Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo
Dal 07 Marzo 2024 al 30 Giugno 2024
Treviso
Luogo: Gallerie delle Prigioni
Indirizzo: Piazza del Duomo 20
Orari: venerdì: 15:30—18:30, sabato e domenica: 10—13 / 15:30—18:30
Curatori: Claudio Scorretti, Irina Ungureanu, Aman Mojadidi
Costo del biglietto: ingresso gratuito
Telefono per informazioni: +39 334 9901269
E-Mail info: barbara.liverotti@fondazioneimagomundi.org /
Sito ufficiale: http://www.fondazioneimagomundi.org
Fondazione Imago Mundi presenta da giovedì 7 marzo a domenica 30 giugno 2024 presso la sede espositiva delle Gallerie delle Prigioni a Treviso la mostra Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo.
L’esposizione, curata da Claudio Scorretti, Irina Ungureanu e Aman Mojadidi, prende le mosse dalla più recente collezione di Imago Mundi, che, nel suo percorso di mappatura globale dell’arte contemporanea, ha chiamato a raccolta 162 artisti che vivono o hanno vissuto in campi per rifugiati e hanno realizzato le 174 opere in formato 10x12cm, tratto distintivo di Imago Mundi Collection, esposte in mostra.
L’essenza del progetto sta nella pluralità di storie che, distribuite nei cinque continenti, testimoniano come la condizione di rifugiato sia accidentale e rivendicano ciascuna la propria unicità. In questo modo, i rifugiati non sono una massa indistinta di persone senza volto, assumono invece i contorni nitidi di singoli individui, ciascuno con la propria vicenda unica e irripetibile, che ha affidato alla tela.
Le aree di provenienza degli artisti vanno dall’Afghanistan al Myanmar e al Vietnam, dalla Palestina al Kurdistan e alla Siria, dal Burundi all’Etiopia e alla Somalia, dalla Costa d’Avorio al Sudan, e da altre zone ancora– tutti luoghi che ci parlano di crisi multiformi, che siano conflitti armati, persecuzioni etniche o religiose, catastrofi naturali, violenza o altro – e i Paesi di accoglienza sono allo stesso modo distribuiti ovunque, dall’Uganda al Kenya, dal Nord America alla Germania, dal Bangladesh al Regno Unito, all’Italia.
Tra le storie che veniamo a conoscere: Famakinka Olunafemi, pittore nigeriano che vive in Francia e, lontano dalla sua terra natale, si sente come un re senza trono; l’opera fotografica di Youssef Al-Shuwaili, dall’Iraq, presenta una madre in una posa simile a quella della Madonna della Pietà, ma, a guardar bene, la donna con un braccio culla un neonato e nell’altra mano tiene una granata, generando un cortocircuito di amore e odio; nel lavoro di MyLoan Dinh, artista di origine vietnamita residente negli Stati Uniti, una foto di famiglia è incorniciata dai ritagli di un’economica borsa per la spesa che spesso i rifugiati impiegano come valigia, mentre sul retro dell’opera frammenti di gusci d’uovo formano una busta, a simboleggiare la fragilità della loro condizione e il desiderio di restare in contatto con i familiari; Somaya Abdelrahman è una fotografa documentarista e artista nata in Egitto che ora vive in Germania e lavora su temi sociali e diritti umani; Chinar Hassan, artista curda nata in Siria, rappresenta, nell’essenzialità del suo lavoro, il senso di profonda incertezza verso il futuro che è proprio di chi non ha casa.
Ogni ambiente delle Gallerie delle Prigioni è dedicato a un campo per rifugiati e offre approfondimenti di testo, video o fotografici, realizzati da alcuni degli artisti autori delle opere 10x12cm, per consentire al visitatore di conoscere senza filtri, dalle stesse parole e immagini degli artisti, le loro vite e vicissitudini.
Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo si apre dunque con il campo di Kutupalong in Bangladesh, ritenuto oggi il più popoloso al mondo, dove trovano accoglienza i rohingya, protagonisti di uno degli esodi forzati più massicci; lo slide-show del fotografo Abir Abdullah cattura alcuni momenti della drammatica migrazione di questa comunità. A seguire, il visitatore viene condotto in Kenya, nel campo di Dadaab, con un approfondimento dato dal cortometraggio di Dennis Munene sulla convivenza nello stesso campo di tre comunità etniche – somala, sudanese ed etiope. Seguono le testimonianze dal campo di Kakuma, anch’esso in Kenya, dove il video musicale della regista congolese Aminah Rwimo racconta l'esperienza di tre cantanti, vittime da adolescenti di matrimoni forzati. Il percorso al pianoterra prosegue con le storie di rifugiati curdi, la più numerosa popolazione al mondo senza una patria, e yazidi, che per ragioni religiose sono perseguitati da secoli e sono considerati tra le minoranze più fragili. Infine, vengono presentate le testimonianze di altri artisti in esilio, tra cui il collettivo Arafa and the Dirars, composto da madre e cinque figli, sudanesi rifugiati nel Regno Unito, che ha trovato nell’arte un modo per elaborare il trauma della perdita e il senso di di instabilità.
