L'artista in mostra a Milano dal 17 dicembre al 7 aprile con Hana to Yama
Linda Fregni Nagler, la Scuola di Yokohama e il recupero della fotografia di un passato antico
Linda Fregni Nagler, Jinrikisha, 2018, Gelatina a stampa d'argento colorata a mano, 29.3 x 22.3 cm, Con cornice 43.7 x 42.4 cm
Samantha De Martin
07/12/2018
Milano - C’è una magia che travolge nel mondo antico in via di estinzione messo in scena dalla fotografia della Scuola di Yokohama e scelto da Linda Fregni Nagler come materia prima delle sue opere.
Una seduzione trasmessa attraverso la ripresa, tramite la fotografia, di una tradizione iconografica manuale. Scatti anonimi, lontani, estremamente intensi e talvolta senza tempo, che ci riportano ai due soggetti ricorrenti nella scuola di Yokohama Shashin: i venditori ambulanti di fiori e le vedute del Fujiyama, appartenenti all'archivio che questa giovane artista di origini svedesi ha composto negli ultimi dieci anni.
Dal 17 dicembre al 7 aprile, Linda, classe 1976, porterà il suo Hana to Yama, a cura di Vincenzo De Bellis, nella sede di Banca Generali a Milano. Oltre 30 fotografie legate alla sua ricerca pluriennale sulla scuola sviluppatasi in Giappone nella seconda metà dell'Ottocento catapultano il visitatore nell’epoca dell'apertura delle frontiere e della modernizzazione del paese, divenuto meta di artisti e intellettuali durante quello che venne definito una sorta di nuovo “grand tour d’oriente”.
Parliamo di Hana to Yama. Cosa vedremo in mostra?
«Il titolo della mostra, Hana to Yama ('Fiori e montagna') si riferisce ai due nuclei di fotografie presentati, due soggetti ricorrenti nella Yokohama Shashin. Il primo nucleo in mostra è quello dei cosiddetti Flower sellers, venditori ambulanti di fiori - elementi della natura imprescindibili nel quotidiano giapponese - che attiravano l'attenzione dei viaggiatori occidentali con le loro piccole architetture portatili. Propongo queste immagini in una gamma cromatica e in scala diversa dagli originali: quattro fotografie di grande formato in cui i flower sellers posano, con il loro aspetto fiero e ieratico, consapevoli di essere guardati, nello studio del fotografo, davanti ad un fondale neutro».
Le viste del Fujiyama Caratterizzano il secondo nucleo di fotografie in mostra
In totale ci saranno 38 viste del Fujiyama, a loro volta suddivise in 20 opere. Il fascino delle fotografie originali, punto di partenza per il suo lavoro, scaturisce anche dal loro essere senza tempo.
Cosa sappiamo di quelle foto?
«Si tratta di fotografie per lo più anonime, scattate dai punti privilegiati per la vista della montagna. Negli scatti originali, questi luoghi ricorrono e creano dei cortocircuiti visivi. Le immagini si assomigliano ma sono sempre diverse, a volte in dettagli che non si riconoscono al primo sguardo, perché scattate in tempi diversi, da fotografi e con apparecchi fotografici diversi. Li ho raccolti, rifotografati, ristampati e colorati a mano, cercando di uniformare le atmosfere luminose e cromatiche di questi piccoli nuclei fotografici. Ho riunito fotografie in cui lo spazio dello scatto è lo stesso, così come il luogo, o il soggetto fotografato, ma il tempo è enigmatico e insondabile. Potrebbero essere due diversi momenti della stessa giornata come potrebbero essere tarscorsi mesi o addirittura anni».
Qual è il lavoro più emblematico della serie?
«Fuji from Otometoge, un'opera composta da dieci fotografie del Monte Fuji, ritratto dallo stesso privilegiato luogo".
Lei è partita da foto originali per rifotografarle. Come si è svolto, praticamente, il lavoro?
«Ho ri-fotografato gli originali, li ho stampati in camera oscura su carta cotone e li ho colorati a mano, dopo un lungo processo di ricerca e messa a punto di materiali e pigmenti che oggi possano essere assimilati a quelli della Yokohama Shashin. Nel mio studio si è di fatto messa in atto una catena di lavoro simile a quella degli studi giapponesi. La copia, in questo caso la riproduzione di un multiplo d'epoca, tema ricorrente nel mio lavoro, attiva uno sguardo diverso su un materiale considerato sinora principalmente dal punto di vista storico, divenendo, grazie alla ricerca nei materiali, all'alterazione di scala e all'invenzione nel colore, 'altro da sé'».
