialogano tra loro e con le opere di una collezione pubblica tra le più ricche d’Europa.
Negli ultimi anni si sono susseguite: Caravaggio. Il contemporaneo, nel 2020; Picasso, de Chirico, Dalí. Dialogo con Raffaello e Botticelli. Il suo tempo. E il nostro tempo nel 2021, Canova tra innocenza e peccato la scorsa primavera. Dal 6 dicembre 2022 al 4 giugno 2023, è la volta di Giotto e il Novecento.
Alla ricerca delle connessioni tra la storia, i grandi classici e i linguaggi del XX secolo, il Mart pone a confronto epoche distanti, offrendo nuove stratificate letture.
Giotto e il Novecento
È un’esposizione solenne e necessaria quella che il Mart dedica all’insegnamento di Giotto, il maestro che rivoluzionò la pittura medievale e che, secondo gli storici dell’arte, inaugurò l’era moderna.
Se la strada per Giotto e il Novecento è stata aperta in anni recenti da diversi significativi studi - come il catalogo della mostra curata nel 2009 da Stefan Weppelmann e Gerhard Wolf dedicata al confronto fra Rothko e Giotto, al Kunsthistorisches Institut Max Planck di Firenze e il saggio pubblicato nel 2012 da Alessandro Del Puppo su Giotto, Rimbaud, Paolo Uccello in relazione a Carrà -; la mostra non poteva non realizzarsi al Mart di Rovereto la cui Collezione annovera decine di capolavori inequivocabilmente influenzati dall’attività di Giotto e la cui attività ruota intorno al confronto tra antico e moderno.
La mostra si apre con una grande installazione immersiva che riproduce la Cappella degli Scrovegni di Padova,il capolavoro assoluto di Giotto.Una sofisticata videoproiezione, costruita partendo dalle immagini ad altissima risoluzione realizzate dall’Università di Padova e messe a disposizione dai Musei Civici di Padova, “trasporta” virtualmente i visitatori e le visitatrici del Mart all’interno del famosissimo ciclo di affreschi del XIV secolo, Patrimonio Mondiale UNESCO. Fondamentale, a questo proposito, la preziosa collaborazione con l’Assessorato alla cultura del Comune di Padova.
Nelle intenzioni della curatrice Alessandra Tiddia: “La mostra prende avvio da un portale immersivo che attraverso le proiezioni delle immagini degli affreschi della Cappella degli Scrovegni intende restituire al visitatore la suggestione di un’esperienza fondamentale per molti artisti, ovvero la visione del ciclo di affreschi. […] Varcata questa soglia si dischiude al visitatore un percorso che da Carrà giunge, attraverso il Novecento italiano, alle esperienze di Matisse, Rothko, Albers, Klein, per avviarsi verso la fine della mostra con l’installazione di James Turrell, Thyco Blue, un altro portale esperienziale, che conclude il viaggio, durato più di un secolo, attraverso le suggestioni giottesche”.
Seguendo un ordine cronologico e tematico l’esposizione prosegue tra opere di grandi autori e autrici del XX e XXI secolo accomunati dalla passione per la figura di Giotto, studiato, imitato, o preso a modello di perfezione e spiritualità.
E sopra tutto metto Giotto.
Mario Sironi
Per alcuni il richiamo è esplicito e dichiarato: è il caso, per esempio, dei grandi maestri italiani del secolo scorso che rintracciarono in Giotto il principale testimone di un’eternità alla quale guardare.
[…] faccio ritorno a forme primitive, concrete, mi sento un Giotto dei miei tempi
Carlo Carrà
Tra Metafisica, Valori plastici e Realismo Magico, i protagonisti della prima parte della mostra sono i dipinti di CarloCarrà, le pitture murali di Mario Sironi,le soluzioni plastiche di Arturo Martini, gli spazisospesi di Giorgio de Chirico,ma anche gli ideali stilistici di Gino Severini, Massimo Campigli, Achille Funi, Ubaldo Oppi.
