L’ARCHITETTURA POP

Pop Art
 

25/02/2004

Sebbene non si possa parlare strettamente di un’architettura Pop, gli artisti di quegli anni si lanciarono in progetti di strutture architettoniche che –seppure per la maggior parte volutamente irrealizzabili e ‘kitsch’ - testimoniano il carattere sperimentale e dunque la volontà di uscire dagli schemi rigidi della cultura degli anni Cinquanta. Nella grande diversità di espressione un punto accomuna senza dubbio i gruppi di architetti austriaci, inglesi e statunitensi e cioè il ricorso all’ideologia del consumo, del ‘usa e getta’, dell’effimero e deperibile. Si afferma la cultura di un immaginario legato ad un fine non utilitaristico che si sostituisce all’applicazione dei criteri di efficienza architettonica: è il trionfo del senso estetico fine a se stesso e qualsiasi materiale può diventare veicolo di espressione artistica dei nuovi valori. L’architettura non è concepita per durare nel tempo attraverso le generazioni, ma diviene un mezzo, uno strumento che si evolve e quindi cambia con la società: da qui la sperimentazione di nuovi materiali anche di oggetti di uso quotidiano: lattine, bottiglie, generi alimentari in un misto fra pittura, scultura e arte cinematografica. Gli artisti si ispirano alle grandi strade delle città americane, ai grandi supermercati, alle dive e ai divi del cinema e della musica, della televisione, ai sottomarini, ai lecca-lecca ai colorati cartelli pubblicitari, agli eroi dei fumetti come Flash Gordon. Ed è precisamente in riferimento alle immagini evocate dal Pop che la rivista inglese Archigram parla di architettura, di urbanesimo, di possibili modi di vita: immagini di megalopoli, strade e costruzioni improbabili , mobili del futuro che si muovono e si trasformano continuamente come la ‘House of Futur’ di Alison e Peter Smithson (1956) o la ‘Maison du Futur’ (1966-67) di d'Angela Heiter o ancora la ‘Casa Futura’ di Matti Suuronen (1968.