Al cinema il 30 e il 31 gennaio
Grace Jones, musa di Warhol e artista a tutto tondo, protagonista di un film
Grace Jones | Foto: © Andrea Klarin
Samantha De Martin
12/01/2018
Quando Keith Haring ne dipingeva il corpo in occasione di alcune esibizioni al Paradise Garage di New York, mentre Helmut Newton ne immortalava gli occhi, il respiro e le ossa, apprezzando quelle gambe che considerava le più belle di tutte, o Andy Warhol la replicava in nove identiche fotografie in bianco e nero, con tanto di berretto, sciarpa e pelliccia, si capiva già che Grace Jones, esotica diva delle passerelle, disibita ed esuberante dea dell’intrattenimento e regina del palcoscenico dal traumatico passato, vantava tra le sue innumerevoli doti, il fascino della musa.
Ed è certo elettrizzante pensare che un film, in uscita nelle sale il 30 e il 31 gennaio, possa racchiudere in 115 minuti tutta la vita e la carriera dell’icona della musica e della cultura Pop, che si cela dietro la maschera indossata dall’artista sul palcoscenico.
Distribuito da Officine Ubu, Bloodlight and Bami porta sul grande schermo l’audace, grafica, elegante estetica di Jones, grazie al sapiente lavoro della regista Sophie Fiennes, capace di tessere un’esperienza cinematografica di grande potenza accostando sequenze musicali, riprese intime e materiale personale, per ritrarre nel modo il più possibile fedele alla realtà l’amante, la figlia, la madre, nonna e sorella, Grace, una donna senza filtri celata dietro la maschera da diva.
Le radici familiari e la sensualità dell’isola che ha dato i natali all’artista giamaicana e che riecheggia prepotente in Grace, cedono il posto al palcoscenico, punto fermo della pellicola e cuore pulsante del film.
L’artista - che ha collaborato con nomi del calibro di Keith Haring e Chris Blackwell, e fotografi di fama mondiale, da Helmut Newton a Guy Bourdin, da Hans Feurer a Chris von Wangenheim, da Richard Avedon a Jean-Paul Goude - viene ritratta tra Tokyo, Parigi, Mosca, Londra e New York, in sala di registrazione o mentre discorre nel backstage con alcune fan in merito alla sua famosa apparizione televisiva al Russell Harty.
Le origini giamaicane della musa emergono anche dal titolo del film, in quel “Bloodlight”, che allude alla luce rossa che si accende quando un artista è impegnato in una registrazione in sala d’incisione, o in “Bami”, la focaccia giamaicana fatta con farina e tapioca, e che simboleggia la sostanza della vita. Si adagia sulle le note di Love Is The Drug, l’ultimo atto della pellicola che consegna al pubblico una delle scene più toccanti del film, affidate all’incontro con il fotografo francese ed ex compagno Jean Paul Goude, creatore delle iconiche copertine degli album di Jones. Ed è soprattutto in questi istanti, tra queste scene, che si compie l’apoteosi di una Grace mai vista prima, che si mostra come un’icona capace di vivere a 360 gradi, tra mille contraddizioni e sfaccettature.
«Inizialmente ho incontrato Grace per parlarle di un mio film incentrato sulla Chiesa di Los Angeles di suo fratello maggiore Noel - spiega la regista Sophie Fiennes - e in quell’occasione mi aveva detto “Tu capisci da dove io provengo”. Improvvisamente si è alzata in piedi, ha battuto le mani e ha detto “Amo il profumo del tuo film”. Ci siamo sentite da subito molto vicine. Per cinque anni ho raccolto un’enorme quantità di materiale. Successivamente è arrivato il momento di selezionare e pensare a cosa avrei potuto creare per raccontare tutto quello che avevo trovato su Grace. Una volta rintracciate le notizie, mi sono resa conto di quanto fossi affascinata dal forte contrasto tra ciò che era estremamente naturale - in termini di luce, pelle, suoni e colori - e ciò che invece era artificiale, ovvero tutto ciò che riguardava Grace nella sua vita reale, lavorativa e pubblica di tutti giorni, dalla metropoli al trucco in volto, dalle suites degli hotel ai palcoscenici».
