LE NUOVE ICONOGRAFIE

 

25/05/2001

Gli anni in cui Caravaggio è attivo sono anni di grandi trasformazioni culturali: nei dipinti religiosi la Controriforma la fa da padrona, e nel suo caso personale la forte influenza di chi propone un ritorno alle origini della Chiesa, come Federico Borromeo e Filippo Neri, sono fondamentali per opere che vedono protagoniste le figure popolari. Nella pittura profana dominano dipinti raffiguranti bari, zingare che predicono la buona ventura, temi musicali e nature morte. Caravaggio si distingue in ognuna di queste iconografie. Il quadro con “I bari” (Fort Worth, Kimbell Art Museum) è quello che segna l’inizio del successo del Merisi che, grazie ad esso, si trasferisce nella residenza del cardinal del Monte. In questa tela due loschi figuri, quello di spalle e quello in piedi, beffano un ingenuo ragazzo. L’uomo al centro, che indossa il guanto bucato tipico del baro, che così può riconoscere al tatto le carte segnate, scruta le carte del giovane e le suggerisce al suo “compare” che nasconde i pezzi vincenti nelle pieghe del vestito. I tre personaggi vestono tessuti pregiati che Caravaggio riproduce nei minimi particolari: motivi floreali e persino giochi di luce cangianti propri del velluto. Stessa caratteristica nelle vesti di un altro celebre quadro acquistato dal cardinal del Monte: “La buona ventura” oggi conservato nella Pinacoteca Capitolina. Ancora una volta la storia di un inganno viene palesata all’osservatore. La donna sulla sinistra è facilmente identificabile con una zingara dal suo turbante e dal lungo mantello di panno di lana portato di traverso sulla spalla. Proprio questa donna, mentre legge la mano al suo cliente, gli sottrae un anello dal dito. L’opera in seguito verrà ripetuta da Caravaggio (oggi al Louvre). Questi due temi sono certamente ispirati alle scene che molto spesso dovevano essere viste sul finire del ‘500 tra le strade e soprattutto nelle locande. Lo storico dell’arte fiammingo Karel van Mander, vissuto allora, ricorda i rischi per chi giungeva per la prima volta nella città eterna in quegli anni: “vi inviterei ad andarci se non avessi paura che vi traviaste perché Roma è la città che, sopra ogni luogo, potrebbe rendere fruttuoso il viaggio di un artista, essendo la capitale delle scuole di pittura, ma è anche il posto dove gli spendaccioni e i figli prodighi sperperano ciò che possiedono”. A fine XVI secolo e nei primi trent’anni del secolo successivo si diffonde rapidamente la moda della letteratura picaresca in gran parte dei paesi europei. Le iconografie caravaggesche seguono questa fortuna, e i pittori che si pongono sulla sua scia ripetono innumerevoli volte questi temi che, in alcuni casi, vengono addirittura fusi insieme: una tela di Nicolas Regnier, esposta a Palazzo Venezia, mostra al centro una scena che si svolge su un tavolo dove si gioca a carte, e proprio il giovane beffato viene distratto da una scena sulla destra con una buona ventura ingannatrice. Tali scene vengono ripetute, tra gli altri, da Bartolomeo Manfredi, Simon Vouet, Valentin de Boulogne. Per quanto riguarda le tematiche musicali il Merisi si riallaccia alla grande tradizione veneta, cui dà tratti nuovi. Sembrano essere cinque le tele di Caravaggio che danno origine alla grande fortuna di temi musicali: due versioni de “Il suonatore di liuto” per il cardinal del Monte ed il marchese Giustiniani (rispettivamente al Metropolitan e all’Ermitage), “I musici” ancora per il del Monte (Metropolitan); “Amor Vincit Omnia” per Vincenzo Giustiniani (Berlino, Gemäldegalerie); “Riposo durante la fuga in Egitto” di Galleria Doria Pamphilj. Prima di ogni analisi va detta una possibilità che si presenta forse per l’unica volta al visitatore romano: tutti i quadri di cui si parla sono in questi giorni visibili a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, esposti nelle due grandi mostre di “Caravaggio e il genio di Roma” e “Caravaggio e i Giustiniani”; a metà strada tra Palazzo Venezia e Palazzo Giustinani (sedi delle due esposizioni) sorge Galleria Doria Pamphilj dove è conservata l’ultima tela citata. In tutti questi dipinti si leggono spartiti musicali che riproducono fedelmente pezzi allora molto in voga e molto apprezzati proprio dai committenti: il cardinal del Monte è musicista dilettante e collezionista di strumenti; il marchese Vincenzo Giustinani è persino autore del trattato “Discorso sopra la musica”. Nelle due versioni de “Il suonatore di liuto” e ne “I musici” gli abiti sono classici: nella corte dei Medici (il cardinal del Monte è ambasciatore del Granduca di Toscana a Roma) i musici venivano vestiti come ninfe e pastori per cantare nei famosi “intermezzi”. “Amor Vincit Omnia”, forse meglio noto come “Amor vincitore”, oltre a delineare un concettoso gioco verbale col nome del committente (Vincenzo=Vincitore), presenta in primo piano vari strumenti non colti nella loro funzionalità, ma dipinti come natura morta. Le tele di Caravaggio si diffondono rapidamente tra i suoi seguaci prima, e poi tra i bolognesi sulle orme di Annibale Carracci: tra questi ultimi, però dominerà la raffigurazione più aulica della Santa Cecilia. Tra i caravaggisti “Il suonatore di liuto” sarà preso a modello per le immagini di figure singole colte nell’atto di suonare uno strumento, mentre “I musici” per i concerti di gruppo. Ultimo grande tema che si diffonde notevolmente tra fine XVI ed inizio XVII secolo è la natura morta. Michelangelo Merisi dipinge quella con cui tradizionalmente si identifica l’inizio del genere, la celebre “Cesta di frutta” realizzata per Federico Borromeo. In realtà è l’unica opera di questo tipo del Caravaggio, che però inserisce brani di nature morte in molti dipinti con personaggi. La mostra di Palazzo Venezia permette di avvicinarsi a quella serie di artisti, per lo più ancora anonimi, che sulla scia di questo successo iniziarono a dipingere nature morte tout-court. Una sala intera dell’esposizione romana è dedicata alle tele di Pietro Paolo Bonzi, noto come il Gobbo dei Carracci, le tele del “Maestro della natura morta di Hartford”, del “Maestro della natura morta di Acquavella”, del cosiddetto “Pensionante del Saraceni”. Difficile risalire alle identità di alcuni di questi pittori soprattutto perché nei cataloghi e nei resoconti dei contemporanei tutte queste opere vengono considerate opere minori, non se ne coglie la portata rivoluzionaria e, come per i paesaggi, vengono descritti sommariamente.

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