Diapason. Vincenzo Merola e Alighiero Boetti
Dal 17 Dicembre 2017 al 15 Febbraio 2018
Bologna
Luogo: Galleria Stefano Forni
Indirizzo: piazza Cavour 2
Orari: dal martedì al sabato 10.00-12.30 e 16.00-19.30
Curatori: Valerio Dehò
Telefono per informazioni: +39.051.225679
E-Mail info: arte@galleriastefanoforni.com
Sito ufficiale: http://www.galleriastefanoforni.com
Domenica 17 Dicembre 2017 alle ore 17.00, presso la Galleria Stefano Forni di Piazza Cavour 2 si inaugura la mostra Diapason. Vincenzo Merola e Alighiero Boetti a cura di Valerio Dehò. Una mostra personale del giovane artista molisano Vincenzo Merola in dialogo con alcune opere del maestro Boetti.
Estetica del Caso.
Il lavoro di Vincenzo Merola si articola lungo due direttrici ben delineate: il rapporto parola e immagine e una ricerca che porta l’arte a relazionarsi con l’universo delle regole atematiche e delle permutazioni, con l’aleatorietà e la ricerca di quella “casualità intelligente” che ha operato lungo tutto il corso del secolo scorso. Quando lavora con le parole segue il flusso della ricerca legata alla Poesia concreta da un lato, mentre dall’altro guarda al concettuale americano ma filtrato dall’ironia di Alighiero Boetti. La ricerca verbo-visiva esiste da troppi anni perché si possa esaurire in qualche generazione, anzi appare sempre di più un fenomeno strutturale della cultura, anche e soprattutto oggi in cui il linguaggio iconico e verbale sono fusi nell’idioletto digitale.
Merola ha presente le leggi del concretismo rendendole ancora più cariche di grafismi da una parte e di concettualità dall’altra. Cioè il testo non è tutto ma la sua scansione, l’articolazione delle singole lettere e la specularità che spesso raddoppia e moltiplica il sintagma verbale, fanno parte di un processo di codifica. Vi è la forza della sentence e la grazia di un’impostazione grafica che condivide con il mondo della comunicazione. Alighiero Boetti certamente è stato una dei grandi protagonisti della parola nell’arte anche nel recupero della scrittura e dei grafemi. La penna a biro usata come uno strumento per dipingere e disegnare probabilmente è una sua invenzione, tra le tante che ci ha regalato. E aveva capito, si pensi agli arazzi, che le parole formano un tappeto steso ai nostri occhi che invita a viaggiare e a muoversi con la mente. Merola riprende questa filosofia e la porta dentro una contemporaneità che è fatta di decorazione controllata dal linguaggio, il concettuale nudo e crudo ha smesso di mandare segnali di vita. Con lui si avverte da parte di un giovane artista l’esigenza di confrontarsi con la tradizione ma anche quella di andare avanti. La manualità diventa fondamentale, come la precisione dei segni e delle righe che gareggiano con i barcode e che rivelano la loro anima ossessiva di un vero e proprio esercizio di stile. Solo quando usa i timbri inchiostrati deroga alla fattualità del segno per approdare alla ripetitività del gesto. Ma anche qui ritornano gli addensamenti e le rarefazioni, il vuoto e il pieno il un ritmo di dissonanze e consonanze che è tutto visivo e coinvolgente. Merola gestisce le sue opere come partiture, le controlla e le affida al Caso come se non accettasse fino in fondo il proprio ruolo di artista-demiurgo. Si ferma prima, sulla soglia della decidibilità. Prima di entrare in conflitto con il suo ruolo creativo, ma accettandone le aporie.
