Il 7 settembre il debutto al Festival del Cinema di Venezia
Tommaso Landucci racconta il suo Caveman, il gigante nascosto epico e fragile
Un'immagine di Caveman, 2021 I Courtesy Doclab
Samantha De Martin
03/09/2021
“Sembrava una specie di mito neoclassico. Tutti a Corsignano parlavano di una statua scolpita nel cuore della montagna, ma nessuno in realtà l’aveva mai vista. Così ho voluto recarmi di persona a 650 metri di profondità assieme all’artista che l’aveva realizzata. La monumentale scultura che Filippo Dobrilla diceva di avere scolpito esisteva davvero. Vederla apparire e scomparire alla luce della torcia, come delineata dai movimenti delle nostre teste, è stata un’esperienza fascinosa e terribile al tempo stesso”.
Tommaso Landucci racconta al telefono la genesi del suo Caveman - Il gigante nascosto, il documentario osservativo (come lo definisce lo stesso regista) realizzato da DocLab in coproduzione con Contrast Film, che il regista lucchese, classe 1989, ha voluto dedicare all’amico scultore e speleologo fiorentino Filippo Dobrilla, probabilmente la figura più "profonda" e di certo la più "nascosta" dell'arte contemporanea italiana.
Prima di morire, nel 2019, stroncato da una lunga malattia, Dobrilla ha inciso il suo testamento spirituale, prima ancora che artistico, nelle viscere della terra, scolpendo per trent'anni un colosso di marmo, nudo, dormiente, alto quattro metri, disteso in una grotta delle Alpi Apuane, una delle più profonde d’Europa.
Il docufilm sarà presentato il prossimo 7 settembre in anteprima mondiale nelle Notti veneziane delle Giornate degli Autori al Festival del Cinema di Venezia.
Caveman - Il gigante nascosto, 2021 I Courtesy DocLab
Da cosa nasce il desiderio di scendere negli abissi di una grotta (e contemporaneamente in quelli di un’anima) per raccontare un personaggio schivo, poco noto al grande pubblico?
“Tutto è partito dal fascino suscitatomi dalle contraddizioni di questo artista, ma soprattutto dalla curiosità di scoprire se questa statua della quale tutti parlavano esistesse oppure no. Avevo sentito parlare di una scultura di Filippo Dobrilla custodita in una grotta delle Alpi Apuane, che tutti dicevano di conoscere, ma che nessuno aveva mai visto davvero. Sono entrato in contatto con l’artista tramite un altro scultore garfagnino e alla fine ci siamo incontrati a casa sua, a Monte Giovi. Filippo non era la persona burbera e introversa che mi aspettavo, era contento di ricevere attenzione”.
Chi era Filippo Dobrilla?
“Era un narcisista, ma anche una persona estremamente fragile, e quaesto spiega anche il fatto che vivesse in cima a un colle raggiungibile solo con una 4 x 4. Provai ad andarci una volta con la mia macchina ma ruppi una ruota. Viveva di contraddizioni e la statua sul fondo di una caverna che nessuno può vedere è l'emblema di quest'indole contraddittoria. Un giorno gli chiesi di portarmi a vedere il luogo che custodiva la sua monumentale scultura, così partimmo da Lucca alla volta della grotta dell’Abisso del Saragato, caverna del monte Tambura sulle Apuane, nel cuore della Garfagnana”.
Che esperienza è stata la discesa a 650 metri di profondità?
“Totalmente spaventosa. Sono un amante della montagna, faccio spesso arrampicate, ho una certa dimestichezza con le corde, ma non avevo assolutamente idea di cosa fosse una grotta. L’abisso del Saragato è in realtà un groviglio di pozzi e cunicoli che si sviluppano in verticale, dove è quasi impossibile camminare. È stata un’esperienza diversa da quella che immaginavo. Ho impiegato dieci ore per scendere fin laggiù, quasi venti per risalire”.
E poi, dopo essere arrivato di fronte alla gigantesca scultura di Dobrilla, cos'è successo?
