Luigi Grande. Un artista tra Novecento e contemporaneità
Dal 04 Luglio 2014 al 31 Agosto 2014
Genova
Luogo: Museo Accademia Linguistica di Belle Arti
Indirizzo: largo Sandro Pertini 4
Orari: martedì - venerdì 11-18, sabato-domenica 12-19
Curatori: Maria Flora Giubilei, Giulio Sommariva
Costo del biglietto: intero € 6, ridotto € 5
Telefono per informazioni: +39 010 560131
E-Mail info: museo@accademialigustica.it
Sito ufficiale: http://museo.accademialigustica.it
Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 il pittore e scultore Luigi Grande ha donato a Genova, città capoluogo della sua regione d’adozione, quaranta opere. Lo ha fatto destinandole a due musei aperti al pubblico, alla Galleria d’Arte Moderna – che quest'anno celebra i cent'anni dal primo atto che ne sanciva l'esistenza nel 1914, e i dieci anni dalla riapertura completamente rinnovata nel 2004 - e al Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, dispiegando una generosità di cui si dà conto oggi con due mostre che documentano la sua carriera sul fronte della pittura, tra la metà degli anni Sessanta e la contemporaneità.
Il catalogo, edito da Sagep, è curato da Maria Flora Giubilei e da Giulio Sommariva. I saggi sono firmati dai due curatori e da Maria Teresa Orengo, alla quale spetta il compito di rievocare l'intensa amicizia dell'artista con il padre, il noto poeta e drammaturgo Vico Faggi. Franco Lecca e Ferdinando Galardi restituiscono dell'artista alcuni intensi ritratti pubblicati , sia sulla copertina , sia all'interno del catalogo.
Donazioni importanti che colmano una significativa lacuna della Galleria d'Arte Moderna – cui non difetta una tenuta di documentazione solo fino agli anni Quaranta compresi – e del Museo dell’Accademia presso il quale, nonostante i legami con gli artisti viventi di territorio, spesso pure impegnati come docenti presso la scuola, l’arte contemporanea, salvo rarissime eccezioni, è del tutto assente.
L'artista, che rivela occhi e sensibilità internazionali, vanta più di mezzo secolo di attività con mostre in tutta Italia, e rapporti con letterati, drammaturghi e poeti del suo tempo. Scosso nel profondo dalla tragica eredità culturale di regimi e di conflitti, è convinto, con lo stesso entusiasmo civico che dal suo atelier di Sestri Levante lo ha condotto ai portoni dei due musei genovesi, che il suo impegno d’intellettuale deve avere precise responsabilità di denuncia e di impegno sociale e civile.
Portato a guardarsi costantemente dentro, a lasciarsi coinvolgere dalle inquietudini dell’esistenzialismo, a scrutare il suo tempo attraverso impegnative letture tra psicanalisi - dal versante di Reich, meno scontato di quello freudiano -, poesia e una greve drammaturgia firmate da Hikmet-Ran, Ibsen e Strindberg, Grande assume le persuasive facilitazioni esornative di certo linguaggio, quasi un po’ fauve nella ridondanza cromatica, a metà via tra l’affabulazione coinvolgente della pubblicità, dell’illustrazione - lui, non a caso, appassionato collezionista di fumetti - e le immagini televisive. Al medesimo tempo, presta attenzione alla contestazione giovanile e all’avvilimento bestiale, scimmiesco, di una società coinvolta, a dispetto del progresso, in assurde e interminabili guerre come quella asiatica, ben sintetizzata dal dipinto Vietnam del 1964 con cui si apre questa rassegna.
Al medesimo impegno deve essere ricondotta la scelta di dipingere gli Indiani del Nordamerica, protagonisti di tante tele a partire dalla metà degli anni Sessanta; un tema frequentato dal cinema americano del dopoguerra, rivisitato in Italia negli anni Sessanta da Sergio Leone, un genere che vedeva contrapposti, senza alcuna esitazione, buoni e cattivi, coraggio e lealtà da una parte e barbarie e crudeltà dall’altra. Un tema altrettanto fortunato nelle strisce dei fumetti della sua infanzia e adolescenza. I suoi indiani sono però lontanissimi dalle immagini stereotipate veicolate da questi media . Il tema dei Pellerossa, attentamente indagato, senza intenti apologetici o celebrativi, assume una valenza diversa, e costituisce l’oggetto di due personali interamente dedicate agli “Indiani d’America” a Lavagna, nel 1984, e nel 1992 a Genova, quasi contraltare alle celebrazioni ufficiali del quinto centenario della “scoperta” dell’America, evento che aveva segnato l’avvio del genocidio delle tribù pellerossa . E non a caso, ancora, chiamato a partecipare alla mostra - Crêuze de mâ, crêuze d’amô, Dedicato ad un amico. Omaggio a Fabrizio De André- per ricordare il cantautore genovese nel 2000, tra i tanti e variegati temi della poetica di De André, Grande scelse di presentare la tela Indiano del Sand Creek. Ritratto severo e dignitoso di uno sconfitto, imperturbabile e altero nel suo silenzio, ispirato alla celebre ballata incisa dal cantautore in un album del 1981, che aveva in copertina proprio l’immagine di un nativo americano a cavallo, opera dell’artista statunitense Frederic Remington. Capi, guerrieri, sciamani, appartenenti a diverse tribù - Apache, Oglala Sioux, Modoc-, figure singole, raramente in gruppo, popolano una quantità di sue tele. Proprio come nel trittico del 1991, La danza del sole, ora alla GAM, o come nella Danza sotto il cielo del 1993-94, della Ligustica: qui, il mito di Icaro sembra fondersi con le danze rituali dei nativi americani. Non si tratta, tuttavia, di un omaggio “risarcitorio”: Hollywood lo avrebbe fatto con pellicole passate alla storia del cinema quali Piccolo grande uomo e Soldato bludel 1970, o il più tardo Balla coi lupidel 1990. Gli indiani di Luigi Grande scampati al genocidio sono l’immagine dei “sopravvissuti” del mondo, eroi loro malgrado.
