La pittura come liberazione

Frida Kahlo
 

31/07/2001

“La mia opera: la biografia più completa che potrebbe mai essere realizzata su di me.” F.Kahlo Frida Kahlo, di padre tedesco e madre messicana, era nata nel 1907 a Coyoacan, un bel quartiere di Città del Messico. Era una ragazzina molto vivace, un po’ “enfant terrible” rispetto alle sue due sorelle, e la prediletta del padre fotografo, cultore di musica e filosofia che ne aveva subito intuito la singolare intelligenza. Epoca di grande vitalità, gli anni ’20 in Messico consideravano l’arte, al pari della scienza, una dinamica essenziale al progresso. La scuola era diventata uno dei centri della rinascita degli ideali patriottici messicani post-rivoluzionari. Veniva esaltato il ritorno alle origini e valorizzata l’appartenenza a radici indigene. Parallelamente, vi era una tendenza ad attingere all’eredità occidentale, grazie a una politica la cui massima ambizione culturale era di porre i classici, in qualsiasi campo, alla portata di tutti. Si assisteva, inoltre, al grande sviluppo dei primi pittori di murales messicani, José Clemente Orozco, Diego Rivera, David Alfaro Siqueiros, che dovevano contribuire a mettere l’arte, mezzo di comunicazione di ideali e testimonianza della storia, al servizio delle masse. Frida era liceale presso la Escuela Nacional Preparatoria, culla di qualche generazione di scienziati, universitari, intellettuali e uomini di stato. Per merito di suo padre vi studia con la prospettiva di diventare medico. Fu lì che vide per la prima volta Diego Rivera intento alla pittura di un grande murale dal titolo “La creazione”. Ne fu impressionata e più tardi, con quella determinazione tipica di un’adolescente volitiva, dirà alle amiche: “Io avrò un figlio da Diego Rivera!”. Era il 1922. Lo sposò nel 1928; divorziò da lui nel 1939 per risposarlo nel 1940. Fu un sodalizio basato soprattutto sulla complicità nell’arte che durò tutta la vita. Il destino di Frida era però segnato dalla sofferenza fisica: prima la poliomielite, poi un terribile incidente la ridussero ad un’invalidità permanente, costringendola a subire 32 operazioni e a perdere per tre volte quei figli che avrebbe voluto avere dal marito. Segnata dal dolore, ma dotata di una vitalità fuori dal comune, si salvò con la pittura. La sua vocazione venne spontaneamente, quando si trovava inchiodata a letto, e si guardava ad uno specchio collocato sopra di lei. Autodidatta, si dedicò da prima all’autoritratto, poi ai ritratti dei familiari e degli innumerevoli amici come ad una specie di diario, come se fosse la corrispondenza di tutta una vita. Usò quindi la pittura come una liberazione, rappresentando temi della sua vita interiore con una vena surrealista. I temi: la nascita, il suicidio, l’allattamento al seno, l’incidente, la fecondazione, la mancata maternità, il feto, le operazioni, il sangue… La pittura le si schiude sotto una duplice pressione: uno specchio che, sospeso sulla sua testa, l’assilla, e tutto il suo fondo di dolore che risale in superficie; due elementi essenziali, congiunti, e… la pittura arriva.

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