“Trovarsi di fronte a quella gigantesca scultura, inserita in uno stanzone di roccia alto 35, completamente al buio, è stata un’esperienza impressionante. Non avendo luci, abbiamo scrutato la statua grazie alle torce frontali. Quando muovevamo le teste il chiarore illuminava l’immensa roccia e la statua sembrava prendere vita per poi scomparire di nuovo, inghiottita dall’oscurità. La scultura, che riproduce l’artista stesso, nudo e disteso, ha un gusto arcaico, ruvida al tatto, reca ancora i colpi di mazzuolo e riporta a un’arte preistorica, a quei reperti di statue ritrovate grezze e risalenti a civiltà lontane”.
Non sarà stato semplice girare in un groviglio di cunicoli. Come avete fatto?
“È stato complicato. Avevamo una troupe molto grande. La squadra era capitanata da Tullio Bernabei, speleologo che ha fatto della sua passione un mestiere. Assieme al figlio Mattia fa riprese in giro per il mondo, tra grotte e vulcani. Ad aiutarci è stato anche il gruppo di speleologi Speleo Mannari, una squadra di esperti amici di Filippo”.
Caveman - Il gigante nascosto, 2021 | Courtesy DocLab
Perché una persona così schiva come Dobrilla, un anarchico solitario, un sognatore selvatico ha accettato il suo invito a girare un film?
“Dobrilla era un uomo molto schivo, è vero, estremamente fragile, ma aveva anche molta voglia di mostrarsi. Viveva di queste contraddizioni. Era molto contento di fare un film, ma si è anche tirato indietro parecchie volte all’ultimo momento. Era una persona lunatica e non era sempre facilissimo lavorarci. Anche per questo le riprese sono andate avanti in modo incostante per quattro anni, dal 2015 al 2019, anno della sua morte".
Quali sono i punti di forza di Caveman - Il gigante nascosto?
“Sicuramente il fatto di riuscire a raccontare questo personaggio in un arco temporale molto lungo. Oltre alle riprese abbiamo utilizzato immagini molto belle girate anni negli anni Novanta in super VHS che chiudono il cerchio su Filippo. Lo vediamo nell’entusiasmo giovanile dei 25 anni per ritrovarlo negli ultimi quattro anni di vita, caratterizzati da una differenza estetica notevole”.
Il docufilm è un ritratto intimo dell’artista. Non ci sono interviste né voice over. Quali personaggi incontriamo oltre a Dobrilla?
“Il film è un ritratto intimo di Filippo. Seguiamo l’artista nella sua vita, toccando anche la sua malattia, quel tumore che nel 2019 lo ha portato via. Oltre all’artista incontriamo, tra gli altri, il curatore Stefano Morelli, e ancora Annamaria Monaci, la prima ad aver scoperto Dobrilla, i figli dell’artista, e ancora Vittorio Sgarbi”.
In che modo il docufilm affronta un tema delicato come quallo della malattia che ha sconvolto la vita di Dobrilla?
“Abbiamo cercato di non parlare della malattia, arrivata tra l’altro durante le riprese. Quello che mostriamo delle tante ore girate in ospedale è la capacità dell’artista di vivere l’arte come una fuga dalla condizione di malato, continuando a scolpire o facendo progetti. Il pubblico non vedrà scene di dottori, né sentirà esplicitamente parlare del tumore. Non si è mai cercato di raccontare il dolore della malattia. Facendolo avremmo rischiato di trasformare il film in un qualcosa di melodrammatico che lo avrebbe depotenziato".
Dove avete girato?
“Principalmente a casa dell’artista, a Monte Giovi, e poi tra Firenze e Lucca, nel paesino di Gorfigliano e nell’abisso del Saragato. C’è poi qualche incursione a Sutri, dove Filippo va a cercare lavoro, e ancora in Calabria, regione che ha accolto un’istallazione di Dobrilla portata da Firenze via mare. La parte dell’ospedale è ambientata invece in Umbria".
