Roberta D'Adda racconta la mostra in corso al Museo di Santa Giulia fino al 28 maggio
Brescia riscopre Giacomo Ceruti, l'artista curioso che ha tradotto in pittura lo spettacolo del mondo
Giacomo Ceruti, Portarolo, 1730-1734 circa, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo | © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi
Samantha De Martin
15/02/2023
Brescia - Il suo nome è rimasto a lungo impigliato negli abiti cenciosi di umili e pitocchi. Nello sguardo straordinario di una lavandaia, incorniciata in una scena silenziosa, nella routine quotidiana della fatica, dove nulla accade, ma dove la dignità della condizione umana esplode dalla tela per conquistare chi osserva con la carica empatica di un pennello potente.
A poco più di un secolo dall’acquisizione della Lavandaia da parte della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, all’inizio del Novecento, Giacomo Ceruti di strada ne ha fatta e l’ “Omero dei diseredati” - come Giovanni Testori aveva definito l’artista per il suo sguardo inedito sugli ultimi - celebra adesso il suo atteso riscatto di maestro europeo.
Il pittore degli ultimi, che è stato in realtà anche un raffinato interprete dell’aristocrazia, capace di variare dalle scene di povertà più drammatica alle più raffinate tendenze dell’arte europea, è, fino al 28 maggio, al centro di una mostra al Museo di Santa Giulia a Brescia, che, a oltre 35 anni dall’ultima retrospettiva, offre una nuova lettura di artista eclettico e complesso.
In attesa di sorvolare l’Oceano alla volta del Getty Museum di Los Angeles, sede, a partire dal 18 luglio, della sua prima monografica fuori dai confini nazionali, Ceruti apre una breccia anche nell’arte contemporanea, conquistando l’immaginario del fotografo americano David LaChapelle che ha realizzato per il pubblico della Pinacoteca Tosio Martinengo un progetto di forte impatto.
D’altronde il pittore “più avventuroso” del Settecento, che ha trasformato la sua straordinaria curiosità in un gancio per portare sulla tela la realtà e il variopinto spettacolo del mondo, è stato molto più che un semplice artista degli umili, amando confrontarsi con l’umanità tutta, con committenti e artisti a lui contemporanei, passando da un ambito figurativo a un altro.
La mostra Miseria & Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, a cura di Roberta D'Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti, con oltre 100 opere - 60 di Ceruti a confronto con 40 dipinti di autori precedenti o a lui contemporanei - offre una revisione dell’artista e della sua carriera. Oltre ad accogliere i capolavori della Pinacoteca Tosio Martinengo, che conserva il corpus più consistente e significativo del pittore, la mostra presenta straordinari prestiti provenienti da Parigi, Vienna, Madrid, Göteborg, Budapest, Salisburgo, da musei italiani e da numerose collezioni private.
Nel lungo periodo di tempo intercorso dall’ultima esposizione (nel 1987), la conoscenza del pittore si è arricchita, arrivando a cambiare la percezione del suo lavoro e allargando i confini critici della sua figura, da pittore della realtà a originale interprete delle tendenze europee. A svelarci di più su questo artista che per la maggior parte della sua vita ebbe due mogli e due famiglie, costretto a lasciare Brescia inseguito dai creditori e protagonista di committenze importanti nel corso della sua solida carriera tra Brescia, Milano, Piacenza, Venezia, è Roberta D'Adda, curatrice della mostra assieme a Francesco Frangi e Alessandro Morandotti.
Giacomo Ceruti. Miseria & Nobiltà, Allestimento al Museo di Santa Giulia | Foto: © Alberto Mancini
Perché una mostra su Giacomo Ceruti? E soprattutto in cosa consiste la sua riscoperta?
