Gli Archivi Mario Giacomelli per due grandi mostre a Roma e a Milano
Mario Giacomelli, cent'anni di poesia

Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1961-63 - courtesy © Archivio Mario Giacomelli, Senigallia
Piero Muscarà
20/05/2025
A cento anni dalla nascita di Mario Giacomelli (Senigallia, 1925 – 2000), due grandi mostre ne celebrano la figura e l’opera, restituendo al pubblico la complessità di uno dei protagonisti assoluti della fotografia italiana del Novecento. A Roma, Palazzo delle Esposizioni ospita "Il fotografo e l’artista" (20 maggio – 3 agosto 2025), mentre Palazzo Reale a Milano propone "Il fotografo e il poeta" (22 maggio – 7 settembre 2025). Due percorsi autonomi ma complementari, che vedono la curatela di Bartolomeo Pietromarchi e della nipote Katiuscia Biondi Giacomelli e che restituiscono il doppio asse della sua ricerca: da un lato il dialogo con la pittura, la materia e la sperimentazione; dall’altro, il legame profondo con la parola e la poesia.
Autodidatta, cresciuto in una tipografia e poi in un atelier fotografico, Giacomelli inizia a fotografare negli anni Cinquanta. Il suo è un linguaggio personale e inconfondibile, dove la fotografia non è mai semplice testimonianza del reale, ma capacità di cogliere l'attimo, frammenti di immagini necessariamente soggettive, visionarie. Nei suoi lavori – dagli ospizi ai seminaristi, dalla campagna marchigiana ai paesaggi astratti – si intrecciano una tensione narrativa, una radicalità formale e una continua riflessione sulla condizione umana. La sua opera si muove ai margini delle definizioni canoniche, lontano dal realismo documentario e dalle regole del reportage, aprendosi invece a una fotografia come spazio di espressione autonoma, tra lirismo, segno e memoria. Fotografie che si affermano come vere e proprie icone, indimenticabili, inconfondibili. Su tutte il suo forse più celebre lavoro - quei pretini che gioiosi giocano in un irreale biancore innevato - frammenti di una storia sospesa, eterna, immutabile e al tempo stesso così irreali da divenire vivissimi, ricordi immaginati, attimi colti chissà come, chissà perchè.
A Roma, la mostra si articola in sei sezioni e riunisce oltre 300 stampe originali, molte delle quali inedite, in un percorso che incrocia l’opera di Giacomelli con quella di artisti come Afro, Burri, Kounellis, Cucchi e Roger Ballen. E il quadro che emerge è quello di un autore perfettamente inserito nel contesto visivo di quel secondo Novecento italiano, capace di dialogare con le tematiche più in voga dall’informale, all’Arte Povera e alla Transavanguardia. Almeno questa è la tesi verso cui vogliono spingerci i due curatori. Il cuore dell’esposizione è la serie *Io non ho mani che mi accarezzino il volto* (1961–1963), presentata in una sala-installazione che ne valorizza la forza dinamica e spirituale. Chiude la mostra la riproduzione fotografica del suo studio, con la celebre macchina Kobell e l’ingranditore originale che per tanti anni ha fatto da fedele compagno all'artista senigalliese.
A Milano, il percorso si concentra invece sul versante letterario dell’opera di Giacomelli, raccogliendo le serie ispirate a poeti come Leopardi, Corazzini, Cardarelli, Masters, Montale e Permunian. Anche qui oltre 300 opere raccontano la fotografia come linguaggio, come strumento di narrazione, come poesia. Ogni fotografia diviene quindi simbolo, frammento, eco interiore. Nelle serie degli anni Ottanta e Novanta, la spinta documentaria si dissolve in una narrazione rarefatta, fatta di attese e silenzi, dove lo spazio non è più contesto ma soglia, e il tempo si frantuma in intuizioni.
Per approfondire: Il fotografo e l’artista Il fotografo e il poeta Palazzo delle Esposizioni, Roma Palazzo Reale, Milano Archivio Mario Giacomelli
Autodidatta, cresciuto in una tipografia e poi in un atelier fotografico, Giacomelli inizia a fotografare negli anni Cinquanta. Il suo è un linguaggio personale e inconfondibile, dove la fotografia non è mai semplice testimonianza del reale, ma capacità di cogliere l'attimo, frammenti di immagini necessariamente soggettive, visionarie. Nei suoi lavori – dagli ospizi ai seminaristi, dalla campagna marchigiana ai paesaggi astratti – si intrecciano una tensione narrativa, una radicalità formale e una continua riflessione sulla condizione umana. La sua opera si muove ai margini delle definizioni canoniche, lontano dal realismo documentario e dalle regole del reportage, aprendosi invece a una fotografia come spazio di espressione autonoma, tra lirismo, segno e memoria. Fotografie che si affermano come vere e proprie icone, indimenticabili, inconfondibili. Su tutte il suo forse più celebre lavoro - quei pretini che gioiosi giocano in un irreale biancore innevato - frammenti di una storia sospesa, eterna, immutabile e al tempo stesso così irreali da divenire vivissimi, ricordi immaginati, attimi colti chissà come, chissà perchè.
A Roma, la mostra si articola in sei sezioni e riunisce oltre 300 stampe originali, molte delle quali inedite, in un percorso che incrocia l’opera di Giacomelli con quella di artisti come Afro, Burri, Kounellis, Cucchi e Roger Ballen. E il quadro che emerge è quello di un autore perfettamente inserito nel contesto visivo di quel secondo Novecento italiano, capace di dialogare con le tematiche più in voga dall’informale, all’Arte Povera e alla Transavanguardia. Almeno questa è la tesi verso cui vogliono spingerci i due curatori. Il cuore dell’esposizione è la serie *Io non ho mani che mi accarezzino il volto* (1961–1963), presentata in una sala-installazione che ne valorizza la forza dinamica e spirituale. Chiude la mostra la riproduzione fotografica del suo studio, con la celebre macchina Kobell e l’ingranditore originale che per tanti anni ha fatto da fedele compagno all'artista senigalliese.
A Milano, il percorso si concentra invece sul versante letterario dell’opera di Giacomelli, raccogliendo le serie ispirate a poeti come Leopardi, Corazzini, Cardarelli, Masters, Montale e Permunian. Anche qui oltre 300 opere raccontano la fotografia come linguaggio, come strumento di narrazione, come poesia. Ogni fotografia diviene quindi simbolo, frammento, eco interiore. Nelle serie degli anni Ottanta e Novanta, la spinta documentaria si dissolve in una narrazione rarefatta, fatta di attese e silenzi, dove lo spazio non è più contesto ma soglia, e il tempo si frantuma in intuizioni.
Per approfondire: Il fotografo e l’artista Il fotografo e il poeta Palazzo delle Esposizioni, Roma Palazzo Reale, Milano Archivio Mario Giacomelli
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