Caveman - The hidden giant, 2021 | Courtesy DocLab
Le Alpi Apuane custodiscono i segreti di molti scultori. Il pensiero va a Michelangelo. Tra l’altro, nel 2011 Dobrilla presentò alla Biennale di Venezia un gruppo scultoreo ispirato proprio al Tondo Doni, il che farebbe pensare che in qualche modo si sentisse legato al suo illustre conterraneo. In cosa, secondo lei, Dobrilla e il Buonarroti si assomigliano? E in cosa sono diversi?
“Credo si assomiglino nella megalomania. Filippo era dell’idea che la scultura dovesse essere una guida per i popoli e dovesse essere molto grande. Filippo è un neoclassico e ha anche elementi contemporanei, come si evince anche da Busto in jeans al quale fa indossare un paio di Levi’s o da suo San Giorgio e il drago in cui l’animale è una Fiat Cinquecento. Un’altra cosa che li accomuna è l’attrazione verso il non finito. Michelangelo aveva delle committenze, Filippo no e questo gli dava un’infinita libertà”.
Il film tocca anche la tematica dell’amore. In che modo?
"Dobrilla era innamorato dell’amore. Le sue statue, specie i nudi maschili, rappresentano la sua ricerca d’amore. Aveva avuto storie molto forti, omossessuali ma anche eterossessali, come quella che gli ha regalato due figli. Anche in questo era molto controverso. Il suo desiderio era quello di trovare un amore omosessuale, ma non è accaduto".
Senza voler troppo generalizzare, sembra che questa edizione numero 78 del Festival del Cinema punti molto a scandagliare l’interiorità. Ne sono un esempio il film Madres Paralelas di Pedro Almodòvar o l’autobiografico È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino. Anche Caveman si può considerare la discesa verso uno straordinario universo interiore?
“Sì. E a proposito di questa connotazione intima che accomuna molti film in concorso, credo sia da citare anche Il Buco di Michelangelo Frammartino. Anche lui, sebbene in un film di finzione, racconta le cavità, narrando la discesa di un gruppo di speleologi in una grotta in Calabria, scegliendo la bellezza naturale tra luce e oscurità per parlare di vita ed esistenza. È curioso che proprio quest’anno questa spinta a raccontare di più l’intimo abbia fatto sì che a Venezia ci fossero due film che parlano di grotte”.
Nonostante la sua giovane età ha già fatto molte cose nel cinema, è stato assistente alla regia di Claudio Giovannesi e Luca Guadagnino, mentre con Caveman firma il suo primo lungometraggio documentario. Attualmente a cosa sta lavorando?
“A Re di Venere, scritto con Michela Murgia, e a I figli della scimmia. Il primo è un trriller sul potere di Venere, l’altro è una commedia agrodolce sull’essere genitori”.
È vero che, come diceva Dobrilla, “solo chi fugge dalla massa si salva"?
“Nel film è Alessandro Benvenuti a leggere questa frase. Direi che sono molto d’accordo, intendendo per massa l'omologazione, il non pensiero. La pandemia mi ha dato una conferma importante. Il periodo che abbiamo vissuto ci ha insegnato a dare valore alle relazioni importanti e a non perdere tempo con il superfluo o con ciò che è più socialmente accettabile, a capire che non è tutto rimandabile”.
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• Caveman - Il gigante nascosto: il capolavoro di Filippo Dobrilla si svela in un film
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Il docufilm sarà presentato il prossimo 7 settembre in anteprima mondiale nelle Notti veneziane delle Giornate degli Autori al Festival del Cinema di Venezia.
Caveman - Il gigante nascosto, 2021 I Courtesy DocLab
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Chi era Filippo Dobrilla?
“Era un narcisista, ma anche una persona estremamente fragile, e quaesto spiega anche il fatto che vivesse in cima a un colle raggiungibile solo con una 4 x 4. Provai ad andarci una volta con la mia macchina ma ruppi una ruota. Viveva di contraddizioni e la statua sul fondo di una caverna che nessuno può vedere è l'emblema di quest'indole contraddittoria. Un giorno gli chiesi di portarmi a vedere il luogo che custodiva la sua monumentale scultura, così partimmo da Lucca alla volta della grotta dell’Abisso del Saragato, caverna del monte Tambura sulle Apuane, nel cuore della Garfagnana”.