“All’interno di un generale programma di valorizzazione della Pinacoteca Tosio Martinengo e delle sue collezioni, la Fondazione Brescia Musei ha giudicato che Giacomo Ceruti potesse essere l’artista più adeguato a rappresentare non solo la città, ma anche il patrimonio della Pinacoteca nell’anno della cultura. Da qui il progetto di una grande mostra della quale si sente la necessità perché questo pittore è stato raccontato compiutamente ormai più di 35 anni fa e merita di essere rivisitato e anche aggiornato. Ora è giunto il momento di valorizzarlo, di far conoscere anche tutto il resto della sua produzione e raccontarlo in modo diverso al grande pubblico".
Perché questa riscoperta parte proprio da Brescia?
“Questa rivisitazione parte da Brescia proprio come da Brescia aveva preso piede la riscoperta di questo artista all’inizio del Novecento. Ceruti fu dimenticato subito dopo la morte. Noi abbiamo voluto in qualche modo replicare questa riscoperta novecentesca, avvenuta proprio cento anni fa, a partire da un’opera della Pinacoteca. Nel 1922 la Lavandaia parte dalla Pinacoteca Tosio Martinengo per andare a Firenze in occasione della mostra dedicata alla pittura italiana del Sei e del Settecento. Lì comincia questa riscoperta del pittore”.
Perché la Lavandaia è stata così importante per questa riscoperta di Ceruti?
“Entra in Pinacoteca Tosio Martinengo con un’attribuzione a Giacomo Ceruti ed è di fatto il primo quadro in un museo attribuito a questo pittore del quale si era un po’ persa la memoria. Si tratta di una figura iconica, con una capacità magnetica di coinvolgere lo spettatore. Questa lavandaia è inserita in un’ambientazione domestica, quasi familiare, che possiamo immaginare come la corte di una cascina della bassa bresciana. Si tratta di una scena silenziosa, come del resto tutte le scene di Ceruti. È una scena ordinaria nella quale non succede nulla. La sua forza sta nello sguardo stanco e dignitoso che cerca di suscitare un’emozione negli occhi di chi osserva. Per noi bresciani questo dipinto è un po’ il Ceruti per antonomasia, uno dei più rappresentativi dell’artista”.
Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, Lavandaia, 1720-1725 circa, Olio su tela, 145 x 131 cm | Courtesy Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia
Ceruti è un artista curioso che ama confrontarsi anche con i maestri contemporanei. Viaggia e lavora tra Brescia, Milano, Venezia, città nella quale la sua pittura sembra nobilitarsi. In lui si scorge un duplice volto: pittore degli ultimi e, al tempo stesso, raffinato interprete dell’aristocrazia. Come si spiega questo duplice linguaggio? Evoluzione o contraddizione?
“Sono due facce di una stessa medaglia, che è una costante nella sua arte: lo sguardo sulla realtà. Ceruti guardava la realtà con occhi incuriositi, affascinato dallo spettacolo del mondo. Appartenendo alla tradizione della pittura lombarda, una pittura di realtà, aveva a disposizione gli strumenti per restituire questo spettacolo. Si rivela capace di adeguarsi ai gusti e allo stile della sua committenza. A Brescia lavora per l’aristocrazia locale. E anche i quadri dei poveri sono opere destinate all’aristocrazia. Eppure anche quando realizza i ritratti dei nobili usa sempre quel linguaggio austero, asciutto, rigoroso cui fa ricorso anche per la rappresentazione degli umili. Quando si trasferisce in Veneto e poi a Milano deve soddisfare gusti e attese differenti, ma il suo modo di restituirci il vero rimane invariato”.
Qual è secondo lei uno dei dipinti che meglio riassume la curiosità di questo artista?
“Sicuramente Il mendicante moro, presente in mostra”.
Giacomo Ceruti, Il mendicante moro, Olio su tela, 93.5 x 117.5 cm, Collezione privata, Milano | Courtesy Fondazione Brescia Musei
Che cos’ha di particolare?