Com’è nata la passione per la fotografia, in particolare per quella giapponese?
«L'interesse per questo filone è nato molti anni fa, quando ancora studiavo, dall'incontro con Felice Beato. Non si trattava quindi di un anonimo. Pioniere della fotografia, avventuriero, viaggiatore, forse il primo vero reporter della storia, ha fotografato la guerra di Crimea, quella dell'Oppio in Cina, poi la Birmania, per stabilirsi nel 1863 a Yokohama. Lì ha 'fatto scuola', appunto, ma se alcuni autori di Yokohama sono ben noti, di altri non si ricorda più il nome. Negli anni sono riuscita a reperire diverse sue stampe originali. Bellissime...
La passione per la fotografia in generale è nata quando studiavo pittura all'Accademia di belle Arti di Brera. Fotografavo dei soggetti per facilitarmi nell'esecuzione di opere pittoriche. Mi sono resa conto che le fotografie erano di gran lunga migliori dei quadri. Poi un amico artista mi disse: "le foto sono belle, ma le stampe sono pessime!". Così andai a fare pratica nel migliore laboratorio di stampa fine art di Milano, dove rimasi tre anni come apprendista. Ho visto passare i migliori lavori di Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Ugo Mulas, Malik Sidibé».
Cosa avviene in camera oscura?
«Passo molto tempo in camera oscura, mi piace seguire il processo di produzione dall'inizio alla fine. Si tratta di un momento di verifica della 'resistenza' delle immagini. Quando si resta molto tempo su un soggetto e, dopo tante prove e tentativi, quel soggetto ha ancora potere di attrazione, allora significa che si tratta di un'immagine buona per iniziare a lavorare».
Lei non si considera una fotografa. Che potere ha la fotografia?
«Nelle mie ricerche procedo in genere per filoni paralleli. Nel mio lavoro cerco di rendere visibili le convenzioni espressive di una certa società in un preciso momento storico. Ragiono in termini molto semplici: ecco dei manufatti molto simili, qualcuno li ha prodotti per un motivo, ed essi sono certamente parte di un sistema più ampio. Mi interessa l'idea di riuscire a riattivare un materiale di per sé 'estinto', a ridare voce e visibilità, attraverso forme diverse di 'traduzione', a vicende periferiche o marginali della storia delle immagini. Si tratta di un'osservazione storica, ma anche politica, di una cosmologia visiva. Cerco di rendere visibile quello che salta agli occhi a me per prima, quando ricerco, raccolgo e studio. Ma lo faccio da artista, non da storico, né da teorico: il linguaggio con il quale restituisco le mie riflessioni è visivo, non verbale, quindi mi prendo tutte le libertà possibili, sempre rispettando il materiale che ho tra le mani. Le arti visive sono una delle pochissime discipline in cui guardare è un mestiere».
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Dal 17 dicembre al 7 aprile, Linda, classe 1976, porterà il suo Hana to Yama, a cura di Vincenzo De Bellis, nella sede di Banca Generali a Milano. Oltre 30 fotografie legate alla sua ricerca pluriennale sulla scuola sviluppatasi in Giappone nella seconda metà dell'Ottocento catapultano il visitatore nell’epoca dell'apertura delle frontiere e della modernizzazione del paese, divenuto meta di artisti e intellettuali durante quello che venne definito una sorta di nuovo “grand tour d’oriente”.
Parliamo di Hana to Yama. Cosa vedremo in mostra?
«Il titolo della mostra, Hana to Yama ('Fiori e montagna') si riferisce ai due nuclei di fotografie presentati, due soggetti ricorrenti nella Yokohama Shashin. Il primo nucleo in mostra è quello dei cosiddetti Flower sellers, venditori ambulanti di fiori - elementi della natura imprescindibili nel quotidiano giapponese - che attiravano l'attenzione dei viaggiatori occidentali con le loro piccole architetture portatili. Propongo queste immagini in una gamma cromatica e in scala diversa dagli originali: quattro fotografie di grande formato in cui i flower sellers posano, con il loro aspetto fiero e ieratico, consapevoli di essere guardati, nello studio del fotografo, davanti ad un fondale neutro».
Le viste del Fujiyama Caratterizzano il secondo nucleo di fotografie in mostra
In totale ci saranno 38 viste del Fujiyama, a loro volta suddivise in 20 opere. Il fascino delle fotografie originali, punto di partenza per il suo lavoro, scaturisce anche dal loro essere senza tempo.
Cosa sappiamo di quelle foto?
