La libertà del segno: Giuseppe Capogrossi

Un'opera di Giuseppe Capogrossi
 

18/02/2002

È stata una svolta, improvvisa e radicale, a segnare il percorso artistico di un indiscusso talento del Novecento italiano: Giuseppe Capogrossi (1900-1972). Nel 1949, “improvvisamente, senza alcun segno premonitore, abbandonò il figurativo per l’astratto, il mestiere per la fantasia”. Così M. Seuphor, chiarisce, nelle pagine della prima monografia dedicata al pittore, il carattere dell’eclatante cambiamento che Capogrossi ha impresso alla sua pittura. L’artista, esordisce infatti nel 1927 a Roma e per due decenni propone un tipo di pittura figurativa che si accosta molto alla poetica metafisica di Morandi, accentuando sempre più la ricerca tonale e ponendosi così in una posizione autonoma nell’ambito della “Scuola Romana”, a cui lo stesso Capogrossi aveva partecipato, negli anni ‘30, assieme ad artisti come Afro, Leoncillo e Scipione. Fin da allora era chiara l’attitudine dell’artista a ridurre i soggetti delle sue opere in motivi ripetuti in un’elaborazione incessante (“Il poeta sul Tevere”- “Piena sul Tevere”), mai integrati in una dimensione tridimensionale e semmai essi stessi segnali di uno spazio costruito non più sulle leggi prospettiche ma sulla suggestione che da essi trae lo spettatore. Tutto tendeva nella pittura di Capogrossi, ancora in tempi non sospetti, ad essere caricato di valore simbolico o meglio ancora a divenire segno sotto l’egida del pittore; ma ancora il grande salto non era stato compiuto e la “cifra” più personale non era emersa a firmare indelebilmente l’opera di un artista, che molto avrebbe dato alla corrente dell’Informale in Italia. Ciò accade fra il 1949 e il 1950, una data che lo stesso pittore ha assunto a simbolo del suo irreversibile cambiamento . Erano gli stessi anni in cui Burri e Fontana, attraverso altre vie, aprivano ad un’analoga “rivoluzione”, tutto era pronto già da tempo ad accogliere il dirompente mutamento di forma e contenuto di Capogrossi, eppure il rumore della sua inversione ancora risuona a distanza di anni. Improvvisamente si impone in tutte le sue opere un unico segno che riproducendosi all’infinito ripropone algebricamente l’essenza più intima del pittore. “Questo artiglio, questa mano, questo tridente, questa forca è già uno stile” dirà sempre Seuphor, uno stile che libera il suo inventore, pur nella sua ossessiva reiterazione, da qualsiasi convenzione poetica ed artistica. Del resto sarà lo stesso Capogrossi ad affermare quanto in quel segno abbia trovato “la libertà, la felicità, la pienezza del proprio essere, l’espressione diretta del proprio esistere”. Dalla “superficie 8” alla “superficie 124” non viene mai mutata la struttura della sua invenzione; eppure le sue opere non hanno nulla di “seriale”, tutto si trasforma attraverso l’imprevedibile accostamento di colori, sapientemente orchestrati. Un’apparente ordine precostituito non riesce e non vuole nascondere l’imprevedibilità delle leggi della vita, questo più di ogni altra cosa ci comunicano i lavori di Capogrossi, inventore di un “ritmo” ossessivo e primitivo che ancora con grande forza cattura l’attenzione di ogni spettatore.

 
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