Visita insolita alla mostra "“Una collezione inattesa" fino al 22 Ottobre
L'arte del Novecento a Gallerie d'Italia con l'artista Arthur Duff
Ritratto di Arthur Duff. Sullo sfondo la sua installazione "The Hungriest Eye. The Blossoming of Potential". Foto Matteo De Fina
Eleonora Zamparutti
03/08/2023
Milano - La prima volta incontro l’artista Arthur Duff alla Procuratie Vecchie di Venezia, in una stanza buia dove un sistema laser proietta forme uniche, creando un caleidoscopio ipotizzante di luci colorate.
Siamo davanti alla sua installazione The Hungriest Eye. The Blossoming of Potential allestita presso gli spazi di Human Safety Net, l’organizzazione non-profit in capo a Generali : si tratta di una macchina che rileva gli spostamenti delle persone nello spazio ed elabora forme luminose. “E’ la sintesi di un’esperienza individuale e collettiva. Le forme si ispirano alle xilografie giapponesi dell’Ottocento che raffigurano i fuochi d’artificio, esempio di una bellezza effimera e transitoria, pensati per sorprendere l’occhio di chi guarda” afferma Duff. L’arte di Arthur Duff tenta di riconnettere tecnologia e fisicità, scienza e corpo, creando complessi spazi di esperienza, visivi e fisici, che utilizzano proiezioni laser o immagini pulsanti, per dare vita a configurazioni sorprendenti.
Propongo ad Arthur Duff di accompagnarmi in visita alla mostra “UNA COLLEZIONE INATTESA. Viaggio nel contemporaneo tra pittura e scultura” in corso a Milano presso Gallerie d’Italia fino al 22 Ottobre.
L’esposizione milanese, curata da Luca Massimo Barbero, è un percorso dedicato all’arte italiana e all’arte contemporanea internazionale, incentrato sul dialogo tra le diverse ricerche scultoree di alcuni dei maggiori protagonisti del XX Secolo in confronto a importanti approfondimenti intorno alla pittura del Secondo Dopoguerra.
“Io non riesco a ricordare ciò che ho appena vissuto” dice Arthur Duff seduto al tavolino del bar davanti a un caffè. “E questo mi dà la possibilità di creare sempre qualcosa di nuovo da zero”.
Durante la nostra conversazione emerge a più riprese un tema che credo stia particolarmente a cuore ad Arthur Duff ed è il concetto di “convenzione”.
Quando parla, Duff ha in mente la sala dedicata alla monocromia nell’arte contemporanea internazionale dei primissimi anni Sessanta, dove l’opera del maestro del minimalismo americano Robert Ryman dialoga con i lavori dei protagonisti italiani come Piero Manzoni, Alberto Burri, Toti Scialoja ed Enrico Castellani.
“Tempo fa Lucio Pozzi, un artista italiano che ha vissuto a lungo negli Stati Uniti in particolare a New York tra gli anni ’60 e ’70, mi ha raccontato un episodio che ha come protagonista Robert Ryman e che in qualche modo si collega a quello che dicevamo poco fa su arte e convenzione, valore, plus valore, sistema, capitale.
Robert Ryman era molto arrabbiato perché Joe Baer aveva smesso di fare i quadri che indagavano the edge, cioè il confine tra la superficie e il bordo, e aveva iniziato a far rientrare la figura e la figurazione nel suo lavoro. Per Ryman questa cosa era un grande sacrilegio. La modernità è stata inflessibile e categorica sulla nozione di coerenza.”
L’arte astratta del Novecento è stata molto rigida…
“L’arte del Novecento ha stabilito la convenzione del segno, del marchio, dell’apparato per giustificare la mercificazione dell’oggetto. Se l’opera non rientra nei parametri della convenzione, è anti-convenzionale, quindi fuori dal sistema che è fondamentalmente finanziario, economico e di potere. Per un artista fare un piccolo segno diverso, cambia completamente gli equilibri. In questo senso uscendo dalla specificità minimalista, Joe Baer manda in frantumi un intero apparato. Ed è in quel preciso punto che risiede lo spazio di libertà per un arista. Questo è lo spazio dove il lavoro non può essere controllato.”
