Come ispirazione il cinema
courtesy of © Elisabetta Benassi |
You'll never walk alone
07/05/2001
Molti artisti oggi, nei loro lavori, fanno riferimento alla memoria, alla storia sia personale che collettiva, e lo fanno attingendo a materiali diversi. Il cinema è uno di quelli, il più utilizzato per chi fa fotografia, video, per essere un immenso archivio di riferimenti culturali, poetici, e per la possibilità che offre di prenderne dei frammenti e di reinserirli in un discorso individuale. Mario Airò preleva in modo spregiudicato elementi della cultura letteraria, musicale e cinematografica e questi emergono improvvisamente nei suoi lavori. Scopertamente allude al grande cinema nei titoli “La lune dans le canniveau” (1994), “Il fiore delle mille e una notte tutte le risate” (1995), “Betty Blue” (1997). Nel lavoro “Quel pomeriggio qui sulla terra” (Galleria Sales, Roma 1998) utilizza un testo tratto dalla sceneggiatura di “Soigne ta droite” di Jean Luc Godard dal quale prende anche le immagini. Si riallaccia al film di Coppola “Rumble fish” (Rusty il selvaggio, 1883) quando inserisce un acquario nell’ultima installazione “Una stanza per il compositore Danilo Cherni” alla G.A.M. di Torino. Anche per i torinesi Botto & Bruno (invitati alla prossima Biennale di Venezia) il cinema è presente come ispirazione (“Piovono le pietre” di Ken Loach o “L’odio” di Kassovitz, insieme alla musica dei Sonic Youth e alla letteratura) delle loro metafisiche periferie urbane realizzate da infiniti frammenti di foto e che portano in alcuni titoli, “My Beautiful box I, II, III”, un chiaro riferimento al film “My beautiful Laundrette” di Stphen Frears. Simile è il caso della bolognese Ottonella Mocellin che lavora sull’interazione tra il sociale e l’individuale e per far questo si serve di elementi tratti dalla letteratura, dalla musica, dal cinema. La Mocellin racconta alcune storie, le sue o di altri, e lo fa attraverso performances, fotografie, video nei quali sovrappone sia visivamente che oralmente citazioni o brani scritti da lei stessa. I testi servono ad ampliare o a trasformare l’esperienza personale per parlare dell’identità odierna in un mondo in cui i ruoli sociali sono completamente cambiati. Il cinema o i suoi grandi personaggi servono alla Mocellin ad indagare sugli stereotipi e sui modelli del passato. Un esempio è la recente performance realizzata con Nicola Pellegrini alla Fondazione Adriano Olivetti, dal titolo “Il gioco della verità”. Dietro ad una vetrina scorre, in uno schermo, il video “Hurt so Good”. Davanti al video i due protagonisti giocano in una gara a due in cui a braccia distese cercano di colpire ognuno il dorso della mano dell’altro. Durante l’azione si sentono le voci dei protagonisti di film famosi come “Baci rubati”, “Hiroshima mon amour”, “Incontri a Parigi”, “Quattro notti di un sognatore”, “Bianca” i cui dialoghi spingono i due performer a scrivere sulla vetrina, fino a riempirla tutta, domande sull’amore e sul sesso. Si vengono a creare tra gli spettatori al di qua della vetrina e gli attori complesse interazioni sollecitate da emozioni personali, ricordi e tutto quel mondo di immagini e sensazioni che solo il grande cinema sa darci. Grazia Toderi si serve del cinema per realizzare una continua intersezione e coincidenza tra la quotidianità e la fantasia. Per esempio si serve del film “Il mago di Oz” in uno dei suoi primi video in cui un astronauta semisdraiato guarda il piccolo schermo posto di traverso sul quale scorrono le immagini del film. Il video ribalta quello che il film vuole dire e cioè che tutte le figure incontrate nel regno di Oz non sono altro che le persone che popolano la vita di una fattoria del Kansas. Nel video, il magico mondo di Oz è a colori, mentre la realtà, il quotidiano è in bianco e nero. La Toderi dedica al cinema anche il lavoro “Il fiore delle Mille e una notte” un titolo e otto notturni ispirati all’opera di Pier Paolo Pasolini e ambientati a Bagdad, città recentemente vista in televisione sotto una guerra che appariva lontana, quasi un videogioco e che nella nostra fantasia rimane luogo di fiabe, di deserti, di sogni.
A Pier Paolo Pasolini è dedicato anche il video di Elisabetta Benassi (unica italiana invitata alla recente Biennale di Berlino) dal titolo “You’ll never walk alone” (2000). Il video è strutturato come una fiction. Assistiamo all’incontro tra l’alter ego dell’artista, Bettagol, e un sosia di Pasolini in un tempo rallentato che trasforma l’azione dei due protagonisti in un mondo di memoria e immaginazione. Il sonoro del video è tratto dal film “Uccellacci e Uccellini” e alcuni fotogrammi sono tratti dal Vangelo secondo Matteo mentre la figura dello scrittore è evocata da un giro in motocicletta per le strade di Roma e da alcune azioni col pallone scambiate in uno stadio deserto. La Benassi dunque si rivolge al grande cinema per parlare con serietà ma anche con ironia della nostra vita, delle nostre scelte, di quanto pensiamo e di come agiamo. Si serve di Pasolini per riflettere sull’arte e sul destino di ogni artista che si trova oggi ad operare tra una ricca eredità culturale e una confusa attualità quotidiana.