In Giotto il senso architettonico raggiunge spazi metafisici.
Giorgio de Chirico
Suddivisa in sette sezioni, la mostra prosegue tra Atmosfere rurali e Sacre Maternità nelle quali i soggetti bucolici e le figure femminili esprimono quel richiamo e quell’idealizzazione della tradizione tipica del periodo tra le due grandi guerre. Ne sono rappresentanti in mostra, tra molti altri, Albin Egger-Lienz, Ardengo Soffici, Pompeo Borra e Tullio Garbari.
Il mito di Giotto non tramonta nel secondo dopoguerra, anzi influenza tanto i linguaggi figurativi, quanto il nuovo astrattismo. In mostra si incontrano i lavori di Gastone Celada e Lorenzo Bonechi, la sintesi formale e pura di Fausto Melotti, le geometrie senza tempo di Giorgio Morandi e la pittura astratta di Giorgio Griffa e di Serge Poliakoff.
Nelle ultime sale, l’arte più recente non è meno debitrice alla lezione medievale di quanto lo sia quella del primo novecento.
Quando vedo gli affreschi di Giotto […] percepisco immediatamente il sentimento che ne emerge, perché è nelle linee, nella composizione, nel colore.
Henri Matisse
Tanto gli europei Henri Matisse, Yves Klein e Josef Albers quanto gli statunitensi come Mark Rotko riconoscono il loro debito nei confronti di Giotto, ispiratore assoluto. In particolare, a influenzare alcuni tra gli artisti più conosciuti è il suo celebre blu.
Che cos’è il blu? È l’invisibile diventato visibile.
Yves Klein
Un colore che non è più mera tinta sull’opera, ma diventa spazio ultraterreno sul quale si affacciano le tele bucate di Lucio Fontana. L’equilibrio che i contemporanei riconoscono a Giotto e ai suoi cieli è alla base anche della spazialità delle campiture sfumate di Mark Rothko o dei quadrati di Josef Albers.
Il colore di Giotto produceva lo straordinario effetto della sua tattilità.
Mark Rothko
Lo stratificarsi di elementi iconografici insito nello studio della storia dell’arte riconosce nell’opera di Giotto una modernità astratta, una tensione spirituale e trascendentale che rivive, per esempio, nella grande installazione immersivadi James Turrell, maestro contemporaneo della luce e dei colori studioso della percezione. Tycho Blue è una stanza di puro e luminoso blu, realizzata a partire dai progetti dell’artista del 1969 e mai più riallestita.
Chiudono la mostra le installazioni di due artiste, Chiara Dynys e Tacita Dean, il cui lavoro rinnova ancora una volta il dialogo con uno dei più grandi maestri di tutti i tempi.
Il progetto
Giotto e il Novecento è curata da Alessandra Tiddia, con il contributo di numerosi studiosi e in collaborazione con i Musei Civici di Padova.
In mostra oltre 200 opere di cui una cinquantina proveniente dal patrimonio del Mart, tra cui Le figlie di Loth, di Carlo Carrà. Scelto come immagine guida della mostra, il celebre capolavoro è anche l’opera-simbolo delle collezioni museali. Nel 2019, in occasione del suo centenario, è stata riprodotta a rilievo per consentirle la fruizione anche alle persone cieche o ipovedenti.
Appartengono inoltre al Mart altre due opere di Carrà, La Carrozzella e Composizione TA (Natura morta metafisica); diverse sculture di Arturo Martini, tra cui Il poeta Cechov; otto opere di Mario Sironi, tra cui L’Astronomia e Condottiero a cavallo; duePiazze di Italiadi Giorgio de Chirico; duepaesaggi e due nature morte di Giorgio Morandi; due teatrini di Fausto Melotti; due Concetto spaziale di Lucio Fontana e Study for Homage to the Square: Still Remembered di Josef Albers. Infine opere di Pompeo Borra, Massimo Campigli, Achille Funi, Tullio Garbari, Giorgio Griffa, Renato Paresce, Alessandro Pandolfi, Serge Poliakoff, Mario Radice e preziosi materiali di archivio.