“Qui Ceruti non dipinge una figura generica, né uno dei tanti personaggi tipizzati presenti sugli sfondi della pittura veneziana. Si tratta di un ritratto di un uomo di colore che Ceruti ha veramente visto. Doveva essere così incuriosito dal colore della pelle di quest’uomo che inverte una norma alla quale si attiene sempre, e cioè quella di ricoprire le sue figure di strati e strati di vestiti, per quanto cenciosi, fino a nascondere persino la pelle, riducendo spesso la figura a un fantoccio ricoperto di stracci. Invece di fronte a questo mendicante moro l’artista è così incuriosito che inventa una camicia strappata per far sì che la pelle del braccio possa essere dipinta e raccontata. Si inventa un tramonto così arrossato che permette all’atmosfera del quadro di andare in continuità con il colore della pelle, diventando parte di questa coloritura esotica”.
Giacomo Ceruti, Ritratto di giovane uomo con foglio dipinto in mano, 1760 circa, Pinacoteca Tosio Martinengo Brescia | © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi
Perché Ceruti è considerato il pittore “più avventuroso” del Settecento?
“Questa definizione di Mina Gregori si riferisce alla capacità di questo pittore di affrontare e frequentare generi molto diversi soprattutto nella fase della maturità vivendo sempre tutto come un’esperienza, una sfida. Ceruti attraversa tanti generi e tanti modi di rappresentare la realtà, dagli umili alle scene pastorali dove la campagna, la vita dei contadini e dei pastori sono raccontate come un mondo ideale. Passa da ritratti severissimi a rappresentazioni mondane, inventa le scene con gli animali domestici, coniugando natura morta alla rappresentazione della figura. Il lavoro di Ceruti è una sorta di continuo laboratorio".
Cosa sappiamo della vita di questo pittore? È vero che era bigamo?
“Sappiamo che la sua famiglia è originaria di Milano e che è presente a Brescia quando lui è ancora ragazzo. Si stabilisce a Brescia, ma è costretto a lasciare la città in un momento di difficoltà. Qui riscuote grande successo, ha committenze importanti e si lancia in una speculazione finanziaria, affittando terreni boschivi per metterli a reddito. Ma non riesce a saldare i suoi debiti e i creditori lo perseguono legalmente. Quando si trasferisce in Veneto lavora per un committente importantissimo, Matthias von der Schulenburg, e poi per famiglie importanti a Milano, Piacenza. A Brescia aveva realizzato un ciclo di pitture perdute per il palazzo pubblico, mentre nelle valli bresciane si era misurato con la pittura sacra.
A Padova riceve una committenza per la basilica del santo e per la chiesa di Santa Lucia. Per buona parte della sua vita ha avuto due mogli contemporaneamente, e i suoi due testamenti sono a favore dell'una e dell'altra".
Giacomo Ceruti, Pitocco seduto, 1730 circa, Pinacoteca Tosio Martinengo Brescia | © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi
Nell’autoritratto che apre il percorso della mostra Ceruti si ritrae come un povero, mentre in un'altra opera si presenta come un gentiluomo dei tempi andati. Chi era davvero questo artista?
“Possiamo immaginare che entrambi siano ritratti in costume, ma ci colpisce la scelta, tra i mille travestimenti possibili, di rappresentarsi con una giacca sdrucita dai polsini sfilacciati, con un bastone che era un attributo tanto del mendicante quanto del pellegrino. Del resto in uno dei suoi testamenti chiede di essere sepolto come povero “perché tale sono”. Potrebbe certo trattarsi di un artificio retorico, però queste notazioni, accostate agli straordinari dipinti di persone umili, che ha lasciato in particolare nel cosiddetto Ciclo di Padernello, non mancano di colpirci”.
Proprio il Ciclo di Padernello rappresenta il momento più alto della mostra, che vede riunite 14 delle 16 tele oggi riconosciute come pertinenti a questa monumentale opera...
“La sequenza di queste opere ha la solennità di un ciclo sacro di una grande cappella. Si tratta di un nostro omaggio al Ceruti bresciano, a un momento straordinario in cui questo pittore trova nella committenza bresciana un’attenzione per questo modo cosi particolare di rappresentare gli umili”.