Poi per l’artista ogni sfida tecnica è vinta, la sua capacità analitica gli consente di trovare quasi sempre la soluzione estetica più felice rispetto all’ideazione. La poesia ha un senso proprio perché ormai è uscita definitivamente dai libri ed è diventata visione o espressione fonico/fonetica. L’estetizzazione della società coinvolge anche i generi, la letteratura e le arti visive sono elementi di una comunicazione polisemica e intermediale. Anzi c’è da dire che la visual poetry di Merola porta a questa corrente un apporto importante proprio perché originale e a sostegno di un apporto da parte di generazioni attuali.
L’aleatorietà è in effetti il progressivo affrontare da parte di Vincenzo Merola del problema delle avanguardie storiche e poi delle neoavanguardie anni sessanta. Il Caso è il reale Imperatore del mondo e la Fortuna ne è la degna consorte. Ma per l’arte la “casualità intelligente” fa parte del retaggio che deriva direttamente da Stephane Mallarmé e dal suo Coup de dès jamais n’abolira l’hasard pubblicato nel 1897: l’origine della poesia concreta e del rapporto moderno tra arte e letteratura. Mallarmè quindi, l’ultimo poeta che annuncia con la sua morte la nascita del Novecento, ma subito dopo vi è Duchamp e la sua ineludibile lezione sull’importanza di un intervento extra artistico sull’opera d’arte. A parte il Grande vetro e la sua provvidenziale incrinatura, basti ricordare un lavoro come Trois Standard Stoppages, Paris 1913-14 in cui tre fili di un metro lasciati cadere dalla stessa distanza assumono forme e misure diverse. Il Caso, l’hazard, riesce a modificare anche le certezze matematiche senza smentirle o negarle, ma facendole diventare un’oggettività provvisoria, mutevole.
Del resto sappiamo che la casualità è preferibile al Chaos anche se entrambe hanno delle regole nascoste, degli algoritmi che governano quello che apparentemente non è governabile. Così i suoi quadri astratti siano essi su carta o su tela, non solo mettono in scienza le sottili relazioni tra ordine e disordine, annullando quasi le differenze e rivelando consonanze inattese ma rivelano la crisi delle certezze proprio nella creazione di algoritmi estetici. Qualcosa di più sofisticato del colpo di dadi e anche di più attuali se è vero che ancora e sempre il Caso a generare la musica dei nostri giorni. Come aveva dimostrato John Cage che del rigore e della casualità aveva sposato l’estremismo del gesto Zen, quella logica dell’assurdo incomprensibile alla ragione strumentale di un Occidente sempre teso a conquistare, sottomettere, produrre per sempre.
Allora l’astrazione concreta di Vincenzo Merola sottende non certo alla “programmazione” parascientifica dei vari gruppi Zero, N e T, ma alla creazione di un sistema di regole personali, un corpus operativo-generazionale che accompagna da sempre la sua ricerca. Del resto non perde mai di vista i valori intriseci del visivo, c’è ordine e spazio nel suo lavoro, così come c’è sempre il rigore associato al piacere dello sguardo. La concretezza della sua arte discende da una poetica in cui i messaggi delle avanguardie del Novecento trovano non solo una sintesi quanto anche una convincente riattualizzazione.
Vedere e guardare coincidono, ma le sue opere sono anche ritmi visivi che possono essere ascoltati con gli occhi. Sia nella manipolazione del linguaggio che nelle verticalizzazioni permutative, la sua arte ha la forza di una poetica aperta ma direzionata. Sa quello che fa anche quando si affida ai calcoli e ai numeri probabilistici. Magari “Dio non gioca a dadi con il mondo”, come recita la celebre frase di Albert Einstein, ma a noi è concesso. Perché così l’arte si apre a forme di conoscenza in cui non si supera mai il confine tra l’arbitrario e il necessario. Si resta sul filo del rasoio di un codice da decrittare senza poi volerlo capire del tutto, accettandolo come una metafora dell’esistenza. Un mistero che non si vuole sciogliere, opere d’arte che non vogliono essere spiegate, ma restare enigmi di quello che siamo. In attesa di un colpo di dadi o di algoritmo che giustifichi il nostro esserci qui e ora.
Valerio Dehò
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