Al primo piano, la visita conduce il visitatore in Giordania, nel campo di Za’atari, il più esteso campo per rifugiati siriani al mondo, e nei campi di Baq’a, Hittin, Irbid, Madaba e Souf, che accolgono rifugiati palestinesi e sono tra i primi ad essere stati istituiti, negli anni Cinquanta e Sessanta. Gli insediamenti di Nakivale e Bidibidi si trovano invece in Uganda e ospitano persone che provengono da Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Ruanda, Sud Sudan, Somalia. Si giunge così alla sezione dedicata al popolo afghano. Le testimonianze qui raccolte raccontano le storie di artisti che, dopo la ripresa del potere da parte dei talebani nel 2021, sono stati evacuati e di altri che sono rimasti in patria, insieme alle storie di artisti, ora stabilitisi in Europa o in America, per cui il campo è un elemento fondante del proprio passato.
Alle opere 10x12cm si aggiungono tre installazioni realizzate specificatamente per questa mostra da artisti presenti in collezione: Rushdi Anwar, artista curdo, presenta il lavoro Reframe “Home” with Patterns of Displacement, in cui frammenti di tappeti sono posti gli uni accanto agli altri, generando così spazi vuoti e irregolarità nei disegni che rimandano alla precarietà della vita dei rifugiati; Laila Ajjawi, street artist palestinese, ha prodotto un intervento artistico su tela che richiama i murales che normalmente dipinge nei campi per rifugiati; il fotografo Mohamed Keita, originario della Costa d’Avorio e giunto a Roma a 14 anni nel 2007, ha realizzato infine una serie di ritratti corredati dalle interviste del giornalista Luca Attanasio. L’esposizione si sofferma con questi ultimi lavori su una realtà vicina a noi, raccontando attraverso le immagini e le esperienze dirette dei protagonisti (tanto il fotografo, quanto i soggetti fotografati), cosa significa essere rifugiato in Italia.
Il progetto di Fondazione Imago Mundi dedicato agli artisti rifugiati nel mondo non si ferma: è in corso, infatti, una nuova raccolta di opere, che nei mesi a venire andranno ad integrare quelle già in mostra e concorreranno a formare il catalogo dedicato, di prossima pubblicazione.
L’esposizione, curata da Claudio Scorretti, Irina Ungureanu e Aman Mojadidi, prende le mosse dalla più recente collezione di Imago Mundi, che, nel suo percorso di mappatura globale dell’arte contemporanea, ha chiamato a raccolta 162 artisti che vivono o hanno vissuto in campi per rifugiati e hanno realizzato le 174 opere in formato 10x12cm, tratto distintivo di Imago Mundi Collection, esposte in mostra.
L’essenza del progetto sta nella pluralità di storie che, distribuite nei cinque continenti, testimoniano come la condizione di rifugiato sia accidentale e rivendicano ciascuna la propria unicità. In questo modo, i rifugiati non sono una massa indistinta di persone senza volto, assumono invece i contorni nitidi di singoli individui, ciascuno con la propria vicenda unica e irripetibile, che ha affidato alla tela.
Le aree di provenienza degli artisti vanno dall’Afghanistan al Myanmar e al Vietnam, dalla Palestina al Kurdistan e alla Siria, dal Burundi all’Etiopia e alla Somalia, dalla Costa d’Avorio al Sudan, e da altre zone ancora– tutti luoghi che ci parlano di crisi multiformi, che siano conflitti armati, persecuzioni etniche o religiose, catastrofi naturali, violenza o altro – e i Paesi di accoglienza sono allo stesso modo distribuiti ovunque, dall’Uganda al Kenya, dal Nord America alla Germania, dal Bangladesh al Regno Unito, all’Italia.