Che esperienza è stata la discesa a 650 metri di profondità?
“Totalmente spaventosa. Sono un amante della montagna, faccio spesso arrampicate, ho una certa dimestichezza con le corde, ma non avevo assolutamente idea di cosa fosse una grotta. L’abisso del Saragato è in realtà un groviglio di pozzi e cunicoli che si sviluppano in verticale, dove è quasi impossibile camminare. È stata un’esperienza diversa da quella che immaginavo. Ho impiegato dieci ore per scendere fin laggiù, quasi venti per risalire”.
E poi, dopo essere arrivato di fronte alla gigantesca scultura di Dobrilla, cos'è successo?
“Trovarsi di fronte a quella gigantesca scultura, inserita in uno stanzone di roccia alto 35, completamente al buio, è stata un’esperienza impressionante. Non avendo luci, abbiamo scrutato la statua grazie alle torce frontali. Quando muovevamo le teste il chiarore illuminava l’immensa roccia e la statua sembrava prendere vita per poi scomparire di nuovo, inghiottita dall’oscurità. La scultura, che riproduce l’artista stesso, nudo e disteso, ha un gusto arcaico, ruvida al tatto, reca ancora i colpi di mazzuolo e riporta a un’arte preistorica, a quei reperti di statue ritrovate grezze e risalenti a civiltà lontane”.
Non sarà stato semplice girare in un groviglio di cunicoli. Come avete fatto?
“È stato complicato. Avevamo una troupe molto grande. La squadra era capitanata da Tullio Bernabei, speleologo che ha fatto della sua passione un mestiere. Assieme al figlio Mattia fa riprese in giro per il mondo, tra grotte e vulcani. Ad aiutarci è stato anche il gruppo di speleologi Speleo Mannari, una squadra di esperti amici di Filippo”.
Caveman - Il gigante nascosto, 2021 | Courtesy DocLab
Perché una persona così schiva come Dobrilla, un anarchico solitario, un sognatore selvatico ha accettato il suo invito a girare un film?
“Dobrilla era un uomo molto schivo, è vero, estremamente fragile, ma aveva anche molta voglia di mostrarsi. Viveva di queste contraddizioni. Era molto contento di fare un film, ma si è anche tirato indietro parecchie volte all’ultimo momento. Era una persona lunatica e non era sempre facilissimo lavorarci. Anche per questo le riprese sono andate avanti in modo incostante per quattro anni, dal 2015 al 2019, anno della sua morte".
Quali sono i punti di forza di Caveman - Il gigante nascosto?
“Sicuramente il fatto di riuscire a raccontare questo personaggio in un arco temporale molto lungo. Oltre alle riprese abbiamo utilizzato immagini molto belle girate anni negli anni Novanta in super VHS che chiudono il cerchio su Filippo. Lo vediamo nell’entusiasmo giovanile dei 25 anni per ritrovarlo negli ultimi quattro anni di vita, caratterizzati da una differenza estetica notevole”.
Il docufilm è un ritratto intimo dell’artista. Non ci sono interviste né voice over. Quali personaggi incontriamo oltre a Dobrilla?
“Il film è un ritratto intimo di Filippo. Seguiamo l’artista nella sua vita, toccando anche la sua malattia, quel tumore che nel 2019 lo ha portato via. Oltre all’artista incontriamo, tra gli altri, il curatore Stefano Morelli, e ancora Annamaria Monaci, la prima ad aver scoperto Dobrilla, i figli dell’artista, e ancora Vittorio Sgarbi”.
In che modo il docufilm affronta un tema delicato come quallo della malattia che ha sconvolto la vita di Dobrilla?
