Al Musée d’Art Moderne de Paris fino al 9 febbraio 2025
L’Age Atomique o la Coscienza dell’Arte dinnanzi alla Storia
Charles Bittinger, Late Stage of Baker, 1946 | Courtesy Navy Art Collection, Naval History and Heritage Command
Luca Muscarà
19/12/2024
Mondo - La validissima esposizione curata da Fabrice Hergott, Julia Garimorth, e Maria Stavrinski al Musée d’Art Moderne de Paris fino al 9 febbraio 2025 affronta la nostra “età atomica”, attraverso i molteplici intrecci tra scienza, politica, cultura di massa, con un’accurata selezione di opere d’arte, video e suggestioni letterarie, che esplorano come essa non sia solo una nuova era, ma configuri proprio una nuova esperienza del tempo.
Il percorso consta di tre sezioni tematico/cronologiche: l’atomo, la bomba, la “nuclearità”. La prima sezione si situa all’inizio del 20º secolo, dove l’utopia di un mondo nuovo e malleabile pare inseparabile dall’ansia di un mondo in crisi. Mentre la scienza scopre la radioattività e la decomposizione dell’atomo, le avanguardie artistiche rompono i canoni prefissati.
Nella seconda sezione, l’invenzione della Bomba, e il suo uso devastante sulle città giapponesi, vede gli artisti avvertire la gravità di un destino nel quale l’umanità è simultaneamente carnefice e vittima. Le immagini della nube atomica a forma di fungo divengono pervasive e la complessità dell’energia nucleare si trasforma in propaganda, consumo, spettacolo.
L’ultima sezione mostra come la costante e invisibile minaccia per ogni forma vivente dia vita a una crescente consapevolezza ecologica. L’immaginario nucleare diviene diffuso e persistente, gli artisti esplorano diversi media, mentre movimenti pacifisti, antinucleari, di controcultura, femministi e post-colonial prendono forma.
Oggi, la storia geopolitica ci riporta al cuore del tema: minaccia e deterrenza nucleari. L’era atomica è il nostro presente.
L’Age Atomique intreccia con abilità scienza e arte. La disintegrazione della materia inizia dai precursori scientifici, le osservazioni di Röntgen, Becquerel, Thomson, Rutherford, con foto di Marie Curie in laboratorio a misurare la radioattività e il film di animazione To split or not to split (1942) del fisico danese Nils Bohr. La prima fase scientifica traspare già nei pionieristici lavori di Hilma af Klint, artista svedese che nel 1917 realizza la prima serie di disegni dedicati esotericamente all’atomo. E si rivela nel Giorno del giudizio di Kandinsky (1912), come nelle opere di Marcel Duchamp L’air de Paris (1919-1964) e La Boîte Verte (1936-1968), nutrite della lettura di Les Atomes del fisico Jean Perrin (1913).
La scoperta della fissione nucleare (1938) rese plausibile l’invenzione della bomba atomica, poi realizzata dal Manhattan Project. Al quale, per tre anni e mezzo, 2500 persone lavorarono incessantemente in regime di assoluta segretezza sotto la guida di Oppenheimer e le immagini di Los Alamos e le foto annotate del Trinity Test, la prima esplosione nel deserto del New Mexico, ben concludono la prima sezione sull’atomo.
La seconda, sulla bomba, si apre con le immagini delle due città giapponesi che subirono il bombardamento atomico documentate sia dall’esercito americano, sia da un reporter locale, da uno scrittore, un fotografo e un disegnatore inviati dall’esercito giapponese tre giorni dopo. Tra le opere più impressionanti vi sono i disegni della bomba-A realizzati dagli hibakusha, i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, e spiccano il Nuclear I di Laszlo Moholy-Nagy (1945) o il Compact Object di Natsuyuki Nakanishi (1962).
Dell’arte post-bomba è ben documentata la persistente analogia formale e concettuale tra fungo atomico, testa umana, globo terrestre e atomo, che emerge in opere come Bombhead di Bruce Conner (immagine simbolo della mostra) o di Henry Moore che fonde la forma sferica dell’atomo in quella di un teschio e di una cattedrale; nel Pagan Void di Barnett Newman, fino a Enrico Baj che attribuisce la forma del feto a un’esplosione atomica. Vi si esprime il radicale mutamento antropologico, ben sintetizzato da Gunther Anders: “il 6 agosto 1945 è il giorno zero, il giorno in cui fu dimostrato che la storia universale potrebbe non continuare, che siamo in grado comunque di interromperne il corso”.
L’angoscia esistenziale di fronte al potenziale annichilimento fisico e morale causato dall’atomica si incarna nell’idea di un’apocalisse alla quale non seguirà l’avvento del “Regno” della tradizione giudaico-cristiana, bensì l’esplosione di caos di un Pollock, la silenziosa e lenta morte morale dell’uomo occidentale nei Three Studies for a Portrait di un Bacon (1976) o l’immaturità umana paradossalmente congiunta a tanta potenza distruttrice, come nel Troglodita con bomba nucleare di un Rinck (2017).