Il suo segno d’artista non fa sconti: è potente, netto, drammaticamente materico e inquieto nei contorni. Sperimenta Bacon, e giunge persino a occhieggiare al simbolismo fin-de-siècle .Tutto ciò, mentre saggia la fragranza innovativa della pop art, nelle esperienze di artisti come i “maledetti” Mario Schifano, Mimmo Angeli e Tano Festa, ma pure di Mimmo Rotella, Cesare Tacchi e Giosetta Fioroni, per certo visti a Roma e alla Biennale veneziana, a partire, non a caso, proprio dal 1964, filtri e interpreti consapevoli di quanto si ragionava negli Stati Uniti.
Come loro, e come Andy Warhol con le sue Car crashes, come la cultura cinematografica dei film d’azione che lo sollecitano ancora nel 2007, a restituire brani di drammatica realtà da stuntmen nelle tele infuocate d’incendi, Grande propende per un fraseggiare pittorico di varia tecnica. Linguaggio frammentato, quasi frutto di un collage di pensieri di quotidianità, che giungerà a includere, ancora tra il 2008 e il 2013, non solo agitati paesaggi, sagome di cani terrorizzati in fuga e superbe tigri confinate dietro le sbarre, ma pure il carisma ruvido di Patti Smith, senza soluzione di continuità rispetto ai suoi esordi di pittore, e quindi alle letture di Borroughs e all’attenzione per la Beat Generation.
Sul fronte del disegno denuncia l’influenza, introiettata da Grande come una molecola midollare, di quel versante della cultura artistica austro-tedesca più nevrotica, inquieta e macabramente ironica che da Schiele e Klimt si riconnette a Dix e a Grosz. Da loro trae una sorta di espressionismo cosmico che condensa, in cupe e metafisiche visioni di un universo buio e insondabile, corpi maschili spettrali e nudi femminili corrosi dalla loro stessa natura.
Il catalogo, edito da Sagep, è curato da Maria Flora Giubilei e da Giulio Sommariva. I saggi sono firmati dai due curatori e da Maria Teresa Orengo, alla quale spetta il compito di rievocare l'intensa amicizia dell'artista con il padre, il noto poeta e drammaturgo Vico Faggi. Franco Lecca e Ferdinando Galardi restituiscono dell'artista alcuni intensi ritratti pubblicati , sia sulla copertina , sia all'interno del catalogo.
Donazioni importanti che colmano una significativa lacuna della Galleria d'Arte Moderna – cui non difetta una tenuta di documentazione solo fino agli anni Quaranta compresi – e del Museo dell’Accademia presso il quale, nonostante i legami con gli artisti viventi di territorio, spesso pure impegnati come docenti presso la scuola, l’arte contemporanea, salvo rarissime eccezioni, è del tutto assente.
L'artista, che rivela occhi e sensibilità internazionali, vanta più di mezzo secolo di attività con mostre in tutta Italia, e rapporti con letterati, drammaturghi e poeti del suo tempo. Scosso nel profondo dalla tragica eredità culturale di regimi e di conflitti, è convinto, con lo stesso entusiasmo civico che dal suo atelier di Sestri Levante lo ha condotto ai portoni dei due musei genovesi, che il suo impegno d’intellettuale deve avere precise responsabilità di denuncia e di impegno sociale e civile.
