Al Complesso del Vittoriano dal 19 ottobre all'11 febbraio

Monet, il poeta della luce in mostra a Roma

Claude Monet, Barca a vela. Effetto sera, 1885 Olio su tela, 65 x 54 cm, Parigi, Musée Marmottan Monet © Musée Marmottan Monet, paris c Bridgeman-Giraudon / presse
 

Samantha De Martin

18/10/2017

Roma - È un respiro privato, profondo, carico di luce quello che si espande dalle tele di Claude Monet, da quelle opere che l’artista conservava nella sua amata dimora di Giverny, muti testimoni del suo commiato all’arte, e che adesso si mostrano al pubblico, in tutta la loro intima bellezza.
Pittore, giardiniere, “cacciatore” - come lo definiva Guy de Maupassant - di ponti e di marine, di glicini e ninfee, di acqua e paesaggi urbani. Era tutto Monet, l’artista che «davanti al suo soggetto, restava in attesa del sole e delle ombre, fissando con poche pennellate il raggio che appariva o la nube che passava».

E ammirare questo instancabile viaggiatore, innamorato della luce, al Complesso del Vittoriano, attraverso le 60 opere, prestiti eccezionali provenienti dal Musée Marmottan Monet di Parigi - sede del nucleo più importante e numeroso di opere del grandissimo artista francese, grazie alle donazioni dei collezionisti dell’epoca e del figlio Michel - è un regalo al cuore.

Nelle sezioni che ripercorrono l’universo gentile del pittore che ha trasformato la pittura en plein air in un rituale di vita, ci sono la famiglia e le caricature, i fumi di Londra e il tabarro della nebbia, le celebri ninfee e i ponti giapponesi.
E grazie a un piccolo “miracolo” della tecnologia e all’impegno di Sky Arte HD, è stato anche ricostruito ed esposto per la prima volta al pubblico Water Lilies, capolavoro andato distrutto nel tragico incendio che nel 1958 interessò il Museum of Modern Art di New York.

Oltre ai grandi capolavori Ritratto di Michel Monet neonato, Ninfee, Le rose, Londra. Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi, c’è l’intero percorso artistico del maestro impressionista racchiuso nella mostra a cura del vice-direttore del Marmottan, Marianne Mathieu: dalle celebri caricature, vendute a 10 o 20 franchi, che gli assicurarono i primi soldi, ai paesaggi rurali, dai contesti urbani di Londra, Parigi, Vétheuil alla parentesi italiana, precisamente ligure, testimoniata da Castello di Dolceacqua. E proprio dell’ “abbagliante” riviera ligure il pittore scriveva: “tutto è variopinto e dorato, è meraviglioso e ogni giorno la campagna è più bella, sono incantato”.

La sua famiglia “allargata” - composta dai piccoli Jean e Michel, avuti dalla prima moglie Camille Doncieux e dai sei figli che la seconda moglie, Alice Hoschedé, aveva avuto con il precedente marito - rappresentata con tutta la tenerezza di un padre nelle sue tele, lascia spazio a quelle caricature che Monet era solito riprodurre sin dal suo ingresso nel collegio di Le Havre e che spesso donava ai compagni. Vecchia normanna (1857) o Giovane donna al piano verticale (1858), presenti in mostra, sono alcune di quelle opere che Monet esponeva tutte le domeniche in rue de Paris presso il cartolaio Gravier.

Ma è in lavori come il sublime Effetto di neve. Calar del sole (1875) o Vétheuil nella nebbia (1879) - attraverso cui abbandona lentamente la descrizione per dedicarsi all’interpretazione e alla semplificazione del soggetto - che la solitudine dell’artista, accentuata in seguito alla scomparsa della moglie Camille, si riflette nel suo lavoro e incontra la potenza della pittura nel tentativo di immortalare la morsa del freddo di quell’inverno tiranno.
I toni surreali, quasi fantastici di quel periodo lasciano il posto al mare e alle falesie della Normandia dove Monet soggiorna dal 1880 al 1885. In Barca a vela. Effetto della sera o Étretat, falesia d’Amont. Effetto del mattino, entrambe eseguite nel 1885, il paesaggio non è più solo la raffigurazione di una scena statica, la materia è spessa, la pennellata lunga. “La terra e il mare sono forze in azione, colte nel pieno della lotta” scriveva l'artista.

Monet voleva vedere, toccare, sentire. Anche quando - secondo quanto si racconta - una volta raggiunto il superbo e selvaggio Oceano Atlantico rischiò di perdere l’equilibrio nello sporgersi ad ammirare quel mare “dai riflessi inverosimili” che gli ispirarono una quarantina di tele.

E poi c'è l’universo di Giverny, con la casa dall’intonaco rosa, nel quale l’artista allestisce il primo atelier e inizia a plasmare il giardino come un tableau vivant facendone il suo soggetto prediletto, che dipingerà fino alla morte.
“Il mio giardino è un’opera lenta, perseguita con amore. E non nascondo che ne vado fiero” scriveva l’artista che rivoluzionò il terreno piantandovi alberi da frutto e fiori selvatici, dal papavero alle rose, molti dei quali ben rappresentati in una delle sezioni della mostra. Nel 1893 aveva anche ottenuto il permesso di scavare un bacino in fondo alla proprietà per potervi coltivare le piante acquatiche con le quali abbellì lo spazio, un giardino acquatico, concepito come un quadro, che raffigura il mondo in cui l’artista avrebbe sognato di vivere. Tra il 1899 e il 1902 Monet dedicherà ben due serie di tele a quello stagno di ninfee trasformatesi in “una vera e propria ossessione” e divenute un soggetto a sé stante.

E se le tele con al centro il salice piangente racchiudono tutta l’angoscia e la tristezza che attanagliano il pittore colpito da una serie di lutti, i pannelli monumentali donati allo Stato francese, caratterizzati da paesaggi acquatici, denotano la ricchezza espresiva dell’ultima fase della sua carriera. Una fase dominata dal blu e da quell'oscillazione tra figurazione e astrazione che è forse già "arte non figurativa".

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