Non mancano le rappresentazioni pittoriche della fisica atomica, come in Paalen, Dalì, Klein, o negli italiani Movimento Nucleare, Francesco Lo Savio, Alberto Burri e Piero Manzoni. Dopo che il fungo atomico fu oggetto di propaganda e, al tempo stesso, spettacolo, come nelle immagini di Miss Atomic e Miss Radiation o nella foto degli ufficiali in poltrona che osservano l’esplosione nell’atollo di Enewetak (1951) con occhiali protettivi, in un diurno cinema all’aperto, spicca il film Crossroads di Bruce Conner (1976) con le immagini realizzate dall’esercito americano per l’omonima operazione, a documentare il test atomico di Bikini (1946). L’esplosione filmata da 500 angolature diverse sulle musiche minimaliste di Patrick Glesson e Terry Riley pare indurre, nella sua ripetizione, un torpore rallentato, quasi a dimostrare come l’alleanza del governo americano alleato con Hollywood riesca a plasmare le coscienze. Ma la coscienza degli artisti non dorme durante la guerra fredda, nel duomo semisferico di Buckminster Fuller imposto su Manhattan, nei disegni degli Ant Farm, nella composizione con Bomba-H di Le Corbusier, e neppure più tardi, in Richard Hamilton o nella video-installazione Pacifier di Gary Hill (2014).
La terza sezione “nuclearità” affronta la nuclearizzazione del mondo dagli anni 60, nei bozzetti della War Room del Dottor Stranamore, o nell’esplosione femminista delle Sisters of Survival. Si documenta il colonialismo nucleare, che devastò popolazioni indigene e territori (quando l’effetto delle radiazioni era sottostimato), con opere dell’Internazionale Situazionista e due grandi fotografie di Julian Charrière (2016) realizzate in doppia esposizione con materiale radioattivo.
Se la “nuclearità” di questo tempo è figlia della guerra, la mostra chiude sul nucleare “civile”. La prima centrale fu costruita dai Sovietici (1954) e tre anni dopo si ebbe il primo incidente, così i successivi disastri di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011) ispirano liricamente le recenti opere di Luc Tuymans e di Natacha Nisic. Scelta coraggiosa quella dei curatori, se si pensa all’elevata quota di energia prodotta in Francia dalle centrali nucleari: quegli incidenti ci interrogano su quale sia il vero prezzo di quell’energia apparentemente pulita e a buon mercato, ossia se esse non siano in effetti bombe a scoppio ritardato, visto che l’impatto del solo Trinity Test si misura in centinaia di migliaia di anni.
La potente sensibilità e consapevolezza degli artisti illumina così la nostra coscienza, chiedendole di fare i conti con il tempo, il nostro tempo “atomico”, ricordandoci che l’Atomic Age è il nostro presente, ma, diversamente da noi, esso non ha fine.
Il percorso consta di tre sezioni tematico/cronologiche: l’atomo, la bomba, la “nuclearità”. La prima sezione si situa all’inizio del 20º secolo, dove l’utopia di un mondo nuovo e malleabile pare inseparabile dall’ansia di un mondo in crisi. Mentre la scienza scopre la radioattività e la decomposizione dell’atomo, le avanguardie artistiche rompono i canoni prefissati.
Nella seconda sezione, l’invenzione della Bomba, e il suo uso devastante sulle città giapponesi, vede gli artisti avvertire la gravità di un destino nel quale l’umanità è simultaneamente carnefice e vittima. Le immagini della nube atomica a forma di fungo divengono pervasive e la complessità dell’energia nucleare si trasforma in propaganda, consumo, spettacolo.
L’ultima sezione mostra come la costante e invisibile minaccia per ogni forma vivente dia vita a una crescente consapevolezza ecologica. L’immaginario nucleare diviene diffuso e persistente, gli artisti esplorano diversi media, mentre movimenti pacifisti, antinucleari, di controcultura, femministi e post-colonial prendono forma.
Oggi, la storia geopolitica ci riporta al cuore del tema: minaccia e deterrenza nucleari. L’era atomica è il nostro presente.
L’Age Atomique intreccia con abilità scienza e arte. La disintegrazione della materia inizia dai precursori scientifici, le osservazioni di Röntgen, Becquerel, Thomson, Rutherford, con foto di Marie Curie in laboratorio a misurare la radioattività e il film di animazione To split or not to split (1942) del fisico danese Nils Bohr. La prima fase scientifica traspare già nei pionieristici lavori di Hilma af Klint, artista svedese che nel 1917 realizza la prima serie di disegni dedicati esotericamente all’atomo. E si rivela nel Giorno del giudizio di Kandinsky (1912), come nelle opere di Marcel Duchamp L’air de Paris (1919-1964) e La Boîte Verte (1936-1968), nutrite della lettura di Les Atomes del fisico Jean Perrin (1913).