Oltre ai capolavori provenienti dal patrimonio del Mart, le opere che compongono la mostra provengono da alcune tra le più importanti collezioni pubbliche e private europee, archivi e fondazioni e gallerie. Tra le istituzioni: Gallerie degli Uffizzi – Palazzo Pitti, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Musei Vaticani, Casa Museo Boschi di Stefano, Museo Revoltella, Fondazione Magnani Rocca, Fondazione Musei Civici di Venezia, Museo del Novecento di Milano, Museo del Novecento di Firenze, Panza Collection Mendrisio, Peggy Guggenheim Collection, Tiroler Landesmuseen Innsbruck e ovviamente Musei Civici di Padova.
A testimoniare la fortuna di Giotto nell’immaginario collettivo, in mostra anche una selezione di storici materiali del marchio italiano Fila che a Giotto dedica diverse linee di prodotti: album da disegno, pastelli e pennarelli prodotti tra gli anni ’30 e ’60, sulle cui confezioni campeggia l’iconica vignetta raffigurante il giovane Giotto al cospetto del maestro Cimabue.
La mostra Giotto e il Novecento è completata da un ricco catalogo su cui hanno scritto, oltre alla curatrice: Vittorio Sgarbi, presidente del Mart, Alessandro Del Puppo, Alessio Monciatti, Alexander Auf der Heyde, Daniela Ferrari, Elena Pontiggia, Federica Luser, Sergio Marinelli, Federica Millozzi, Marta Nezzo, Mauro Pratesi, Gražina Subelytė, Nico Stringa, Peter Assmann, Sergio Marinelli, Victoria Noel-Johnson.
Sagep Edizioni.
Radio Monte Carlo è media partner della mostra.
Riferimenti e contesto storico artistico
Estratto dal testo in catalogo Arte come rivelazione: da Giotto a Rothko, di Alessandra Tiddia
La fortuna critica e visiva di Giotto, proseguita dal Trecento fino a noi, ha avuto un momento eclatante nell’Ottocentoquando l’attenzione verso questo artista aveva assunto una valenza quasi mitica, complice l’enfasi posta su alcuni episodi della vita di Giotto, come quello celeberrimo dell’incontro fra Giotto e Cimabue, divenuto un soggetto caro alla pittura di storia in Accademia e un esempio di narrazione romantica.
Fu il clima antiaccademico delle avanguardie artistiche a favorire l’allontanamento dall’aneddotica esemplare della vicenda giottesca, e a far volgere l’attenzione degli artisti del nuovo secolo sulle modalità lessicali, formali, alla ricerca di una nuova espressività, di una nuova lingua.
In un clima ancora futurista e avanguardista, nel 1916, Carlo Carrà pubblica sulle pagine della rivista “La Voce” un testo inatteso, la Parlata su Giotto, aprendo la sua ricerca allo studio di questo artista, che poi riprenderà nella monografia del 1924, edita dalla rivista “Valori Plastici”. La pittura di “quel massiccio visionario trecentista” è dunque nuovamente rivelazione per Carlo Carrà.
Nella sua arte la sintesi fra plasticismo e colore, così attuale e vicina alla sensibilità contemporanea, assume una valenza mistica, universale, perenne, che attrae molti artisti del Novecento, specie quelli usciti dall’esperienza dell’avanguardia futurista, come lo stesso Carrà, ma anche Gino Severini o Fortunato Depero, che conserva fra le sue carte d’archivio una foto Alinari con la raffigurazione del Giudizio Universale agli Scrovegni di Padova. Ma anche per Mario Sironi e Arturo Martini che elaborano, a livello rispettivamente pittorico e plastico, un linguaggio espressivo che rimedita le figure e le atmosfere giottesche, mentre Casorati le studia attentamente anche dal punto di vista cromatico, come rivelano i suoi appunti sulle cartoline degli Scrovegni conservate nell’Archivio Casorati e de Chirico è affascinato dalla concezione dello spazio nelle raffigurazione giottesche, anche di quel vuoto, oggi possiamo dire pre-metafisico, che costruisce e contribuisce alla narrazione pittorica degli affreschi giotteschi.