Giacomo Ceruti, Autoritratto in veste di pellegrino, 1737, Museo Villa Bassi Rathgeb, Abano Terme
Quali altri pittori riscopriamo in mostra?
“In mostra troviamo artisti come Fra’ Galgario, Tiepolo, Piazzetta, Rigaud e anche i “precedenti”, cioè quei maestri che costituiscono una sorta di ideale genealogia di Ceruti, come i grandi pittori del realismo bresciano, ma anche coloro che hanno rappresentato gli umili in tutta la loro dignità, senza ridurli a semplici macchiette. Questa parte del percorso, che è anche la più sperimentale, si apre sotto l’insegna di Ribera di cui esponiamo uno straordinario Mendicante, ma vede anche alcuni maestri anonimi, come il Maestro della tela jeans il cui nome generico dà conto del fatto che nei suoi dipinti molto spesso i personaggi indossano abiti realizzati con la tela jeans, molto diffusa a Genova tra i lavoratori”.
In cosa Ceruti fu vicino a Caravaggio?
“Quel filone della pittura lombarda di realtà è il filone nel quale affonda le radici anche Caravaggio per la suo origine e formazione. Ceruti lavora un secolo dopo e questo secolo non è trascorso invano. Ceruti usa la luce in un modo diverso. La sua è una luce dura, priva dei contrasti chiaroscurali tipici di Caravaggio. I quadri di Ceruti sono più luminosi. Come Caravaggio Ceruti restituisce il dato di natura, la realtà delle cose, ma è meno narrativo di Merisi. Nei quadri di Ceruti non accade nulla e la loro forza sta proprio in questo, nel fatto che non vi sia una componente narrativa. Come Caravaggio Ceruti dà priorità assoluta alla figura. Alcuni suoi quadri sono privi di sfondo, perché la figura umana basta a se stessa".
Giacomo Ceruti, Vecchio con cane, 1740-1745 circa, Collezione privata
Fino al 28 maggio il Museo di Santa Giulia accoglie anche la mostra Immaginario Ceruti, le stampe nel laboratorio del pittore, che lei cura assieme a Francesco Ceretti. Si tratta di un percorso che arricchisce il progetto espositivo di Miseria & Nobiltà, incentrato sull’utilizzo che l’artista fece delle incisioni attingendo dal repertorio grafico di artisti francesi, olandesi e italiani. Come si collega questa mostra al percorso su Ceruti?
“Come molti pittori del suo tempo Ceruti ha nella sua bottega una raccolta di stampe che usa come fonte di ispirazione. Quando mette in scena i suoi personaggi su uno sfondo urbano attinge ad esempio da Jacques Callot. Quando invece affronta scene rurali di vita campestre guarda a tutti quegli incisori olandesi specializzati in questo genere di soggetti per riprodurre con realismo gli animali. Tuttavia questa esposizione non si limita a restituire meccanicamente le fonti, ma cerca di immaginare la collezione di stampe appartenute a Ceruti. Volutamente non abbiamo inserito le incisioni a fianco dei dipinti ma abbiamo voluto riunirle tutte insiemeper dimostrare ancora una volta la curiosità di questo artista e la sua capacità di passare da un ambito figurativo a un altro”.
Giacomo Ceruti, Scuola di ragazze, 1720-1725 circa, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo | © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi
A partire dal 18 luglio Ceruti volerà a Los Angeles, protagonista della mostra The Compassionate Eye a cura di Davide Gasparotto, realizzata in collaborazione con Getty Museum. Cosa ci sarà di diverso rispetto al percorso a Brescia?
“La mostra di Los Angeles si concentra principalmente sulla produzione pauperistica di Ceruti, dando conto degli anni bresciani. La scelta è stata quella di puntare sulla parte più caratteristica della sua pittura, quella degli umili. Questo è un tema che negli Stati Uniti è di grande attualità. Los Angeles è particolarmente legata al tema degli homeless che in città sono 70mila. C’è la necessità di riflettere, anche attraverso l’arte, sulla condizione di questi emarginati".