La scoperta della fissione nucleare (1938) rese plausibile l’invenzione della bomba atomica, poi realizzata dal Manhattan Project. Al quale, per tre anni e mezzo, 2500 persone lavorarono incessantemente in regime di assoluta segretezza sotto la guida di Oppenheimer e le immagini di Los Alamos e le foto annotate del Trinity Test, la prima esplosione nel deserto del New Mexico, ben concludono la prima sezione sull’atomo.
La seconda, sulla bomba, si apre con le immagini delle due città giapponesi che subirono il bombardamento atomico documentate sia dall’esercito americano, sia da un reporter locale, da uno scrittore, un fotografo e un disegnatore inviati dall’esercito giapponese tre giorni dopo. Tra le opere più impressionanti vi sono i disegni della bomba-A realizzati dagli hibakusha, i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, e spiccano il Nuclear I di Laszlo Moholy-Nagy (1945) o il Compact Object di Natsuyuki Nakanishi (1962).
Dell’arte post-bomba è ben documentata la persistente analogia formale e concettuale tra fungo atomico, testa umana, globo terrestre e atomo, che emerge in opere come Bombhead di Bruce Conner (immagine simbolo della mostra) o di Henry Moore che fonde la forma sferica dell’atomo in quella di un teschio e di una cattedrale; nel Pagan Void di Barnett Newman, fino a Enrico Baj che attribuisce la forma del feto a un’esplosione atomica. Vi si esprime il radicale mutamento antropologico, ben sintetizzato da Gunther Anders: “il 6 agosto 1945 è il giorno zero, il giorno in cui fu dimostrato che la storia universale potrebbe non continuare, che siamo in grado comunque di interromperne il corso”.
L’angoscia esistenziale di fronte al potenziale annichilimento fisico e morale causato dall’atomica si incarna nell’idea di un’apocalisse alla quale non seguirà l’avvento del “Regno” della tradizione giudaico-cristiana, bensì l’esplosione di caos di un Pollock, la silenziosa e lenta morte morale dell’uomo occidentale nei Three Studies for a Portrait di un Bacon (1976) o l’immaturità umana paradossalmente congiunta a tanta potenza distruttrice, come nel Troglodita con bomba nucleare di un Rinck (2017).
Non mancano le rappresentazioni pittoriche della fisica atomica, come in Paalen, Dalì, Klein, o negli italiani Movimento Nucleare, Francesco Lo Savio, Alberto Burri e Piero Manzoni. Dopo che il fungo atomico fu oggetto di propaganda e, al tempo stesso, spettacolo, come nelle immagini di Miss Atomic e Miss Radiation o nella foto degli ufficiali in poltrona che osservano l’esplosione nell’atollo di Enewetak (1951) con occhiali protettivi, in un diurno cinema all’aperto, spicca il film Crossroads di Bruce Conner (1976) con le immagini realizzate dall’esercito americano per l’omonima operazione, a documentare il test atomico di Bikini (1946). L’esplosione filmata da 500 angolature diverse sulle musiche minimaliste di Patrick Glesson e Terry Riley pare indurre, nella sua ripetizione, un torpore rallentato, quasi a dimostrare come l’alleanza del governo americano alleato con Hollywood riesca a plasmare le coscienze. Ma la coscienza degli artisti non dorme durante la guerra fredda, nel duomo semisferico di Buckminster Fuller imposto su Manhattan, nei disegni degli Ant Farm, nella composizione con Bomba-H di Le Corbusier, e neppure più tardi, in Richard Hamilton o nella video-installazione Pacifier di Gary Hill (2014).
La terza sezione “nuclearità” affronta la nuclearizzazione del mondo dagli anni 60, nei bozzetti della War Room del Dottor Stranamore, o nell’esplosione femminista delle Sisters of Survival. Si documenta il colonialismo nucleare, che devastò popolazioni indigene e territori (quando l’effetto delle radiazioni era sottostimato), con opere dell’Internazionale Situazionista e due grandi fotografie di Julian Charrière (2016) realizzate in doppia esposizione con materiale radioattivo.
Se la “nuclearità” di questo tempo è figlia della guerra, la mostra chiude sul nucleare “civile”. La prima centrale fu costruita dai Sovietici (1954) e tre anni dopo si ebbe il primo incidente, così i successivi disastri di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011) ispirano liricamente le recenti opere di Luc Tuymans e di Natacha Nisic. Scelta coraggiosa quella dei curatori, se si pensa all’elevata quota di energia prodotta in Francia dalle centrali nucleari: quegli incidenti ci interrogano su quale sia il vero prezzo di quell’energia apparentemente pulita e a buon mercato, ossia se esse non siano in effetti bombe a scoppio ritardato, visto che l’impatto del solo Trinity Test si misura in centinaia di migliaia di anni.
La potente sensibilità e consapevolezza degli artisti illumina così la nostra coscienza, chiedendole di fare i conti con il tempo, il nostro tempo “atomico”, ricordandoci che l’Atomic Age è il nostro presente, ma, diversamente da noi, esso non ha fine.
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