Alla scoperta di un tesoro degli Uffizi

A me gli occhi: la Venere di Urbino e la seduzione dello sguardo

Tiziano Vecellio, Venere di Urbino, 1538, Olio su tela, 119.2 x 165.5 cm, Firenze, Gallerie degli Uffizi
 

Francesca Grego

16/03/2020

Firenze - Lo sguardo proteso oltre i confini del quadro, i riccioli dorati e sensuali, le carni inondate di luce che poggiano morbide sul lenzuolo scomposto: la Venere di Urbino si offre languida allo spettatore, con gesto ambiguo tra il pudore e l’invito. Di nudi femminili è piena la storia dell’arte, ma nessuno ti interpella così, a viso aperto, gli occhi che sfidano gli occhi. Un capolavoro avvezzo all’adorazione come allo scandalo: se il primo proprietario descrisse la protagonista come “la più bella donna ignuda” mai vista, nell’Ottocento Mark Twain parla del “quadro più indecente, più vile, più osceno che il mondo possieda”, per poi dissimulare il turbamento vittoriano definendo l'opera “una sciocchezza troppo forte per ogni posto, se non per una galleria d’arte pubblica”. Dalle richiestissime repliche e varianti cinquecentesche fino alle preziose copie di Ingres, che cita il dipinto nella Grande Odalisca, la fortuna della Venere di Tiziano è salda e duratura. E agli albori del moderno la sua ispirazione fluisce in un altro discusso capolavoro: l’Olympia di Èdouard Manet, foriera di ancor maggiori inquietudini.


Édouard Manet 1863, Parigi, Olio su tela, 130.5 x 190 cm, Parigi Musée d'Orsay

Ma qual è l’origine del gioiello di Tiziano?
Probabilmente a commissionarlo fu Guidobaldo II della Rovere, rampollo del duca di Urbino e Montefeltro. Sappiamo che nel marzo del 1538 il giovane sollecita il suo agente a Venezia per l’acquisto di un nudo del Maestro. Tiziano è un artista in voga e il lavoro si rivela alquanto costoso. Dopo aver inutilmente invocato l’aiuto della madre Eleonora Gonzaga, Guidobaldo prega il pittore di non vendere il dipinto ad altri: se necessario, impegnerà qualcosa di suo pur di averlo. Riuscirà nell'impresa, e il suo “capriccio” darà lustro alla collezione della corte di Urbino, dove mecenatismo e cultura dominano la scena.

Chi è la donna rappresentata?
Nonostante la bellezza della giovane ritratta e la chiara allusione ai piaceri dell’amore, l’opera non nasce con il titolo di Venere, assegnatole più tardi da Giorgio Vasari. Guidobaldo chiese a Tiziano semplicemente una “donna ignuda”. Il Maestro cadorino si servì probabilmente della stessa modella che appare nella Bella di Palazzo Pitti, nella Donna in pelliccia del Kunsthistorisches Museum Vienna e nella Fanciulla dal cappello piumato dell’Ermitage: secondo alcuni un’amante del pittore di cui non si conosce il nome.
Nel quadro i raffinati arredi della stanza e i gioielli della donna fanno pensare a una giovane nobile cinquecentesca. Forse Giulia da Varano, la sposa adolescente di Guidobaldo? C’è chi dice che il futuro duca commissionò il dipinto per persuaderla al connubio amoroso. L’ambientazione, tuttavia, è tipicamente veneziana. Di certo c'è che, abbandonato ogni pretesto mitologico, bellezza e sensualità si declinano per la prima volta in dimensione contemporanea e quotidiana, calandosi pienamente nei costumi del Rinascimento.



Che cosa racconta il dipinto?
Tiziano ci riporta alla memoria un rito dimenticato, noto a Venezia come il “toccamano”: una cerimonia non religiosa in cui le fanciulle richieste in matrimonio esprimevano il proprio consenso sfiorando la mano del futuro marito. Qui la giovane sposa attende di essere abbigliata per l’occasione, mentre due ancelle si affaccendano in fondo alla stanza: una fruga nel cassone istoriato, mobile tradizionalmente legato alle nozze, l’altra regge un sontuoso abito color oro e azzurro pronto per essere indossato. Distesa sul letto con ammiccante sensualità, la protagonista si disinteressa a quanto si svolge dietro di lei, assorta forse nel pensiero dei piaceri futuri.

Quali simboli si celano nella scena descritta da Tiziano?
Mentre la bella Venere assapora un momento irripetibile, una trama fitta di simboli si dispiega intorno a lei. Dietro oggetti comuni si nasconde una guida alla vita amorosa e matrimoniale: nulla di strano per gli spettatori del Rinascimento, avvezzi a leggere un quadro come un libro di allegorie. Così le rose rosse che la giovane tiene in mano alludono alla bellezza, ma anche alla sua caducità, mentre il cagnolino addormentato ai piedi del letto è un richiamo alla fedeltà coniugale e l'orecchino con la perla a goccia significa purezza. Sul davanzale il vaso di mirto, pianta sacra alla dea dell’amore, è poi un’esortazione alla costanza, e qualcuno ha visto nel cassone un riferimento alla maternità futura. Un programma didattico in piena regola che Guidobaldo sembra offrire alla giovane moglie: cura la bellezza e lasciati andare al piacere, ma solo con il tuo legittimo sposo; fai la brava perché presto invecchierai e potrai solo raccogliere i frutti delle scelte passate. Altro che trasgressione.



Tiziano inventa la sua Venere di sana pianta?
Assolutamente no. Tiziano reinterpreta un’iconografia di grande successo fin dall’antichità: quella della Venere pudica che vede la dea, completamente nuda, coprirsi il pube con il palmo della mano. Non a caso agli Uffizi, dove ancora oggi è possibile ammirarlo, per molto tempo il dipinto è stato esposto accanto alla Venere de’ Medici: un confronto ai vertici tra due bellezze conturbanti, quella classica e ideale della statua antica e quella moderna e carnale uscita dalla fantasia del Vecellio.
Anche nel Rinascimento il modello della Venere pudica gode di notevole fortuna: possiamo ricondurvi, per esempio, la Venere dormiente di Giorgione, un capolavoro ben noto a Tiziano. Qui gli occhi chiusi della dea la collocano in un mondo distante dallo spettatore, rendendo il richiamo erotico meno esplicito.

Quali scelte pittoriche fanno della Venere di Urbino un capolavoro?
La pittura di Tiziano si basa su un uso sapiente e rivoluzionario del colore. Luci, spazi, volumi, superfici prendono forma attraverso la stesura graduale di pennellate tono su tono, in velature sovrapposte. Rispetto ai Maestri del Rinascimento fiorentino come Michelangelo, il risultato è più delicato, quasi di fusione tra il soggetto e l’ambiente circostante. Nella Venere di Urbino l’artista cadorino conferma la sua straordinaria capacità di conferire carattere e intensità ai personaggi, nonché il talento ineguagliabile nel restituire la morbidezza degli incarnati e la qualità dei diversi materiali. Lo notiamo nella figura della dea, che spicca calda e luminosa contro lo sfondo scuro o il rosso dei materassi sovrapposti. La linea della parete sullo sfondo guida con scaltrezza l’occhio verso l’inguine, per poi risalire lungo il ventre e il petto, fino al volto e ai riccioli civettuoli.