Leggi anche:
• Miseria & Nobiltà: una grande mostra riscopre Giacomo Ceruti, il pittore avventuroso
• Miseria & Nobiltà: Giacomo Ceruti nell'Europa del Settecento
A poco più di un secolo dall’acquisizione della Lavandaia da parte della Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, all’inizio del Novecento, Giacomo Ceruti di strada ne ha fatta e l’ “Omero dei diseredati” - come Giovanni Testori aveva definito l’artista per il suo sguardo inedito sugli ultimi - celebra adesso il suo atteso riscatto di maestro europeo.
Il pittore degli ultimi, che è stato in realtà anche un raffinato interprete dell’aristocrazia, capace di variare dalle scene di povertà più drammatica alle più raffinate tendenze dell’arte europea, è, fino al 28 maggio, al centro di una mostra al Museo di Santa Giulia a Brescia, che, a oltre 35 anni dall’ultima retrospettiva, offre una nuova lettura di artista eclettico e complesso.
In attesa di sorvolare l’Oceano alla volta del Getty Museum di Los Angeles, sede, a partire dal 18 luglio, della sua prima monografica fuori dai confini nazionali, Ceruti apre una breccia anche nell’arte contemporanea, conquistando l’immaginario del fotografo americano David LaChapelle che ha realizzato per il pubblico della Pinacoteca Tosio Martinengo un progetto di forte impatto.
D’altronde il pittore “più avventuroso” del Settecento, che ha trasformato la sua straordinaria curiosità in un gancio per portare sulla tela la realtà e il variopinto spettacolo del mondo, è stato molto più che un semplice artista degli umili, amando confrontarsi con l’umanità tutta, con committenti e artisti a lui contemporanei, passando da un ambito figurativo a un altro.
La mostra Miseria & Nobiltà. Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento, a cura di Roberta D'Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti, con oltre 100 opere - 60 di Ceruti a confronto con 40 dipinti di autori precedenti o a lui contemporanei - offre una revisione dell’artista e della sua carriera. Oltre ad accogliere i capolavori della Pinacoteca Tosio Martinengo, che conserva il corpus più consistente e significativo del pittore, la mostra presenta straordinari prestiti provenienti da Parigi, Vienna, Madrid, Göteborg, Budapest, Salisburgo, da musei italiani e da numerose collezioni private.
Nel lungo periodo di tempo intercorso dall’ultima esposizione (nel 1987), la conoscenza del pittore si è arricchita, arrivando a cambiare la percezione del suo lavoro e allargando i confini critici della sua figura, da pittore della realtà a originale interprete delle tendenze europee. A svelarci di più su questo artista che per la maggior parte della sua vita ebbe due mogli e due famiglie, costretto a lasciare Brescia inseguito dai creditori e protagonista di committenze importanti nel corso della sua solida carriera tra Brescia, Milano, Piacenza, Venezia, è Roberta D'Adda, curatrice della mostra assieme a Francesco Frangi e Alessandro Morandotti.
Giacomo Ceruti. Miseria & Nobiltà, Allestimento al Museo di Santa Giulia | Foto: © Alberto Mancini
Perché una mostra su Giacomo Ceruti? E soprattutto in cosa consiste la sua riscoperta?
“All’interno di un generale programma di valorizzazione della Pinacoteca Tosio Martinengo e delle sue collezioni, la Fondazione Brescia Musei ha giudicato che Giacomo Ceruti potesse essere l’artista più adeguato a rappresentare non solo la città, ma anche il patrimonio della Pinacoteca nell’anno della cultura. Da qui il progetto di una grande mostra della quale si sente la necessità perché questo pittore è stato raccontato compiutamente ormai più di 35 anni fa e merita di essere rivisitato e anche aggiornato. Ora è giunto il momento di valorizzarlo, di far conoscere anche tutto il resto della sua produzione e raccontarlo in modo diverso al grande pubblico".