Oltre Oceano, ritroviamo Giotto fra le passioni di uno dei massimi esponenti dell’Astrazione come Rothko, come anche nell’ammirazione coltivata dal maestro del Realismo americano, ovvero Eduard Hopper, per il quale “l’arte che racchiude una verità fondamentale è sempre moderna. Per questo Giotto è moderno come Cézanne”. Per Hopper tutta l’arte, anche quella del passato, è “sempre moderna” perché ha qualcosa da dire a chi vive nel presente, è contemporanea all’esperienza dell’osservatore non perché accade ora ma perché racchiude la verità.
Il fascino esercitato da Giotto fu fondamentale anche per un altro dei protagonisti della contemporaneità, inventore di quel blu che prende il suo nome proprio a partire dalla rivelazione avvenuta al cospetto di alcuni pannelli monocromi nell’abside di sinistra della Basilica inferiore, all’interno della Basilica di San Francesco di Assisi, ovvero quella dedicata a San Giovanni Battista: Yves Klein ne fu molto impressionato al punto da avviare la sua ricerca esistenziale e artistica nella direzione della monocromia blu.
La mostra intende farsi racconto di queste storie e ragioni, in un itinerario che, partendo da Carrà giunge sino a noi, seguendo le tracce della grande lezione giottesca, ovvero la rivelazione del trascendente che rende visibile ai nostri occhi e alle nostre sensibilità l’invisibile.
Il percorso di mostra. Testi a parete.
La ricostruzione digitale della Cappella degli Scrovegni, basata su immagini in altissima risoluzione realizzate dall’Università di Padova e messe a disposizione dai Musei Civici, costituisce l’incipit della mostra Giotto e il Novecento, un percorso che indaga la grande fortuna critica del Maestro toscano nell’arte moderna e contemporanea.
Nei primi anni del Trecento, Giotto di Bondone (Colle di Vespignano, 1267 circa – Firenze, 1337) è chiamato a Padova ad affrescare la cappella privata della famiglia Scrovegni, dove realizza uno dei suoi maggiori capolavori: un ciclo di pitture sacre dedicate alle storie di Maria, di Cristo e dei santi Gioacchino e Anna che si snodano su tre livelli lungo le pareti, mentre la controfacciata rappresenta il Giudizio Universale e la volta è decorata con stelle e pianeti del firmamento. Un’opera straordinariamente innovativa per realismo, espressività e senso dello spazio, che anticipa un linguaggio figurativo che fiorirà più di un secolo dopo.
La sua notorietà aumenta nel corso dell’Ottocento, grazie alla diffusione delle stampe e delle fotografie che riproducono gli affreschi giotteschi e alla sua apertura al pubblico, nel 1882, dopo che la cappella era stata acquistata dal Comune. Da allora, moltissimi artisti hanno potuto visitarla, rimanendo affascinati dal blu oltremare della volta stellata, dalle architetture e dalle figure che Giotto dipinge con un nuovo senso plastico, dall’umanità espressa dai gesti e dai volti.
Nel Novecento il mito romantico di Giotto, fanciullo prodigio scoperto da Cimabue, lascia il posto a un’attenzione che si concentra sui valori formali e cromatici della sua pittura, senza dimenticare la sua intensa valenza spirituale.
Attraverso sette sezioni tematiche, la mostra ripercorre la storia di un intenso dialogo con l’arte del Maestro toscano, dalla Parlata su Giotto (1916) di Carlo Carrà alle soluzioni plastiche di Arturo Martini; dai saldi volumi delle figure dipinte da Mario Sironi e altri protagonisti della pittura murale agli spazi metafisici di Giorgio de Chirico; dalle atmosfere rurali, strettamente legate ai valori tradizionali promossi da movimenti artistici come Novecento italiano e Valori Plastici all’astrazione internazionale del secondo dopoguerra, particolarmente interessata al ruolo del colore. Più di duecento opere nelle quali possiamo rintracciare la grande lezione giottesca: la rivelazione del trascendente, la capacità di dare forma all’invisibile.