All’ingresso del museo, in una sala dalle dimensioni monumentali. campeggia la grande opera in marmo bianco Femme Paysage di Jean Hans Arp del 1966. Arp apre, come una sorta di punto focale, all’allestimento dedicato all’italiano Bruno De Toffoli, artista meno noto al grande pubblico e firmatario di uno dei Manifesti dello Spazialismo, movimento espressione della ricerca plastica e strettamente legato a Lucio Fontana.
A tua avviso, l’arte esposta in questa mostra è tutta “convenzione”?
“Sono state selezionate opere di artisti che hanno lavorato nel loro studio all’interno di una dinamica intima e personale, in rapporto con gallerie e musei, e che hanno cercato di mantenere un certo grado di libertà. In questa mostra sono state fatte delle scelte coraggiose come quella di presentare un artista come De Toffoli, che rappresenta una voce fuori dal coro. Il mondo dell’arte dopo la Seconda guerra è stato vittima di dinamiche complesse. Basti pensare alle scelte operate da Alfred Barr, a quel tempo direttore del MoMA di New York, rispetto agli artisti italiani: chissà quale è stato il criterio che ha adottato… magari semplicemente numerico?”
Barr poteva osservare le cose da un punto di vista privilegiato…
“Subito dopo la guerra, il passato recente dell’Italia era difficile da gestire. Prenderlo in mano, scottava parecchio. Oggi riusciamo a parlare dell’astrattismo senza pregiudizio, ma negli anni Ottanta era difficile valutare il lavoro di Giorgio De Chirico o di Alberto Savinio.”
Perché secondo te è interessante dedicare una nicchia al lavoro di De Toffoli accanto ai grandi del Novecento?
"Perché è interessante osservare il lavoro di un artista da dentro. Rispetto a De Toffoli, uno si domanda: dove stava con il lavoro, con la testa? A mio avviso bisogna valutare le cose in base al lavoro. Bruno De Toffoli è stato un artista sottovalutato. L’operazione che si sta facendo qui è di tentare di vedere il lavoro per quello che è. Vedere De Toffoli in associazione ad Arp, è un modo per rivedere, riguardare, osservare De Toffoli con un’altra lente che non è più quella del canone del post-guerra. E’ un bellissimo modo per definirlo nuovamente. Arp è il sole attorno a cui ruotano tutti gli altri artisti, come pianeti. In questo senso Jean Hans Arp ha definito il canone, la convenzione.”
Allestimento della mostra, ph. Roberto Serra
Come fa un artista a trovare uno spazio di libertà nella convenzione?
"Il lavoro di un artista è unico: ha un inizio e una fine. C’è tutta una preparazione: viene teso un un telaio, viene scelta una tela, un colore rispetto a un altro. Ogni gesto ha la sua autonomia. Poi viene contestualizzato, viene messo in qualche modo a confronto.”
Tu come lavori?
“Spero di mettere in atto un gesto imprevedibile e di non sapere quello che sto facendo. L’impossibilità di ricordare è uno strumento che mi permette di avere una certa libertà.”
Pensi che l’arte avvenga a tua insaputa?
“Per avere libertà all’interno di un sistema controllato è importante non sapere quello che si fa.”
Parlami di un altro accostamento inusuale: Enrico Castellani e Sol Lewitt.
“I loro lavori si stanno parlando, c’è dialogo tra di loro. L’accostamento ci permette di vedere Enrico Castellani e Sol Lewitt. Questi due pezzi sono come fratelli. Personalmente mi sento più vicino a Sol Lewitt, cioè all’idea che il progetto è già in sé un lavoro. Forse per Castellani la forma seriale è un progetto, un lavoro in sé. Ogni lavoro porta avanti una piccola differenza.”