“Abbiamo cercato di non parlare della malattia, arrivata tra l’altro durante le riprese. Quello che mostriamo delle tante ore girate in ospedale è la capacità dell’artista di vivere l’arte come una fuga dalla condizione di malato, continuando a scolpire o facendo progetti. Il pubblico non vedrà scene di dottori, né sentirà esplicitamente parlare del tumore. Non si è mai cercato di raccontare il dolore della malattia. Facendolo avremmo rischiato di trasformare il film in un qualcosa di melodrammatico che lo avrebbe depotenziato".
Dove avete girato?
“Principalmente a casa dell’artista, a Monte Giovi, e poi tra Firenze e Lucca, nel paesino di Gorfigliano e nell’abisso del Saragato. C’è poi qualche incursione a Sutri, dove Filippo va a cercare lavoro, e ancora in Calabria, regione che ha accolto un’istallazione di Dobrilla portata da Firenze via mare. La parte dell’ospedale è ambientata invece in Umbria".
Caveman - The hidden giant, 2021 | Courtesy DocLab
Le Alpi Apuane custodiscono i segreti di molti scultori. Il pensiero va a Michelangelo. Tra l’altro, nel 2011 Dobrilla presentò alla Biennale di Venezia un gruppo scultoreo ispirato proprio al Tondo Doni, il che farebbe pensare che in qualche modo si sentisse legato al suo illustre conterraneo. In cosa, secondo lei, Dobrilla e il Buonarroti si assomigliano? E in cosa sono diversi?
“Credo si assomiglino nella megalomania. Filippo era dell’idea che la scultura dovesse essere una guida per i popoli e dovesse essere molto grande. Filippo è un neoclassico e ha anche elementi contemporanei, come si evince anche da Busto in jeans al quale fa indossare un paio di Levi’s o da suo San Giorgio e il drago in cui l’animale è una Fiat Cinquecento. Un’altra cosa che li accomuna è l’attrazione verso il non finito. Michelangelo aveva delle committenze, Filippo no e questo gli dava un’infinita libertà”.
Il film tocca anche la tematica dell’amore. In che modo?
"Dobrilla era innamorato dell’amore. Le sue statue, specie i nudi maschili, rappresentano la sua ricerca d’amore. Aveva avuto storie molto forti, omossessuali ma anche eterossessali, come quella che gli ha regalato due figli. Anche in questo era molto controverso. Il suo desiderio era quello di trovare un amore omosessuale, ma non è accaduto".
Senza voler troppo generalizzare, sembra che questa edizione numero 78 del Festival del Cinema punti molto a scandagliare l’interiorità. Ne sono un esempio il film Madres Paralelas di Pedro Almodòvar o l’autobiografico È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino. Anche Caveman si può considerare la discesa verso uno straordinario universo interiore?
“Sì. E a proposito di questa connotazione intima che accomuna molti film in concorso, credo sia da citare anche Il Buco di Michelangelo Frammartino. Anche lui, sebbene in un film di finzione, racconta le cavità, narrando la discesa di un gruppo di speleologi in una grotta in Calabria, scegliendo la bellezza naturale tra luce e oscurità per parlare di vita ed esistenza. È curioso che proprio quest’anno questa spinta a raccontare di più l’intimo abbia fatto sì che a Venezia ci fossero due film che parlano di grotte”.
Nonostante la sua giovane età ha già fatto molte cose nel cinema, è stato assistente alla regia di Claudio Giovannesi e Luca Guadagnino, mentre con Caveman firma il suo primo lungometraggio documentario. Attualmente a cosa sta lavorando?
“A Re di Venere, scritto con Michela Murgia, e a I figli della scimmia. Il primo è un trriller sul potere di Venere, l’altro è una commedia agrodolce sull’essere genitori”.
È vero che, come diceva Dobrilla, “solo chi fugge dalla massa si salva"?
“Nel film è Alessandro Benvenuti a leggere questa frase. Direi che sono molto d’accordo, intendendo per massa l'omologazione, il non pensiero. La pandemia mi ha dato una conferma importante. Il periodo che abbiamo vissuto ci ha insegnato a dare valore alle relazioni importanti e a non perdere tempo con il superfluo o con ciò che è più socialmente accettabile, a capire che non è tutto rimandabile”.
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