Parlare di Giotto, dipingere come Giotto
Nel 1916, in un clima ancora futurista e avanguardista, Carlo Carrà pubblica sulle pagine della rivista “La Voce” un testo intitolato Parlata su Giotto, con cui inaugura il suo dialogo con l’arte degli antichi Maestri. Lo studio dell’arte del Tre e Quattrocento rappresenta, non solo per lui, una tappa fondamentale nella ricerca di un linguaggio moderno e, allo stesso tempo, ricco di rimandi al passato. Tra “ritorno all’ordine”, moderna classicità e primitivismo, nell’arte italiana del primo dopoguerra affiora l’eco della pittura giottesca. È ancora Carrà, nella sua monografia del 1924 edita da Valori Plastici, a sottolineare l’attualità dell’opera del Maestro toscano. I dipinti di questo periodo, come Le figlie di Loth (1919) e Pino sul mare(1921), sembrano aver assorbito le qualità costruttive e sintetiche dell’arte di Giotto.
Anche Mario Sironi e Arturo Martini elaborano, a livello rispettivamente pittorico e plastico, un linguaggio espressivo che rimedita le atmosfere giottesche. Le monumentali figure dipinte da Sironi (Il pastore, 1932) sono eredi del senso del volume che contraddistingue gli affreschi di Giotto a Padova e a Firenze; mentre le sue opere policentriche, come Composizione murale(1934), dove figure e oggetti sono inquadrati da diversi punti di vista accostati o sovrapposti, ricordano anch’esse la pittura medioevale.
La semplificazione di sapore arcaico delle sculture di Martini si rifà alla grande tradizione italica che dagli etruschi arriva fino all’età di Giotto. In alcune delle sue ceramiche si impone il tema dello spazio architettonico: le piccole figure sono ambientate all’interno di in una stanza, con frammenti di architettura che ricordano quinte teatrali.
Queste nuove sensibilità preparano il campo alle grandi celebrazioni del sesto centenario della morte di Giotto, culminate nella mostra del 1937 a Firenze, dove la sua arte viene assunta come modello e testimone della grandezza italiana nel passato e nel presente.
La rinascita della pittura murale
Nel 1933 Sironi redige il Manifesto della pittura murale, sottoscritto da Carrà, Campigli e Funi, dove si afferma che “la pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull'immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori.”
La pittura murale dell’Italia fascista si rifà alle qualità narrative dei grandi cicli decorativi giotteschi e risponde all’intento di veicolare un messaggio ed esprimere chiaramente i valori della nuova società. Lo si può vedere negli affreschi realizzati da Sironi a Roma, nell’Aula magna dell’Università La Sapienza, alla quale si riferiscono i cartoni preparatori qui esposti, e nei bozzetti di Ubaldo Oppi, che nel 1938 partecipa al concorso per la decorazione dell’atrio del Liviano, la nuova sede della Facoltà di Lettere a Padova, intitolata allo storico romano Tito Livio. Il soggetto dell’opera è la continuità tra cultura romana e cultura moderna, un tema caro alla retorica fascista. La riqualificazione della sede dell’università, fortemente voluta all’inizio del decennio dal rettore Carlo Anti, coinvolge alcuni dei protagonisti della rinascita della decorazione murale, come Massimo Campigli, che realizza gli affreschi del grande atrio disegnato dall’architetto Gio Ponti, e Achille Funi e Ferruccio Ferrazzi che decorano, rispettivamente, la Sala di Medicina e quella di Scienze a Palazzo del Bo.
Oltre all’affresco, il muralismo del ventennio riscopre l’uso del mosaico, una tecnica che si presta a decorare con forme sintetiche e colori brillanti ampie superfici e che ha nell’arte romana e bizantina i suoi esempi più fulgidi.