In esposizione si possono ammirare alcune opere che sono emblematiche delle radici della scultura italiana e che raramente sono esposte insieme: La Pisana di Arturo Martini, la Pomona di Marino Marini e il Grande Cardinale Seduto di Giacomo Manzù.
Poco distanti 19 opere di Fausto Melotti, rappresentative dei suoi contenitori e vasi ceramici tra cui quattro importanti Korai.
Come appare ai nostri occhi l’arte del Novecento?
“Noi percepiamo il secolo scorso come un momento di grande certezza, ma probabilmente per gli artisti non lo era affatto. Attraverso la lente dell’astrattismo degli anni Trenta, dove possiamo far ricondurre a livello italiano tanti artisti e intellettuali - penso a Fausto Melotti o alla pubblicazione “KN” di Carlo Belli del 1935 -, è un mondo che ambiva a un’utopia, che univa delle certezze in un unica e gloriosa soluzione che per noi è raccapricciante. Se ci pensiamo ci viene la pelle d’oca perché sappiamo dove sono arrivate quelle utopie, quelle certezze."
Allestimento della mostra, ph. Roberto Serra
In tutto ciò poi c’è Lucio Fontana. Un’intera sala è dedicata al tema dello Spazialismo. Di questo Maestro, figura centrale dell’arte contemporanea del XX Secolo e riconosciuta internazionalmente, è esposto Concetto spaziale. Attese del 1965. Ci sono anche alcuni piatti denominati Antica Savona, creazioni fittili spazialiste e l’importante nucleo delle tre Nature in bronzo e terracotta.
“Fontana rimane al di fuori di tutto. Quello che fa e non può non fare è in costante rimescolamento : ceramica, bronzo, taglio o meglio pittura, che sia un concetto di scultura…. Per lui è tutto necessario, genera un movimento dall’interno di se stesso. E’ un esempio imprendibile, basti pensare che fino a poco tempo fa Fontana era taglio e basta. Se un artista cerca delle figure da studiare, beh, Fontana è inafferrabile. E’ l’artista che dice ‘oggi posso fare quello che voglio, posso fare qualcosa che non so fare, che non ho fatto ieri’. E’ un faro anche oggi, un maestro in continua rivisitazione.”
Siamo davanti alla sua installazione The Hungriest Eye. The Blossoming of Potential allestita presso gli spazi di Human Safety Net, l’organizzazione non-profit in capo a Generali : si tratta di una macchina che rileva gli spostamenti delle persone nello spazio ed elabora forme luminose. “E’ la sintesi di un’esperienza individuale e collettiva. Le forme si ispirano alle xilografie giapponesi dell’Ottocento che raffigurano i fuochi d’artificio, esempio di una bellezza effimera e transitoria, pensati per sorprendere l’occhio di chi guarda” afferma Duff. L’arte di Arthur Duff tenta di riconnettere tecnologia e fisicità, scienza e corpo, creando complessi spazi di esperienza, visivi e fisici, che utilizzano proiezioni laser o immagini pulsanti, per dare vita a configurazioni sorprendenti.
Propongo ad Arthur Duff di accompagnarmi in visita alla mostra “UNA COLLEZIONE INATTESA. Viaggio nel contemporaneo tra pittura e scultura” in corso a Milano presso Gallerie d’Italia fino al 22 Ottobre.
L’esposizione milanese, curata da Luca Massimo Barbero, è un percorso dedicato all’arte italiana e all’arte contemporanea internazionale, incentrato sul dialogo tra le diverse ricerche scultoree di alcuni dei maggiori protagonisti del XX Secolo in confronto a importanti approfondimenti intorno alla pittura del Secondo Dopoguerra.
“Io non riesco a ricordare ciò che ho appena vissuto” dice Arthur Duff seduto al tavolino del bar davanti a un caffè. “E questo mi dà la possibilità di creare sempre qualcosa di nuovo da zero”.