Per Francesco Vezzoli (invitato alla prossima Biennale di Venezia) il cinema è una ossessione. Realizza infatti alcuni video prendendo le icone più famose della filmografia recente spiazzandone il senso e il ruolo. Inizia dal 1998 una sua personale trilogia dal titolo “An Embroired trilogy” costituita da tre video diversi dei quali ha progettato dettagliatamente la sceneggiatura, i protagonisti, la colonna sonora, il suo intervento come attore e chiamando a girarli registi famosi. Il primo, “OK The Praz is Right” si svolge nella casa museo di Praz dove Iva Zanicchi canta “La riva bianca, la riva nera” mentre l’artista stesso ricama a piccolo punto, seduto su un divano, il ritratto di Praz. Il film è girato da John Maybury conosciuto come regista della vita di Bacon, delle performances di Leigh Bowery. Spiazza pertanto l’immagine che noi abbiamo del regista inglese per farlo entrare nel mondo intellettuale e colto di Mario Praz dove fa esibire una diva di Sanremo. Il riferimento è al “Gruppo di famiglia in un interno” di Luchino Visconti, film cult per Vezzoli che si ricorda della canzone “Solitudine” cantata in quel film dalla stessa Zanicchi e a Visconti, grande appassionato del piccolo punto. Il secondo video si intitola “Il sogno di Venere” e porta la firma di Lina Wertmuller, la fotografia di Blasco Giurato (il fotografo di Nuovo Cinema Paradiso) ed è girato tra il night club Officina di Roma e la casa di Suso Cecchi D’Amico dove, sul divano, ricamato da Silvana Mangano, dorme Franca Valeri. L’attrice sogna di essere finalmente una diva e, vestita da Capucci, tenta di ballare con la musica elettronica del gruppo tedesco Kraftwerk, mentre Vezzoli continua il suo ricamo su una moto. Per il terzo video della trilogia, dal titolo “The End” (teleteatro), Vezzoli chiama Carlo di Palma, il direttore della fotografia di memorabili film di Antonioni e di Woody Allen, a girare un’altra straordinaria sua sceneggiatura con la partecipazione di Valentina Cortese ripresa all’interno della sua casa dannunziana mentre recita “Help” dei Beatles come fosse un dramma di Shakespeare. Il lavoro di ricamo che Vezzoli sta portando avanti, una tessitura che coinvolge i miti del cinema, si conferma negli altri lavori di cui lui stesso è regista. “A love Trilogy: Self Portrait with Marisa Berenson as Edith Piaf” (2000) è un breve excursus sulla vita della cantante che amava anch’essa lavorare a piccolo punto. Nella parte della cantante appare, spiazzandone l’immagine di artista delle cantine parigine, la bellissima Berenson che si muove regalmente nella villa Gardini e, in vestito da sposa, abbandona sull’altare lo sposo interpretato dallo stesso Vezzoli. La regia fa espliciti riferimenti al cinema di Visconti e si avvale di una sorta di prologo ispirato a “Le Bel Indifferent” scritto da Jean Cocteau per Edith Piaf. Ancora al mito di Visconti è dedicato l’ultimo video di cui Vezzoli è regista e nel quale un invecchiato Helmuth Berger, ripreso nella casa tutta arredata con i mobili del Ludwig, gioca ad essere Alexis di Dinasty, la perfida protagonista della soap opera più famosa della televisione, e ha una concitata conversazione con Vezzoli, nella parte del figlio, che si conclude con un bacio. Il giovane artista utilizza il suo grande amore, la sua ossessione per il cinema, per gli attori, per i registi, per la musica, vi mescola le immagini riprese dall’arte figurativa evidenziandone tratti decadenti. La sua passione non conosce ostacoli nel convincere personaggi famosi a piegarsi alle sue fantasie per parlarci di un mondo contemporaneo che deve continuamente rivedere i suoi modelli usciti dal mondo superficiale, mobile, fluttuante del cinema e della televisione.
Al cinema fa riferimento anche il lavoro di Pierre Huyghe (invitato nel padiglione francese della prossima Biennale di Venezia) per scoprirne i meccanismi di costruzione e funzionamento. C’è uno sguardo al pensiero strutturalista nella sua idea di cinema come scrittura, nella sua tendenza alla decostruzione degli ingranaggi che lo determinano, nel voler porre lo spettatore di fronte alla rappresentazione in modo critico, attivo, consapevole.
Nel 1995 in un remake di “La finestra sul cortile” di Hitchock, Huyghe riproduce la stessa sequenza usando attori sconosciuti fatti lavorare in una casa nei sobborghi di Parigi. Il film originario diventa soggetto ad una interpretazione giornaliera, soggettiva, condizionata tuttavia dal modello di partenza. Nell’installazione video “L’Ellipse” del 1998 appaiono tre proiezioni, due delle quali, situate in due diversi quartieri parigini, fanno parte del film di Wim Wenders “L’amico americano” (1977) interpretato dall’attore Bruno Ganz. Al centro, Huyghe riutilizza lo stesso attore, più vecchio di venti anni, mentre attraversa un ponte sulla Senna in modo da collegare idealmente e narrativamente tra di loro i due spazi. Si confondono finzione e realtà. Nel 1999 Huyghe ricostruisce in video la storia di John Wojtowicz, l’uomo che rubò la cassa della Manhattan Bank nel 1972 e che fu oggetto di un film di Sidney Lumet “Un pomeriggio da cani” del 1975 interpretato da Al Pacino. Il video prova a ricostruire quello che è accaduto cercando di mettere ordine tra quello che Wojtowicz fece, quello che ne scrisse la stampa e quello che veniva ricostruito nel film.
Il cinema viene utilizzato per riflettere sul concetto e sulla trasformazione del linguaggio e delle immagini. Questo punto di partenza dà luogo ad una quantità di memorie, rimandi, connessioni che si mescolano a riflessioni private. Nasce una nuova visione che prelude a più ambigue, affascinanti e profonde conoscenze di sé e del mondo.
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