Scultori e pittori a confronto
Papa Albani
06/11/2001
L’impresa decorativa più imponente promossa da Papa Albani fu senza dubbio il ripristino della navata centrale di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, fondata dall’imperatore Costantino nel 315 d.C.
La navata era stata lasciata incompiuta dall’ultimo restauro, diretto da Francesco Borromini tra il 1646 e il 1649. Lungo le pareti erano state infatti realizzate alcune monumentali edicole in verde antico, rimaste tuttavia vuote, mentre al di sopra avevano trovato posto i bassorilievi in stucco, con Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento , di scuola dell’Algardi.
La necessità primaria, agli inizi del nuovo secolo, era dunque quella di riempire le edicole con le statue dei dodici Apostoli.
Pochi mesi dopo la sua elezione, il 6 gennaio 1701, Clemente stanziava così la cospicua somma di 6000 scudi per realizzare la prima figura.
Gli alti costi dell’impresa avrebbero suggerito più avanti di affidarne il finanziamento a personaggi internazionali di alto rango: il re di Portogallo, il principe elettore di Baviera, vari cardinali romani.
Carlo Maratti, principe dell’Accademia, paladino del classicismo di matrice raffaellesca e marchigiano come il papa, fu scelto come direttore artistico dei lavori.
La politica filo-francese di Clemente XI costrinse l’artista a dare largo spazio agli scultori d’oltralpe, numerosi a Roma: Pierre Legros, artefice della sterzata del linguaggio barocco verso i modi rococò, realizzò le statue di San Bartolomeo e di San Tommaso e Jacques Monnot quelle di San Pietro e di San Paolo.
Scultori di estrazione berniniana si divisero le figure di San Simone, San Giacomo Minore, San Filippo, San Taddeo. Ma fu subito Camillo Rusconi (1658-1728), scultore milanese allievo di Ercole Ferrata, ad acquisire un ruolo determinante: a lui vennero affidate quattro statue (San Giacomo Maggiore, Sant’Andrea, San Giovanni, San Matteo) che si imposero, per scioltezza di modellato e densi effetti pittorici, come esempi del nuovo classicismo belloriano e arcadico. Un nobile naturalismo, una controllata ricerca di pathos, pose ampie unite a panneggi pesanti sono i caratteri che le contraddistinguono.
Ancor prima che la serie degli Apostoli fosse terminata (e si trattò di tempi lunghi, fatti di disegni, bozzetti e modelli in stucco a grandezza naturale), si decise di inserire una sequenza di immagini dei Profeti sul muro della navata, negli ovali ancora vuoti all’altezza delle finestre. Anche per questo intervento si scelse un finanziatore illustre da affiancare al papa: il vescovo di Magonza.
Tra i pittori selezionati, tutti italiani, c’erano fedeli allievi di Carlo Maratti (Chiari, Procaccini, Melchiorri), maestri già anziani (Garzi e Odazzi), protetti del Papa (Pier Leone Grezzi, di cui Clemente era stato padrino). Quelli che riuscirono meglio nell’impresa furono però gli “indipendenti”: Benedetto Luti e Sebastiano Conca, dai modi che anticipano Pompeo Batoni, e Francesco Trevisani, veneto esuberante, grande conoscitore della pittura emiliana del Seicento.
Ogni profeta, il cui nome venne scritto sopra l’ovale, fu raffigurato con un motto o versetto che ne permettesse l’identificazione. Risultò così evidente il carattere didattico dell’impresa nel suo complesso: partendo dall’immagine del Cristo nell’abside e dalle Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento sulle pareti, si scelse di dare visibilità ai sostenitori della venuta del Cristo (i Profeti) e ai diffusori della sua parola (gli Apostoli), simboli della missione evangelizzatrice e salvifica della Chiesa romana.
Il messaggio ecumenico lanciato dalla decorazione della seconda basilica di Roma era la manifestazione più eloquente dell’ambizione del Papa di restituire alla Chiesa un ruolo forte, di argine alla relativizzazione e laicizzazione del pensiero e della politica.
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