Durante la nostra conversazione emerge a più riprese un tema che credo stia particolarmente a cuore ad Arthur Duff ed è il concetto di “convenzione”.
Quando parla, Duff ha in mente la sala dedicata alla monocromia nell’arte contemporanea internazionale dei primissimi anni Sessanta, dove l’opera del maestro del minimalismo americano Robert Ryman dialoga con i lavori dei protagonisti italiani come Piero Manzoni, Alberto Burri, Toti Scialoja ed Enrico Castellani.
“Tempo fa Lucio Pozzi, un artista italiano che ha vissuto a lungo negli Stati Uniti in particolare a New York tra gli anni ’60 e ’70, mi ha raccontato un episodio che ha come protagonista Robert Ryman e che in qualche modo si collega a quello che dicevamo poco fa su arte e convenzione, valore, plus valore, sistema, capitale.
Robert Ryman era molto arrabbiato perché Joe Baer aveva smesso di fare i quadri che indagavano the edge, cioè il confine tra la superficie e il bordo, e aveva iniziato a far rientrare la figura e la figurazione nel suo lavoro. Per Ryman questa cosa era un grande sacrilegio. La modernità è stata inflessibile e categorica sulla nozione di coerenza.”
L’arte astratta del Novecento è stata molto rigida…
“L’arte del Novecento ha stabilito la convenzione del segno, del marchio, dell’apparato per giustificare la mercificazione dell’oggetto. Se l’opera non rientra nei parametri della convenzione, è anti-convenzionale, quindi fuori dal sistema che è fondamentalmente finanziario, economico e di potere. Per un artista fare un piccolo segno diverso, cambia completamente gli equilibri. In questo senso uscendo dalla specificità minimalista, Joe Baer manda in frantumi un intero apparato. Ed è in quel preciso punto che risiede lo spazio di libertà per un arista. Questo è lo spazio dove il lavoro non può essere controllato.”
All’ingresso del museo, in una sala dalle dimensioni monumentali. campeggia la grande opera in marmo bianco Femme Paysage di Jean Hans Arp del 1966. Arp apre, come una sorta di punto focale, all’allestimento dedicato all’italiano Bruno De Toffoli, artista meno noto al grande pubblico e firmatario di uno dei Manifesti dello Spazialismo, movimento espressione della ricerca plastica e strettamente legato a Lucio Fontana.
A tua avviso, l’arte esposta in questa mostra è tutta “convenzione”?
“Sono state selezionate opere di artisti che hanno lavorato nel loro studio all’interno di una dinamica intima e personale, in rapporto con gallerie e musei, e che hanno cercato di mantenere un certo grado di libertà. In questa mostra sono state fatte delle scelte coraggiose come quella di presentare un artista come De Toffoli, che rappresenta una voce fuori dal coro. Il mondo dell’arte dopo la Seconda guerra è stato vittima di dinamiche complesse. Basti pensare alle scelte operate da Alfred Barr, a quel tempo direttore del MoMA di New York, rispetto agli artisti italiani: chissà quale è stato il criterio che ha adottato… magari semplicemente numerico?”
Barr poteva osservare le cose da un punto di vista privilegiato…
“Subito dopo la guerra, il passato recente dell’Italia era difficile da gestire. Prenderlo in mano, scottava parecchio. Oggi riusciamo a parlare dell’astrattismo senza pregiudizio, ma negli anni Ottanta era difficile valutare il lavoro di Giorgio De Chirico o di Alberto Savinio.”
Perché secondo te è interessante dedicare una nicchia al lavoro di De Toffoli accanto ai grandi del Novecento?
