Restauri internazionali
Ritorno in Siria per i busti di Palmira
By Bernard Gagnon (Own work) [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons |
Palmira, l’Arco di Settimio il Severo e la Via Colonnata prima della distruzione
Francesca Grego
01/03/2017
Mondo - Sono tornati in Siria i due busti in altorilievo di Palmira affidati all’istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro di Roma, dopo le martellate inferte dai miliziani dell’Isis sui monumenti di uno dei più preziosi siti archeologici del Medio Oriente.
Un episodio entrato nell’immaginario globale per la sua valenza distruttiva, che ora trova un riscatto grazie all’ottima riuscita di un ardito e innovativo intervento di restauro.
Le parti mancanti delle due figure, ricostruite prima in virtuale, sono state ricreate mediante processi di produzione additivi (stampa 3D), a partire da materiali plastici caricati con polveri di marmo, e poi applicate in maniera reversibile agli originali grazie a un sistema di magneti.
Come ha riferito Antonio Iaccarino, membro del team di restauro, è stato necessario mediare tra l’aspirazione dei siriani a un intervento completo e radicale, che cancellasse ogni traccia dell’accaduto, e l’attuale sensibilità dei conservatori italiani, che privilegia soluzioni meno invasive, in cui l’intervento sia reversibile e riconoscibile.
Unici reperti usciti in questi anni dalla Siria e dall’Iraq e rimpatriati, come feriti di guerra, dopo le cure necessarie, i busti sono ora al sicuro nel caveau della Banca Centrale Siriana a Damasco, insieme ad altre opere d’arte messe in salvo.
Un’ulteriore conferma della fiducia di cui il nostro paese gode nel settore a livello internazionale, grazie alla perizia di tecnici e archeologi, ma anche per l’attitudine a rispettare esigenze e tradizioni altrui.
“Avendo molte specializzazioni e una conoscenza consolidata delle popolazioni locali”, ha spiegato il presidente dell’Ismeo Adriano Rossi, “l’archeologia italiana riesce a essere presente anche laddove altri paesi occidentali non sono graditi”. È il caso della Missione dello Swat in Pakistan, dove negli ultimi cinque anni il progetto italiano ACT ha riportato alla luce una città, due necropoli e due santuari buddhisti, ricostruito un museo e curato il restauro del Buddha di Jahanabad.
Emblematico anche l’esempio della Libia: qui gli italiani sono rimasti a lavorare nell’insediamento romano di Leptis Magna dopo la caduta di Gheddafi e, quando l’area ha smesso di essere praticabile, hanno assistito i colleghi locali inviando i materiali per la protezione dei mosaici della Villa di Silin. Dopo la recente riapertura dell’ambasciata a Tripoli, il ritorno è nell’aria, ma nel frattempo, per la prossima primavera, i tecnici libici sono attesi a Roma per un corso di formazione.
In tutti questi casi la salvaguardia del patrimonio artistico e culturale si fa portatrice di una discreta ma penetrante azione diplomatica: "andare in un Paese per curarne i beni - commenta il direttore dell'ISCR Gisella Capponi - è un approccio importante e tranquillizzante, che spiana la strada alla politica, ai rapporti commerciali, agli scambi umani".
Un episodio entrato nell’immaginario globale per la sua valenza distruttiva, che ora trova un riscatto grazie all’ottima riuscita di un ardito e innovativo intervento di restauro.
Le parti mancanti delle due figure, ricostruite prima in virtuale, sono state ricreate mediante processi di produzione additivi (stampa 3D), a partire da materiali plastici caricati con polveri di marmo, e poi applicate in maniera reversibile agli originali grazie a un sistema di magneti.
Come ha riferito Antonio Iaccarino, membro del team di restauro, è stato necessario mediare tra l’aspirazione dei siriani a un intervento completo e radicale, che cancellasse ogni traccia dell’accaduto, e l’attuale sensibilità dei conservatori italiani, che privilegia soluzioni meno invasive, in cui l’intervento sia reversibile e riconoscibile.
Unici reperti usciti in questi anni dalla Siria e dall’Iraq e rimpatriati, come feriti di guerra, dopo le cure necessarie, i busti sono ora al sicuro nel caveau della Banca Centrale Siriana a Damasco, insieme ad altre opere d’arte messe in salvo.
Un’ulteriore conferma della fiducia di cui il nostro paese gode nel settore a livello internazionale, grazie alla perizia di tecnici e archeologi, ma anche per l’attitudine a rispettare esigenze e tradizioni altrui.
“Avendo molte specializzazioni e una conoscenza consolidata delle popolazioni locali”, ha spiegato il presidente dell’Ismeo Adriano Rossi, “l’archeologia italiana riesce a essere presente anche laddove altri paesi occidentali non sono graditi”. È il caso della Missione dello Swat in Pakistan, dove negli ultimi cinque anni il progetto italiano ACT ha riportato alla luce una città, due necropoli e due santuari buddhisti, ricostruito un museo e curato il restauro del Buddha di Jahanabad.
Emblematico anche l’esempio della Libia: qui gli italiani sono rimasti a lavorare nell’insediamento romano di Leptis Magna dopo la caduta di Gheddafi e, quando l’area ha smesso di essere praticabile, hanno assistito i colleghi locali inviando i materiali per la protezione dei mosaici della Villa di Silin. Dopo la recente riapertura dell’ambasciata a Tripoli, il ritorno è nell’aria, ma nel frattempo, per la prossima primavera, i tecnici libici sono attesi a Roma per un corso di formazione.
In tutti questi casi la salvaguardia del patrimonio artistico e culturale si fa portatrice di una discreta ma penetrante azione diplomatica: "andare in un Paese per curarne i beni - commenta il direttore dell'ISCR Gisella Capponi - è un approccio importante e tranquillizzante, che spiana la strada alla politica, ai rapporti commerciali, agli scambi umani".
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