«Si tratta di fotografie per lo più anonime, scattate dai punti privilegiati per la vista della montagna. Negli scatti originali, questi luoghi ricorrono e creano dei cortocircuiti visivi. Le immagini si assomigliano ma sono sempre diverse, a volte in dettagli che non si riconoscono al primo sguardo, perché scattate in tempi diversi, da fotografi e con apparecchi fotografici diversi. Li ho raccolti, rifotografati, ristampati e colorati a mano, cercando di uniformare le atmosfere luminose e cromatiche di questi piccoli nuclei fotografici. Ho riunito fotografie in cui lo spazio dello scatto è lo stesso, così come il luogo, o il soggetto fotografato, ma il tempo è enigmatico e insondabile. Potrebbero essere due diversi momenti della stessa giornata come potrebbero essere tarscorsi mesi o addirittura anni».
Qual è il lavoro più emblematico della serie?
«Fuji from Otometoge, un'opera composta da dieci fotografie del Monte Fuji, ritratto dallo stesso privilegiato luogo".
Lei è partita da foto originali per rifotografarle. Come si è svolto, praticamente, il lavoro?
«Ho ri-fotografato gli originali, li ho stampati in camera oscura su carta cotone e li ho colorati a mano, dopo un lungo processo di ricerca e messa a punto di materiali e pigmenti che oggi possano essere assimilati a quelli della Yokohama Shashin. Nel mio studio si è di fatto messa in atto una catena di lavoro simile a quella degli studi giapponesi. La copia, in questo caso la riproduzione di un multiplo d'epoca, tema ricorrente nel mio lavoro, attiva uno sguardo diverso su un materiale considerato sinora principalmente dal punto di vista storico, divenendo, grazie alla ricerca nei materiali, all'alterazione di scala e all'invenzione nel colore, 'altro da sé'».
Com’è nata la passione per la fotografia, in particolare per quella giapponese?
«L'interesse per questo filone è nato molti anni fa, quando ancora studiavo, dall'incontro con Felice Beato. Non si trattava quindi di un anonimo. Pioniere della fotografia, avventuriero, viaggiatore, forse il primo vero reporter della storia, ha fotografato la guerra di Crimea, quella dell'Oppio in Cina, poi la Birmania, per stabilirsi nel 1863 a Yokohama. Lì ha 'fatto scuola', appunto, ma se alcuni autori di Yokohama sono ben noti, di altri non si ricorda più il nome. Negli anni sono riuscita a reperire diverse sue stampe originali. Bellissime...
La passione per la fotografia in generale è nata quando studiavo pittura all'Accademia di belle Arti di Brera. Fotografavo dei soggetti per facilitarmi nell'esecuzione di opere pittoriche. Mi sono resa conto che le fotografie erano di gran lunga migliori dei quadri. Poi un amico artista mi disse: "le foto sono belle, ma le stampe sono pessime!". Così andai a fare pratica nel migliore laboratorio di stampa fine art di Milano, dove rimasi tre anni come apprendista. Ho visto passare i migliori lavori di Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Ugo Mulas, Malik Sidibé».
Cosa avviene in camera oscura?
«Passo molto tempo in camera oscura, mi piace seguire il processo di produzione dall'inizio alla fine. Si tratta di un momento di verifica della 'resistenza' delle immagini. Quando si resta molto tempo su un soggetto e, dopo tante prove e tentativi, quel soggetto ha ancora potere di attrazione, allora significa che si tratta di un'immagine buona per iniziare a lavorare».
Lei non si considera una fotografa. Che potere ha la fotografia?
«Nelle mie ricerche procedo in genere per filoni paralleli. Nel mio lavoro cerco di rendere visibili le convenzioni espressive di una certa società in un preciso momento storico. Ragiono in termini molto semplici: ecco dei manufatti molto simili, qualcuno li ha prodotti per un motivo, ed essi sono certamente parte di un sistema più ampio. Mi interessa l'idea di riuscire a riattivare un materiale di per sé 'estinto', a ridare voce e visibilità, attraverso forme diverse di 'traduzione', a vicende periferiche o marginali della storia delle immagini. Si tratta di un'osservazione storica, ma anche politica, di una cosmologia visiva. Cerco di rendere visibile quello che salta agli occhi a me per prima, quando ricerco, raccolgo e studio. Ma lo faccio da artista, non da storico, né da teorico: il linguaggio con il quale restituisco le mie riflessioni è visivo, non verbale, quindi mi prendo tutte le libertà possibili, sempre rispettando il materiale che ho tra le mani. Le arti visive sono una delle pochissime discipline in cui guardare è un mestiere».
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