Perché questa riscoperta parte proprio da Brescia?
“Questa rivisitazione parte da Brescia proprio come da Brescia aveva preso piede la riscoperta di questo artista all’inizio del Novecento. Ceruti fu dimenticato subito dopo la morte. Noi abbiamo voluto in qualche modo replicare questa riscoperta novecentesca, avvenuta proprio cento anni fa, a partire da un’opera della Pinacoteca. Nel 1922 la Lavandaia parte dalla Pinacoteca Tosio Martinengo per andare a Firenze in occasione della mostra dedicata alla pittura italiana del Sei e del Settecento. Lì comincia questa riscoperta del pittore”.
Perché la Lavandaia è stata così importante per questa riscoperta di Ceruti?
“Entra in Pinacoteca Tosio Martinengo con un’attribuzione a Giacomo Ceruti ed è di fatto il primo quadro in un museo attribuito a questo pittore del quale si era un po’ persa la memoria. Si tratta di una figura iconica, con una capacità magnetica di coinvolgere lo spettatore. Questa lavandaia è inserita in un’ambientazione domestica, quasi familiare, che possiamo immaginare come la corte di una cascina della bassa bresciana. Si tratta di una scena silenziosa, come del resto tutte le scene di Ceruti. È una scena ordinaria nella quale non succede nulla. La sua forza sta nello sguardo stanco e dignitoso che cerca di suscitare un’emozione negli occhi di chi osserva. Per noi bresciani questo dipinto è un po’ il Ceruti per antonomasia, uno dei più rappresentativi dell’artista”.
Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, Lavandaia, 1720-1725 circa, Olio su tela, 145 x 131 cm | Courtesy Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia
Ceruti è un artista curioso che ama confrontarsi anche con i maestri contemporanei. Viaggia e lavora tra Brescia, Milano, Venezia, città nella quale la sua pittura sembra nobilitarsi. In lui si scorge un duplice volto: pittore degli ultimi e, al tempo stesso, raffinato interprete dell’aristocrazia. Come si spiega questo duplice linguaggio? Evoluzione o contraddizione?
“Sono due facce di una stessa medaglia, che è una costante nella sua arte: lo sguardo sulla realtà. Ceruti guardava la realtà con occhi incuriositi, affascinato dallo spettacolo del mondo. Appartenendo alla tradizione della pittura lombarda, una pittura di realtà, aveva a disposizione gli strumenti per restituire questo spettacolo. Si rivela capace di adeguarsi ai gusti e allo stile della sua committenza. A Brescia lavora per l’aristocrazia locale. E anche i quadri dei poveri sono opere destinate all’aristocrazia. Eppure anche quando realizza i ritratti dei nobili usa sempre quel linguaggio austero, asciutto, rigoroso cui fa ricorso anche per la rappresentazione degli umili. Quando si trasferisce in Veneto e poi a Milano deve soddisfare gusti e attese differenti, ma il suo modo di restituirci il vero rimane invariato”.
Qual è secondo lei uno dei dipinti che meglio riassume la curiosità di questo artista?
“Sicuramente Il mendicante moro, presente in mostra”.
Giacomo Ceruti, Il mendicante moro, Olio su tela, 93.5 x 117.5 cm, Collezione privata, Milano | Courtesy Fondazione Brescia Musei
Che cos’ha di particolare?
“Qui Ceruti non dipinge una figura generica, né uno dei tanti personaggi tipizzati presenti sugli sfondi della pittura veneziana. Si tratta di un ritratto di un uomo di colore che Ceruti ha veramente visto. Doveva essere così incuriosito dal colore della pelle di quest’uomo che inverte una norma alla quale si attiene sempre, e cioè quella di ricoprire le sue figure di strati e strati di vestiti, per quanto cenciosi, fino a nascondere persino la pelle, riducendo spesso la figura a un fantoccio ricoperto di stracci. Invece di fronte a questo mendicante moro l’artista è così incuriosito che inventa una camicia strappata per far sì che la pelle del braccio possa essere dipinta e raccontata. Si inventa un tramonto così arrossato che permette all’atmosfera del quadro di andare in continuità con il colore della pelle, diventando parte di questa coloritura esotica”.