In questo viaggio nell’anima di Grace - che quando cominciò a cantare come professionista, la prima volta in uno studio di registrazione, tutta tremante, si bloccò completamente - lo spettatore ha come l’impressione di trovarsi a tu per tu con l’artista, capace di passare da un accento all’altro, sciorinando ora quello l’inglese, ora quello giamaicano, ora il giapponese, come le tante maschere richieste dai suoi innumerevoli ruoli, sul grande palcoscenico della sua multiforme esistenza.
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• La grande arte al cinema. Gli appuntamenti del 2018
Ed è certo elettrizzante pensare che un film, in uscita nelle sale il 30 e il 31 gennaio, possa racchiudere in 115 minuti tutta la vita e la carriera dell’icona della musica e della cultura Pop, che si cela dietro la maschera indossata dall’artista sul palcoscenico.
Distribuito da Officine Ubu, Bloodlight and Bami porta sul grande schermo l’audace, grafica, elegante estetica di Jones, grazie al sapiente lavoro della regista Sophie Fiennes, capace di tessere un’esperienza cinematografica di grande potenza accostando sequenze musicali, riprese intime e materiale personale, per ritrarre nel modo il più possibile fedele alla realtà l’amante, la figlia, la madre, nonna e sorella, Grace, una donna senza filtri celata dietro la maschera da diva.
Le radici familiari e la sensualità dell’isola che ha dato i natali all’artista giamaicana e che riecheggia prepotente in Grace, cedono il posto al palcoscenico, punto fermo della pellicola e cuore pulsante del film.
L’artista - che ha collaborato con nomi del calibro di Keith Haring e Chris Blackwell, e fotografi di fama mondiale, da Helmut Newton a Guy Bourdin, da Hans Feurer a Chris von Wangenheim, da Richard Avedon a Jean-Paul Goude - viene ritratta tra Tokyo, Parigi, Mosca, Londra e New York, in sala di registrazione o mentre discorre nel backstage con alcune fan in merito alla sua famosa apparizione televisiva al Russell Harty.
Le origini giamaicane della musa emergono anche dal titolo del film, in quel “Bloodlight”, che allude alla luce rossa che si accende quando un artista è impegnato in una registrazione in sala d’incisione, o in “Bami”, la focaccia giamaicana fatta con farina e tapioca, e che simboleggia la sostanza della vita. Si adagia sulle le note di Love Is The Drug, l’ultimo atto della pellicola che consegna al pubblico una delle scene più toccanti del film, affidate all’incontro con il fotografo francese ed ex compagno Jean Paul Goude, creatore delle iconiche copertine degli album di Jones. Ed è soprattutto in questi istanti, tra queste scene, che si compie l’apoteosi di una Grace mai vista prima, che si mostra come un’icona capace di vivere a 360 gradi, tra mille contraddizioni e sfaccettature.
«Inizialmente ho incontrato Grace per parlarle di un mio film incentrato sulla Chiesa di Los Angeles di suo fratello maggiore Noel - spiega la regista Sophie Fiennes - e in quell’occasione mi aveva detto “Tu capisci da dove io provengo”. Improvvisamente si è alzata in piedi, ha battuto le mani e ha detto “Amo il profumo del tuo film”. Ci siamo sentite da subito molto vicine. Per cinque anni ho raccolto un’enorme quantità di materiale. Successivamente è arrivato il momento di selezionare e pensare a cosa avrei potuto creare per raccontare tutto quello che avevo trovato su Grace. Una volta rintracciate le notizie, mi sono resa conto di quanto fossi affascinata dal forte contrasto tra ciò che era estremamente naturale - in termini di luce, pelle, suoni e colori - e ciò che invece era artificiale, ovvero tutto ciò che riguardava Grace nella sua vita reale, lavorativa e pubblica di tutti giorni, dalla metropoli al trucco in volto, dalle suites degli hotel ai palcoscenici».
In questo viaggio nell’anima di Grace - che quando cominciò a cantare come professionista, la prima volta in uno studio di registrazione, tutta tremante, si bloccò completamente - lo spettatore ha come l’impressione di trovarsi a tu per tu con l’artista, capace di passare da un accento all’altro, sciorinando ora quello l’inglese, ora quello giamaicano, ora il giapponese, come le tante maschere richieste dai suoi innumerevoli ruoli, sul grande palcoscenico della sua multiforme esistenza.
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