Portato a guardarsi costantemente dentro, a lasciarsi coinvolgere dalle inquietudini dell’esistenzialismo, a scrutare il suo tempo attraverso impegnative letture tra psicanalisi - dal versante di Reich, meno scontato di quello freudiano -, poesia e una greve drammaturgia firmate da Hikmet-Ran, Ibsen e Strindberg, Grande assume le persuasive facilitazioni esornative di certo linguaggio, quasi un po’ fauve nella ridondanza cromatica, a metà via tra l’affabulazione coinvolgente della pubblicità, dell’illustrazione - lui, non a caso, appassionato collezionista di fumetti - e le immagini televisive. Al medesimo tempo, presta attenzione alla contestazione giovanile e all’avvilimento bestiale, scimmiesco, di una società coinvolta, a dispetto del progresso, in assurde e interminabili guerre come quella asiatica, ben sintetizzata dal dipinto Vietnam del 1964 con cui si apre questa rassegna.
Al medesimo impegno deve essere ricondotta la scelta di dipingere gli Indiani del Nordamerica, protagonisti di tante tele a partire dalla metà degli anni Sessanta; un tema frequentato dal cinema americano del dopoguerra, rivisitato in Italia negli anni Sessanta da Sergio Leone, un genere che vedeva contrapposti, senza alcuna esitazione, buoni e cattivi, coraggio e lealtà da una parte e barbarie e crudeltà dall’altra. Un tema altrettanto fortunato nelle strisce dei fumetti della sua infanzia e adolescenza. I suoi indiani sono però lontanissimi dalle immagini stereotipate veicolate da questi media . Il tema dei Pellerossa, attentamente indagato, senza intenti apologetici o celebrativi, assume una valenza diversa, e costituisce l’oggetto di due personali interamente dedicate agli “Indiani d’America” a Lavagna, nel 1984, e nel 1992 a Genova, quasi contraltare alle celebrazioni ufficiali del quinto centenario della “scoperta” dell’America, evento che aveva segnato l’avvio del genocidio delle tribù pellerossa . E non a caso, ancora, chiamato a partecipare alla mostra - Crêuze de mâ, crêuze d’amô, Dedicato ad un amico. Omaggio a Fabrizio De André- per ricordare il cantautore genovese nel 2000, tra i tanti e variegati temi della poetica di De André, Grande scelse di presentare la tela Indiano del Sand Creek. Ritratto severo e dignitoso di uno sconfitto, imperturbabile e altero nel suo silenzio, ispirato alla celebre ballata incisa dal cantautore in un album del 1981, che aveva in copertina proprio l’immagine di un nativo americano a cavallo, opera dell’artista statunitense Frederic Remington. Capi, guerrieri, sciamani, appartenenti a diverse tribù - Apache, Oglala Sioux, Modoc-, figure singole, raramente in gruppo, popolano una quantità di sue tele. Proprio come nel trittico del 1991, La danza del sole, ora alla GAM, o come nella Danza sotto il cielo del 1993-94, della Ligustica: qui, il mito di Icaro sembra fondersi con le danze rituali dei nativi americani. Non si tratta, tuttavia, di un omaggio “risarcitorio”: Hollywood lo avrebbe fatto con pellicole passate alla storia del cinema quali Piccolo grande uomo e Soldato bludel 1970, o il più tardo Balla coi lupidel 1990. Gli indiani di Luigi Grande scampati al genocidio sono l’immagine dei “sopravvissuti” del mondo, eroi loro malgrado.
Il suo segno d’artista non fa sconti: è potente, netto, drammaticamente materico e inquieto nei contorni. Sperimenta Bacon, e giunge persino a occhieggiare al simbolismo fin-de-siècle .Tutto ciò, mentre saggia la fragranza innovativa della pop art, nelle esperienze di artisti come i “maledetti” Mario Schifano, Mimmo Angeli e Tano Festa, ma pure di Mimmo Rotella, Cesare Tacchi e Giosetta Fioroni, per certo visti a Roma e alla Biennale veneziana, a partire, non a caso, proprio dal 1964, filtri e interpreti consapevoli di quanto si ragionava negli Stati Uniti.
Come loro, e come Andy Warhol con le sue Car crashes, come la cultura cinematografica dei film d’azione che lo sollecitano ancora nel 2007, a restituire brani di drammatica realtà da stuntmen nelle tele infuocate d’incendi, Grande propende per un fraseggiare pittorico di varia tecnica. Linguaggio frammentato, quasi frutto di un collage di pensieri di quotidianità, che giungerà a includere, ancora tra il 2008 e il 2013, non solo agitati paesaggi, sagome di cani terrorizzati in fuga e superbe tigri confinate dietro le sbarre, ma pure il carisma ruvido di Patti Smith, senza soluzione di continuità rispetto ai suoi esordi di pittore, e quindi alle letture di Borroughs e all’attenzione per la Beat Generation.
Sul fronte del disegno denuncia l’influenza, introiettata da Grande come una molecola midollare, di quel versante della cultura artistica austro-tedesca più nevrotica, inquieta e macabramente ironica che da Schiele e Klimt si riconnette a Dix e a Grosz. Da loro trae una sorta di espressionismo cosmico che condensa, in cupe e metafisiche visioni di un universo buio e insondabile, corpi maschili spettrali e nudi femminili corrosi dalla loro stessa natura.
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