Giacomo Ceruti, Ritratto di giovane uomo con foglio dipinto in mano, 1760 circa, Pinacoteca Tosio Martinengo Brescia | © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi
Perché Ceruti è considerato il pittore “più avventuroso” del Settecento?
“Questa definizione di Mina Gregori si riferisce alla capacità di questo pittore di affrontare e frequentare generi molto diversi soprattutto nella fase della maturità vivendo sempre tutto come un’esperienza, una sfida. Ceruti attraversa tanti generi e tanti modi di rappresentare la realtà, dagli umili alle scene pastorali dove la campagna, la vita dei contadini e dei pastori sono raccontate come un mondo ideale. Passa da ritratti severissimi a rappresentazioni mondane, inventa le scene con gli animali domestici, coniugando natura morta alla rappresentazione della figura. Il lavoro di Ceruti è una sorta di continuo laboratorio".
Cosa sappiamo della vita di questo pittore? È vero che era bigamo?
“Sappiamo che la sua famiglia è originaria di Milano e che è presente a Brescia quando lui è ancora ragazzo. Si stabilisce a Brescia, ma è costretto a lasciare la città in un momento di difficoltà. Qui riscuote grande successo, ha committenze importanti e si lancia in una speculazione finanziaria, affittando terreni boschivi per metterli a reddito. Ma non riesce a saldare i suoi debiti e i creditori lo perseguono legalmente. Quando si trasferisce in Veneto lavora per un committente importantissimo, Matthias von der Schulenburg, e poi per famiglie importanti a Milano, Piacenza. A Brescia aveva realizzato un ciclo di pitture perdute per il palazzo pubblico, mentre nelle valli bresciane si era misurato con la pittura sacra.
A Padova riceve una committenza per la basilica del santo e per la chiesa di Santa Lucia. Per buona parte della sua vita ha avuto due mogli contemporaneamente, e i suoi due testamenti sono a favore dell'una e dell'altra".
Giacomo Ceruti, Pitocco seduto, 1730 circa, Pinacoteca Tosio Martinengo Brescia | © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi
Nell’autoritratto che apre il percorso della mostra Ceruti si ritrae come un povero, mentre in un'altra opera si presenta come un gentiluomo dei tempi andati. Chi era davvero questo artista?
“Possiamo immaginare che entrambi siano ritratti in costume, ma ci colpisce la scelta, tra i mille travestimenti possibili, di rappresentarsi con una giacca sdrucita dai polsini sfilacciati, con un bastone che era un attributo tanto del mendicante quanto del pellegrino. Del resto in uno dei suoi testamenti chiede di essere sepolto come povero “perché tale sono”. Potrebbe certo trattarsi di un artificio retorico, però queste notazioni, accostate agli straordinari dipinti di persone umili, che ha lasciato in particolare nel cosiddetto Ciclo di Padernello, non mancano di colpirci”.
Proprio il Ciclo di Padernello rappresenta il momento più alto della mostra, che vede riunite 14 delle 16 tele oggi riconosciute come pertinenti a questa monumentale opera...
“La sequenza di queste opere ha la solennità di un ciclo sacro di una grande cappella. Si tratta di un nostro omaggio al Ceruti bresciano, a un momento straordinario in cui questo pittore trova nella committenza bresciana un’attenzione per questo modo cosi particolare di rappresentare gli umili”.
Giacomo Ceruti, Autoritratto in veste di pellegrino, 1737, Museo Villa Bassi Rathgeb, Abano Terme
Quali altri pittori riscopriamo in mostra?
