Le quattro versioni dell’opera dedicata alla dea della gioventù

Ode all'armonia: le Ebe di Antonio Canova, icone di grazia

Antonio Canova, Ebe, 1800 – 1805. marmo e bronzo dorato, 161 x 49 x 53,5. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, Photograph © The State Hermitage Museum, 2019
 

Samantha De Martin

30/03/2021

Battendo sul tempo, di oltre cento anni, le Lattine Campbell di Andy Warhol o le celebri serigrafie del re della Pop Art - a dire il vero superandole di gran lunga con un processo creativo costruito a colpi di disegno, modelli in gesso e repères fino alla scultura in marmo e all’ “ultima mano” del genio - Antonio Canova, con la sua capacità di dare vita a più versioni dello stesso soggetto, ha gettato per primo i semi della scultura moderna.
Grazie al maestro di Possagno, per la prima volta nella storia la scultura si smarca dalla committenza e predilige un’esecuzione che prevede diversi passaggi dai bozzetti al prototipo in gesso prima di passare alla sbozzatura del marmo. Se ancora oggi, a distanza di sue secoli, il poeta del marmo continua a commuovere il pubblico, è forse per quella scelta di portare il patrimonio immaginativo dell’universo classico al presente, attraverso un’arte animata da una profonda utopia.
“L’antico bisognava mandarselo in sangue, sino a farlo diventare naturale come la vita stessa”. Ne era convinto Canova. Già da quando, all’età di sei o sette anni, il giovane Antonio aveva eseguito - durante una cena di nobili veneziani, in una villa di Asolo - un leone di burro con tale bravura che tutti gli invitati ne rimasero meravigliati, si intuiva che il futuro campione del Neoclassicismo, avrebbe avuto un luminoso destino da artista.
Il suo incontro e confronto tra antico e moderno, che definisce il teorema perfetto del gusto neoclassico, trova una delle sue più alte rappresentazioni in Ebe, un’opera dalla storia articolata e della quale vennero realizzate quattro varianti in marmo, a partire da due diversi modelli in gesso.

Ebe, dea di gioventù
Come tutte le figure che animano i variegati sentieri del mito, anche l’identità di Ebe presenta delle varianti. C’è tuttavia una costante che connota sempre la figlia di Zeus e di Era: la sua connessione all’eterna giovinezza. Ancella e coppiera degli dei, la si ritrova spesso rappresentata nell’atto di servire nettare ed ambrosia, pietanze capaci di tenere lontana la vecchiaia. “Fra lor la veneranda Ebe versava le nettaree spume” si legge nell’Iliade.
Frugando nella letteratura latina ritroviamo la delicata Ebe in un passo delle Metamorfosi di Ovidio, mentre restituisce a Iolao le fattezze dei suoi anni giovanili. Purtroppo, dal punto di vista iconografico, l’arte antica non offre molte rappresentazioni di Ebe, tanto meno uniformi. Le sue raffigurazioni variano a seconda dell’episodio raccontato, e la sua immagine - in realtà priva di specifici attributi considerabili canonici, che potrebbero renderla riconoscibile anche senza l’indicazione scritta del nome - appare sfuggente. Anzi in alcuni casi Ebe non sembra molto diversa da Iris o Nike.
Se il Medioevo getta un’ombra sul mito di questa eterna giovane, emarginandola nel recinto della letteratura ed escludendola dall’arte, l’avvento della grande stagione rococò la riporta nuovamente in vita. Ed eccola Ebe, in veste da coppiera, nell’atto di abbeverare Zeus in forma d’aquila, nei dipinti della Francia settecentesca, dal ritratto di Anne Pitt di Lebrun alla Maria Antonietta di Drouais, fino alla sua piena affermazione grazie allo scalpello dell’artista inglese John Flaxman.


Antonio Canova, Ebe, 1796, modello in gesso, Milano, Civica galleria d'arte moderna | Foto: © Sailko - opera propria. Tramite Wikimedia Commons

Le quattro versioni 
Antonio Canova realizzò la serie di sculture intitolate Ebe tra il 1796 e il 1817. Della statua che immortala la dolce dea esistono ben quattro versioni autografe, oltre all’originale modello in gesso ultimato nel 1796.
L’originale in gesso, passato da Antonio Canova al suo discepolo Pompeo Marchesi, è oggi custodito presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano. Da questo il maestro ricavò i due esemplari che si trovano a Berlino e a San Pietroburgo.
Il gesso utilizzato per gli altri due, conservati nel Regno Unito e a Forlì, si trova invece a Possagno.

L’opera arrivò nella collezione milanese nel 1861-1870, grazie alla donazione Marchesi-Fogliani. Uno dei suoi precedenti proprietari, Giuseppe Bossi, la ottenne dallo scultore stesso nel 1805 in seguito a un suo viaggio a Roma. I restauratori che hanno controllato recentemente la statua di Milano hanno riscontrato tracce di colore rosso sulle gote e sulle labbra, ma probabilmente il rosso doveva ricoprire l’intero gesso.