Tra Metafisica e Valori plastici
Se nelle opere di Carrà, Sironi e Martini si possono osservare evidenti affinità formali con la pittura giottesca, il rapporto di Giorgio de Chirico con il Maestro toscano riguarda, invece, le atmosfere metafisiche delle sue costruzioni architettoniche.
Gli affreschi di Giotto nelle cappelle Bardi e Peruzzi della Chiesa di Santa Croce a Firenze sono strettamente collegati alla nascita della Metafisica. Come ricorda de Chirico, egli si trovava in quella piazza quando ebbe la visione che gli ispirò L’enigma di un pomeriggio d’autunno (1910), un’opera che presenta elementi riconducibili alle Storie di San Francesco della Cappella Bardi e che è la prima delle sue celebri Piazze d’Italia. In questi ambienti silenziosi e senza tempo, scanditi da portici e finestre che evidenziano le linee prospettiche, riecheggiano le “scatole spaziali” degli affreschi giotteschi. Nel saggio del 1920 Il senso architettonico nella pittura antica, scrivendo di Giotto,de Chirico sottolinea che “Tutte le aperture (porte, arcate, finestre) che accompagnano le sue figure lasciano presentire il mistero cosmico”.
Questo mistero metafisico pervade anche le architetture rappresentate nei dipinti di Arturo Nathan, Renato Paresce, Gianfilippo Usellini e Gigiotti Zanini, mentre i paesaggi e le figure di Carlo Bonacina, Pompeo Borra, Edita Broglio, Ubaldo Oppi, Severo Pozzati e Alberto Salietti sono accomunati da una semplificazione formale di gusto primitivista. Questi e altri artisti presenti in questa sezione della mostra fanno parte di Novecento Italiano o partecipano all’ambiente culturale di Valori Plastici, rivista fondata da Mario Broglio che anima il dibattito artistico italiano tra il 1918 e il 1922.
Atmosfere rurali
I soggetti bucolici sono assai diffusi nella pittura italiana tra le due guerre e riflettono un’idealizzazione della vita contadina e di un ambiente semplice, genuino, rassicurante, espressione di una tradizione millenaria. In questo contesto è ambientato anche il mito di Giotto, la narrazione romantica del pastorello che ritrae le pecore mostrando un innato talento al suo futuro maestro Cimabue. Secondo tale concezione, la creatività artistica sboccia naturalmente in un ambiente agreste e lo stile pittorico di Giotto viene ingenuamente interpretato come un linguaggio istintivo e popolare, adatto quindi a rappresentare soggetti di vita rurale come quelli che vediamo nelle opere di Gisberto Ceracchini, Giuseppe Gorni, Carlo Minelli, Pietro Morando.
Alla sintesi e alla volumetria della pittura giottesca si ispirano, in particolare, le grandi e massicce figure dipinte da Giuseppe Capogrossi, Albin Egger-Lienz, Italo Mus e Pietro Gaudenzi, quest’ultimo vincitore del Premio Cremona, nel 1940, con il trittico intitolato Il grano. L’artista interpreta il tema di quell’edizione del concorso artistico, La battaglia del grano, alludendo all’autarchia agraria promossa dal regime fascista e rappresentando i contadini che zappano la terra su cui viene coltivato il cereale e le donne che portano il pane cotto nel forno del paese, frutto di un lungo e faticoso lavoro.
Sacre maternità
Nelle atmosfere rurali predilette da questi artisti sono ambientate anche scene di vita che hanno come protagoniste figure femminili portatrici di valori tradizionali, primo fra tutti quello della maternità. Sono madri contadine e popolane, come la giovane donna dipinta da Ardengo Soffici con cromie accese, che sembra venirci incontro al ritorno dai campi con il suo bambino in braccio. O come la donna vicino al pozzo, nel quadro di Pompeo Borra, dove una composizione rigorosa ed essenziale ordina le architetture, i mobili e gli oggetti come nella pittura giottesca.