“In mostra troviamo artisti come Fra’ Galgario, Tiepolo, Piazzetta, Rigaud e anche i “precedenti”, cioè quei maestri che costituiscono una sorta di ideale genealogia di Ceruti, come i grandi pittori del realismo bresciano, ma anche coloro che hanno rappresentato gli umili in tutta la loro dignità, senza ridurli a semplici macchiette. Questa parte del percorso, che è anche la più sperimentale, si apre sotto l’insegna di Ribera di cui esponiamo uno straordinario Mendicante, ma vede anche alcuni maestri anonimi, come il Maestro della tela jeans il cui nome generico dà conto del fatto che nei suoi dipinti molto spesso i personaggi indossano abiti realizzati con la tela jeans, molto diffusa a Genova tra i lavoratori”.
In cosa Ceruti fu vicino a Caravaggio?
“Quel filone della pittura lombarda di realtà è il filone nel quale affonda le radici anche Caravaggio per la suo origine e formazione. Ceruti lavora un secolo dopo e questo secolo non è trascorso invano. Ceruti usa la luce in un modo diverso. La sua è una luce dura, priva dei contrasti chiaroscurali tipici di Caravaggio. I quadri di Ceruti sono più luminosi. Come Caravaggio Ceruti restituisce il dato di natura, la realtà delle cose, ma è meno narrativo di Merisi. Nei quadri di Ceruti non accade nulla e la loro forza sta proprio in questo, nel fatto che non vi sia una componente narrativa. Come Caravaggio Ceruti dà priorità assoluta alla figura. Alcuni suoi quadri sono privi di sfondo, perché la figura umana basta a se stessa".
Giacomo Ceruti, Vecchio con cane, 1740-1745 circa, Collezione privata
Fino al 28 maggio il Museo di Santa Giulia accoglie anche la mostra Immaginario Ceruti, le stampe nel laboratorio del pittore, che lei cura assieme a Francesco Ceretti. Si tratta di un percorso che arricchisce il progetto espositivo di Miseria & Nobiltà, incentrato sull’utilizzo che l’artista fece delle incisioni attingendo dal repertorio grafico di artisti francesi, olandesi e italiani. Come si collega questa mostra al percorso su Ceruti?
“Come molti pittori del suo tempo Ceruti ha nella sua bottega una raccolta di stampe che usa come fonte di ispirazione. Quando mette in scena i suoi personaggi su uno sfondo urbano attinge ad esempio da Jacques Callot. Quando invece affronta scene rurali di vita campestre guarda a tutti quegli incisori olandesi specializzati in questo genere di soggetti per riprodurre con realismo gli animali. Tuttavia questa esposizione non si limita a restituire meccanicamente le fonti, ma cerca di immaginare la collezione di stampe appartenute a Ceruti. Volutamente non abbiamo inserito le incisioni a fianco dei dipinti ma abbiamo voluto riunirle tutte insiemeper dimostrare ancora una volta la curiosità di questo artista e la sua capacità di passare da un ambito figurativo a un altro”.
Giacomo Ceruti, Scuola di ragazze, 1720-1725 circa, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo | © Archivio fotografico Civici Musei di Brescia / Fotostudio Rapuzzi
A partire dal 18 luglio Ceruti volerà a Los Angeles, protagonista della mostra The Compassionate Eye a cura di Davide Gasparotto, realizzata in collaborazione con Getty Museum. Cosa ci sarà di diverso rispetto al percorso a Brescia?
“La mostra di Los Angeles si concentra principalmente sulla produzione pauperistica di Ceruti, dando conto degli anni bresciani. La scelta è stata quella di puntare sulla parte più caratteristica della sua pittura, quella degli umili. Questo è un tema che negli Stati Uniti è di grande attualità. Los Angeles è particolarmente legata al tema degli homeless che in città sono 70mila. C’è la necessità di riflettere, anche attraverso l’arte, sulla condizione di questi emarginati".
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