Tra le storie che veniamo a conoscere: Famakinka Olunafemi, pittore nigeriano che vive in Francia e, lontano dalla sua terra natale, si sente come un re senza trono; l’opera fotografica di Youssef Al-Shuwaili, dall’Iraq, presenta una madre in una posa simile a quella della Madonna della Pietà, ma, a guardar bene, la donna con un braccio culla un neonato e nell’altra mano tiene una granata, generando un cortocircuito di amore e odio; nel lavoro di MyLoan Dinh, artista di origine vietnamita residente negli Stati Uniti, una foto di famiglia è incorniciata dai ritagli di un’economica borsa per la spesa che spesso i rifugiati impiegano come valigia, mentre sul retro dell’opera frammenti di gusci d’uovo formano una busta, a simboleggiare la fragilità della loro condizione e il desiderio di restare in contatto con i familiari; Somaya Abdelrahman è una fotografa documentarista e artista nata in Egitto che ora vive in Germania e lavora su temi sociali e diritti umani; Chinar Hassan, artista curda nata in Siria, rappresenta, nell’essenzialità del suo lavoro, il senso di profonda incertezza verso il futuro che è proprio di chi non ha casa.
Ogni ambiente delle Gallerie delle Prigioni è dedicato a un campo per rifugiati e offre approfondimenti di testo, video o fotografici, realizzati da alcuni degli artisti autori delle opere 10x12cm, per consentire al visitatore di conoscere senza filtri, dalle stesse parole e immagini degli artisti, le loro vite e vicissitudini.
Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo si apre dunque con il campo di Kutupalong in Bangladesh, ritenuto oggi il più popoloso al mondo, dove trovano accoglienza i rohingya, protagonisti di uno degli esodi forzati più massicci; lo slide-show del fotografo Abir Abdullah cattura alcuni momenti della drammatica migrazione di questa comunità. A seguire, il visitatore viene condotto in Kenya, nel campo di Dadaab, con un approfondimento dato dal cortometraggio di Dennis Munene sulla convivenza nello stesso campo di tre comunità etniche – somala, sudanese ed etiope. Seguono le testimonianze dal campo di Kakuma, anch’esso in Kenya, dove il video musicale della regista congolese Aminah Rwimo racconta l'esperienza di tre cantanti, vittime da adolescenti di matrimoni forzati. Il percorso al pianoterra prosegue con le storie di rifugiati curdi, la più numerosa popolazione al mondo senza una patria, e yazidi, che per ragioni religiose sono perseguitati da secoli e sono considerati tra le minoranze più fragili. Infine, vengono presentate le testimonianze di altri artisti in esilio, tra cui il collettivo Arafa and the Dirars, composto da madre e cinque figli, sudanesi rifugiati nel Regno Unito, che ha trovato nell’arte un modo per elaborare il trauma della perdita e il senso di di instabilità.
Al primo piano, la visita conduce il visitatore in Giordania, nel campo di Za’atari, il più esteso campo per rifugiati siriani al mondo, e nei campi di Baq’a, Hittin, Irbid, Madaba e Souf, che accolgono rifugiati palestinesi e sono tra i primi ad essere stati istituiti, negli anni Cinquanta e Sessanta. Gli insediamenti di Nakivale e Bidibidi si trovano invece in Uganda e ospitano persone che provengono da Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Ruanda, Sud Sudan, Somalia. Si giunge così alla sezione dedicata al popolo afghano. Le testimonianze qui raccolte raccontano le storie di artisti che, dopo la ripresa del potere da parte dei talebani nel 2021, sono stati evacuati e di altri che sono rimasti in patria, insieme alle storie di artisti, ora stabilitisi in Europa o in America, per cui il campo è un elemento fondante del proprio passato.
Alle opere 10x12cm si aggiungono tre installazioni realizzate specificatamente per questa mostra da artisti presenti in collezione: Rushdi Anwar, artista curdo, presenta il lavoro Reframe “Home” with Patterns of Displacement, in cui frammenti di tappeti sono posti gli uni accanto agli altri, generando così spazi vuoti e irregolarità nei disegni che rimandano alla precarietà della vita dei rifugiati; Laila Ajjawi, street artist palestinese, ha prodotto un intervento artistico su tela che richiama i murales che normalmente dipinge nei campi per rifugiati; il fotografo Mohamed Keita, originario della Costa d’Avorio e giunto a Roma a 14 anni nel 2007, ha realizzato infine una serie di ritratti corredati dalle interviste del giornalista Luca Attanasio. L’esposizione si sofferma con questi ultimi lavori su una realtà vicina a noi, raccontando attraverso le immagini e le esperienze dirette dei protagonisti (tanto il fotografo, quanto i soggetti fotografati), cosa significa essere rifugiato in Italia.
Il progetto di Fondazione Imago Mundi dedicato agli artisti rifugiati nel mondo non si ferma: è in corso, infatti, una nuova raccolta di opere, che nei mesi a venire andranno ad integrare quelle già in mostra e concorreranno a formare il catalogo dedicato, di prossima pubblicazione.
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