La Ebe di Berlino
La prima versione di Ebe, oggi visibile all’Alte Nationalgalerie di Berlino, venne commissionata dal veneziano Giuseppe Giacomo Albrizzi, e nel suo palazzo fu sistemata nel 1799. Sorretta da una nuvola, con l’incedere elegante, il braccio destro alzato a sorreggere un’anfora in bronzo, la mano sinistra a stringere una coppa pronta a deliziare gli dei con il suo contenuto, Ebe sembra danzare. Canova la immortala mentre si posa in punta di piedi, la gamba sinistra in appoggio, la destra ancora leggermente sollevata indietro. Il suo sguardo è fisso in avanti, la bocca leggermente socchiusa, mentre un sorriso appena percettibile discende sulle labbra. La pelle, quasi diafana, diffonde la luce in modo uniforme, mentre i capelli, sollevati e riuniti in un’acconciatura sobria, tra riccioli e ciocche, danno vita ad un vivace chiaroscuro.
Ritratta con il busto nudo, a mostrare gli acerbi seni scoperti, Ebe è avvolta, nella parte inferiore nel corpo, da un abito leggero e svolazzante, che valorizza le curve con il suo morbido panneggio.
I piedi della dea, carichi di un’infinita grazia, conferiscono all’opera estrema leggerezza. Appoggiati sulla punta, levigati con cura, sembrano sorreggere un corpo etereo.


Antonio Canova, Ebe, 1796, marmo bianco, Berlino, Alte Nationalgalerie | Foto: © Vassil opera propria | Tramite Wikimedia Commons

La Ebe di San Pietroburgo
La seconda versione di Ebe, oggi all’Ermitage, venne iniziata nel 1800 per un certo M.Duveriez, per poi passare, un anno dopo, a Giuseppina di Beauharnais. Ultimata nel 1805, fu esposta tre anni dopo al Salon parigino, per divenire parte delle collezioni Imperiali russe nel 1814. Anche in questa versione, il marmo, sapientemente lavorato, crea l'illusione di un drappeggio trasparente e svolazzante, che rafforza il senso del movimento. Purtroppo questa seconda versione di Ebe, assieme alla prima, non convinse la critica.
Il viso fu giudicato troppo poco espressivo, e quella nuvola a sorreggere la fanciulla, assieme all’aggiunta degli inserti in bronzo, proprio ai detrattori non andava giù.

“Mi sarebbe stata cosa assai facile il dargliela [l’espressione] ma certamente alle spese di essere criticato di chi sa conoscere il bello; l’Ebe sarebbe diventata una baccante” era stata la risposta di Canova. Ma nel frattempo il maestro si preparava a eseguire un altro gesso per Ebe, (oggi a Possagno), dal quale vennero realizzati i due marmi successivi: il terzo e il quarto. Uno dei pochi ad apprezzarla era stato Ippolito Pindemonte che aveva dedicato all'opera alcuni versi. “O Canova immortal, che addietro lassi / L’italico scalpello, e il greco arrivi …”.


Antonio Canova, Ebe, 1800 – 1805, marmo e bronzo dorato, 161 x 49 x 53,5. San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, Photograph © The State Hermitage Museum, 2019

La Ebe di Chatsworth...senza la nuvola
Una fanciulla, appoggiata al tronco di un albero, avanza con il piede sinistro mentre sorregge, tra le mani, un’anfora e una coppa in bronzo. È la Ebe custodita oggi nel Castello di Chatsworth, nel Regno Unito, realizzata da Canova tra il 1808 e il 1814 per John Campbell Lord Cawdor. In questa versione la nuvola, considerata nelle versioni precedenti un elemento barocco, sparisce, sostituita dall’albero.


Antonio Canova, Ebe, 1808-1814, marmo, Bakewell, Castello di Chatsworth | Foto: © Daderot - opera propria. Pubblico dominio

Le peripezie della Ebe di Forlì
Chiunque visiti oggi la Pinacoteca civica presso i Musei di San Domenico di Forlì non può non rimanere abbagliato dalla magnetica grazia della quarta, e ultima, versione di Ebe realizzata da Canova. Il maestro vi si dedicò tra il 1816 e il 1817. A commissionare la statua era stata Veronica Zauli Naldi Guarini per la sua abitazione di palazzo Guarini Torelli di corso Garibaldi. Nel 1887 l'opera fu venduta dagli eredi di Veronica al Comune di Forlì che la acquistò dopo un'infuocata seduta del Consiglio comunale, una baruffa insomma, con tanto di appassionata arringa dei contrari sostenuta dal socialista Andrea Costa. Ma le peripezie di questo capolavoro non finiscono qui. Durante la seconda Guerra Mondiale, la Ebe di Forlì fu murata per essere preservata dalle distruzioni, per poi essere trasferita nella Pinacoteca a Palazzo Merenda. Oggi la statua brilla nella sala circolare dei Musei San Domenico, un ambiente concepito per ricordare la sala ottagonale di palazzo Guarini Torelli.

A chi si ispirò Canova?
Canova prese spunto da altri scultori per le sue Ebe? Evidentemente sì. A influenzare il maestro potrebbero essere stati artisti come Flaxman, scultore contemporaneo che sappiamo aver avuto stretti legami con il genio di Possagno. Di certo a esercitare una certa influenza per la realizzazione della Ebe deve essere stato anche il Mercurio volante di Giambologna, più antico di due secoli. È vero, la resa formale è incredibilmente diversa: Mercurio, vibrante, nella sua tensione che si propaga in ogni muscolo, incarna uno dei più riusciti esempi della figura serpentinata manierista. Ebe, invece, appare sin da subito un’icona di grazia ed armoniosa compostezza.

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