In queste ambientazioni spira già un’aria di sacralità che esalta il valore dell’amore materno, la dignità e la dolcezza di queste madri esemplari, tanto che esse non ci appaiono molto diverse dalle Madonne raffigurate da Egger-Lienz e Sironi.
Troviamo riferimenti più espliciti all’iconografia tradizionale della sacra maternità nella Madonna della Pace (1927) di Tullio Garbari che, con il suo tipico stile primitivista e naïf, rappresenta la Vergine seduta su un albero di mele dal tronco contorto, simile all’albero su cui Giovanni Segantini aveva collocato il suo Angelo della vita. Intorno a lei, gli emblemi dell’Eucarestia e quelli tipicamente mariani come il giglio e la rosa nel vaso trasparente, che rimanda all’idea di purezza virginale. Anche qui l’ambientazione è agreste: all’orizzonte si riconoscono le montagne della Valsugana, terra d’origine di Garbari, una mucca che allatta e un uomo che miete il grano, rispettivamente simboli di maternità e prosperità.
Echi giotteschi tra figurazione e astrazione
La suggestione della pittura di Giotto si riconosce anche nelle opere della seconda metà del Novecento, caratterizzate da un linguaggio figurativo oppure astratto.
I dipinti di Gastone Celada e Lorenzo Bonechi spiccano per il loro carattere neo-giottesco, su cui si innestano variazioni ironiche (si veda I contrasti, 1951, di Celada) o cromatiche.
Echi giotteschi si possono rintracciare anche nella purezza e nella sintesi delle forme plastiche di Fausto Melotti, con la sua interpretazione moderna ed essenziale dell’arte sacra (Cena in Emmaus, 1933) e i suoi “teatrini” di terracotta abitati da piccole figure appena abbozzate, nonchè nelle geometrie che scandiscono i paesaggi e le nature morte di Giorgio Morandi.
Infine, le opere di Giorgio Griffa e di Serge Poliakoff ci introducono a una pittura che ha definitivamente abbandonato le forme della realtà ma che, non per questo, ha smesso di trarre ispirazione dall’arte antica. I colori diluiti che impregnano le tele del primo sono il frutto di una riflessione sulla tradizione dell’affresco, mentre il pittore di origini russe ha dichiarato apertamente il suo amore per la pittura medioevale, dalla quale ha tratto molti insegnamenti di carattere compositivo.
Un colore trascendente: il blu di Giotto nella contemporaneità
Parole di ammirazione nei confronti della pittura giottesca sono state spese anche da altri protagonisti dell’arte internazionale del Novecento come Josef Albers, Yves Klein, Henri Matisse, Mark Rothko.
Matisse visita gli affreschi padovani in più di un’occasione nei primi decenni del secolo, riconoscendovi un’imprescindibile lezione formale. Il ritmo, il senso del colore, la composizione basata su linee e forme semplici sono caratteri fondanti di una pittura che per l’artista francese deve rappresentare soprattutto un piacere dei sensi. Tale piacevolezza contraddistingue i collage di carte colorate con cui Matisse realizza Jazz, un libro d’artista edito da Tériade nel 1947 che ricorda il gusto per l’improvvisazione di quel genere musicale. Lo sfondo blu trapunto di stelle di una delle sue più celebri illustrazioni, Icaro, discende direttamente dalla volta degli Scrovegni.
Il blu su cui si concentra la ricerca di Klein, invece, nasce dalla rivelazione avvenuta al cospetto di alcuni pannelli monocromi nella Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Un blu che rappresenta l’infinito: quello spazio ultraterreno sul quale si affacciano anche le tele bucate da Lucio Fontana. Un colore capace di rendere visibile l’invisibile, proprio come riesce a fare l’intera tavolozza della pittura di Rothko, con le sue campiture che sfumano l’una nell’altra dando origine a una spazialità indefinita e fluttuante. Una dimensione trascendente espressa anche dall’installazione luminosa di Turrell e dalle opere di altri artisti contemporanei che, ancora oggi, rinnovano il dialogo con l’arte di Giotto.
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