"Perché è interessante osservare il lavoro di un artista da dentro. Rispetto a De Toffoli, uno si domanda: dove stava con il lavoro, con la testa? A mio avviso bisogna valutare le cose in base al lavoro. Bruno De Toffoli è stato un artista sottovalutato. L’operazione che si sta facendo qui è di tentare di vedere il lavoro per quello che è. Vedere De Toffoli in associazione ad Arp, è un modo per rivedere, riguardare, osservare De Toffoli con un’altra lente che non è più quella del canone del post-guerra. E’ un bellissimo modo per definirlo nuovamente. Arp è il sole attorno a cui ruotano tutti gli altri artisti, come pianeti. In questo senso Jean Hans Arp ha definito il canone, la convenzione.”
Allestimento della mostra, ph. Roberto Serra
Come fa un artista a trovare uno spazio di libertà nella convenzione?
"Il lavoro di un artista è unico: ha un inizio e una fine. C’è tutta una preparazione: viene teso un un telaio, viene scelta una tela, un colore rispetto a un altro. Ogni gesto ha la sua autonomia. Poi viene contestualizzato, viene messo in qualche modo a confronto.”
Tu come lavori?
“Spero di mettere in atto un gesto imprevedibile e di non sapere quello che sto facendo. L’impossibilità di ricordare è uno strumento che mi permette di avere una certa libertà.”
Pensi che l’arte avvenga a tua insaputa?
“Per avere libertà all’interno di un sistema controllato è importante non sapere quello che si fa.”
Parlami di un altro accostamento inusuale: Enrico Castellani e Sol Lewitt.
“I loro lavori si stanno parlando, c’è dialogo tra di loro. L’accostamento ci permette di vedere Enrico Castellani e Sol Lewitt. Questi due pezzi sono come fratelli. Personalmente mi sento più vicino a Sol Lewitt, cioè all’idea che il progetto è già in sé un lavoro. Forse per Castellani la forma seriale è un progetto, un lavoro in sé. Ogni lavoro porta avanti una piccola differenza.”
In esposizione si possono ammirare alcune opere che sono emblematiche delle radici della scultura italiana e che raramente sono esposte insieme: La Pisana di Arturo Martini, la Pomona di Marino Marini e il Grande Cardinale Seduto di Giacomo Manzù.
Poco distanti 19 opere di Fausto Melotti, rappresentative dei suoi contenitori e vasi ceramici tra cui quattro importanti Korai.
Come appare ai nostri occhi l’arte del Novecento?
“Noi percepiamo il secolo scorso come un momento di grande certezza, ma probabilmente per gli artisti non lo era affatto. Attraverso la lente dell’astrattismo degli anni Trenta, dove possiamo far ricondurre a livello italiano tanti artisti e intellettuali - penso a Fausto Melotti o alla pubblicazione “KN” di Carlo Belli del 1935 -, è un mondo che ambiva a un’utopia, che univa delle certezze in un unica e gloriosa soluzione che per noi è raccapricciante. Se ci pensiamo ci viene la pelle d’oca perché sappiamo dove sono arrivate quelle utopie, quelle certezze."
Allestimento della mostra, ph. Roberto Serra
In tutto ciò poi c’è Lucio Fontana. Un’intera sala è dedicata al tema dello Spazialismo. Di questo Maestro, figura centrale dell’arte contemporanea del XX Secolo e riconosciuta internazionalmente, è esposto Concetto spaziale. Attese del 1965. Ci sono anche alcuni piatti denominati Antica Savona, creazioni fittili spazialiste e l’importante nucleo delle tre Nature in bronzo e terracotta.
“Fontana rimane al di fuori di tutto. Quello che fa e non può non fare è in costante rimescolamento : ceramica, bronzo, taglio o meglio pittura, che sia un concetto di scultura…. Per lui è tutto necessario, genera un movimento dall’interno di se stesso. E’ un esempio imprendibile, basti pensare che fino a poco tempo fa Fontana era taglio e basta. Se un artista cerca delle figure da studiare, beh, Fontana è inafferrabile. E’ l’artista che dice ‘oggi posso fare quello che voglio, posso fare qualcosa che non so fare, che non ho fatto ieri’. E’ un faro anche oggi, un maestro in continua rivisitazione.”
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