Gabriele Basilico. Glasgow. Processo di trasformazione della città. 1969
Dal 04 Agosto 2013 al 19 Agosto 2013
Sarnano | Macerata
Luogo: Spazio Lavì!
Indirizzo: via Roma 8
Orari: tutti i giorni 17.30-19.30 o su appuntamento
Curatori: Giovanna Calvenzi
Enti promotori:
- Provincia di Macerata
- Accademia di Belle Arti di Macerata
- Comunità Montana dei Monti Azzurri
- Comune di Sarnano
Telefono per informazioni: +39 389 2862551
E-Mail info: servizixarte@gmail.com
Sito ufficiale: http://spaziolavi.wordpress.com
Da Milano, ritratti di fabbriche in poi il lavoro di Gabriele Basilico è un patrimonio collettivo che incontriamo quotidianamente.
Rappresenta senza dubbio uno dei fondamenti della nostra cultura visiva e attraversa senza fatica i mondi della fotografia documentaria e di quella “artistica”, dell’architettura, dell’urbanistica, del paesaggio, dell’arte in generale. Quando poi ci si ritrova in consessi maggiormente “addetti ai lavori”, si ricorre volentieri agli indimenticabili dittici con le impronte di sedie (Contact, 1978), che servono a smentire allo stesso tempo il disinteresse di Basilico per la figura umana e per la piccola scala del design. Oppure, più spesso nel mio caso, si recuperano le spettacolari immagini di quella specie di Quinto Stato che è il Parco Lambro (1976), che è un progetto in grado di aiutarci a trovare molte tessere chiave del mosaico basilichiano: la natura politica del suo lavoro, il legame con Milano e la sua cultura artistica, l’attrazione per la plastica dei corpi – qui addirittura in massa – quando diventano essi stessi dispositivi sui quali si riflettono l’immagine e la storia di una città. Questa serie Glasgow. Processo di trasformazione della città invece non si vede mai. Nell’aprire i file ho provato sorpresa e un po’ di vergogna per il fatto di non conoscere (o almeno non ricordare) queste fotografie, di molto precedenti, scattate da un autore appena venticinquenne, immagino ancora molto coinvolto nei suoi studi di architettura. Nelle foto ci sono davvero un sacco di cose: il senso tragico e “di rovina” che ancora permeava le città che avevano subito bombardamenti pesanti durante la seconda guerra mondiale; la disinvoltura mod con la quale gli abitanti più giovani si muovevano con indifferenza tra quelle rovine, calamitati verso un futuro che speravano diverso; la forza delle infrastrutture, discrete nella vecchia versione “rotaia del tram”, per la quale Basilico abbassa il punto di vista quasi a terra, e ben più invasive e arroganti, oscuranti, nel caso dei nuovi viadotti.
Come sarà poi nelle foto del Parco Lambro e in qualche altra occasione, l’autore sembra attribuire un valore particolare alla presenza dei bambini, come fossero attori più naturali e veloci di altri della scena urbana, interpreti perfetti di quella incerta trasformazione cominciata col dopoguerra e ancora in atto che Gabriele si è dedicato a raccontare per tutta la vita. I piccoli abitanti di Glasgow trasformano con indifferenza in spazio da gioco le rovine di un quartiere, la serranda di un negozio atavicamente chiuso, un marciapiede o un viadotto. Sanno by heart che ogni angolo di spazio urbano ha un uso alternativo che loro individuano rapidamente, e sfruttano fino in fondo a fini “sociali”. Già sulla soglia tra architettura e fotografia, Basilico individua il carattere di una città colta “alla sprovvista”, nell’atto di passare dalla prima alla seconda metà del secolo – e quindi da una cultura urbana a un’altra - e la racconta sovrapponendo alla resa sapiente degli spazi e degli edifici la presenza delle persone, che si muovono veloci in uno spazio lento, che abitano già la Glasgow successiva. Siamo in Inghilterra alla fine degli anni ’60, non c’è resistenza al futuro, non c’è nostalgia, e le crepe nella fiducia nella modernità sono ancora visibili a pochi. Tutt’altra cosa rispetto a quello che accade in un lavoro praticamente coevo e legato da mille fili all’opera di Basilico, quello di Paolo Monti su Bologna. Che viene svuotata, allestita, messa in scena, proprio per spettacolarizzare una sfiducia già consolidata nei confronti della cultura spaziale moderna, giudicata inadeguata e incapace di dialogare con il patrimonio storico. Rispetto al quale non si può che adottare un atteggiamento di protezione (“salvaguardia”). Basilico raccoglie l’eredità di Monti e la capovolge completamente, ibridandola con quella dei Becher, dei fotografi americani e francesi, della tradizione pittorica italiana, e trasformandola infine in una macchina per monumentalizzare tutto ciò che monumento non è: le fabbriche milanesi, i paesaggi marginali e incompiuti, i palazzi crivellati di Beirut, le brutte torri di Shangai. Mettendo insieme la sapienza nello scegliere le visioni ravvicinate (i blow up) della trasformazione delle città (in questo caso di Glasgow) e la naturalezza nel ridefinire i criteri estetici dello spazio urbano Basilico ci ha insegnato non solo a comprendere ma a vivere le città del nostro tempo.
Rappresenta senza dubbio uno dei fondamenti della nostra cultura visiva e attraversa senza fatica i mondi della fotografia documentaria e di quella “artistica”, dell’architettura, dell’urbanistica, del paesaggio, dell’arte in generale. Quando poi ci si ritrova in consessi maggiormente “addetti ai lavori”, si ricorre volentieri agli indimenticabili dittici con le impronte di sedie (Contact, 1978), che servono a smentire allo stesso tempo il disinteresse di Basilico per la figura umana e per la piccola scala del design. Oppure, più spesso nel mio caso, si recuperano le spettacolari immagini di quella specie di Quinto Stato che è il Parco Lambro (1976), che è un progetto in grado di aiutarci a trovare molte tessere chiave del mosaico basilichiano: la natura politica del suo lavoro, il legame con Milano e la sua cultura artistica, l’attrazione per la plastica dei corpi – qui addirittura in massa – quando diventano essi stessi dispositivi sui quali si riflettono l’immagine e la storia di una città. Questa serie Glasgow. Processo di trasformazione della città invece non si vede mai. Nell’aprire i file ho provato sorpresa e un po’ di vergogna per il fatto di non conoscere (o almeno non ricordare) queste fotografie, di molto precedenti, scattate da un autore appena venticinquenne, immagino ancora molto coinvolto nei suoi studi di architettura. Nelle foto ci sono davvero un sacco di cose: il senso tragico e “di rovina” che ancora permeava le città che avevano subito bombardamenti pesanti durante la seconda guerra mondiale; la disinvoltura mod con la quale gli abitanti più giovani si muovevano con indifferenza tra quelle rovine, calamitati verso un futuro che speravano diverso; la forza delle infrastrutture, discrete nella vecchia versione “rotaia del tram”, per la quale Basilico abbassa il punto di vista quasi a terra, e ben più invasive e arroganti, oscuranti, nel caso dei nuovi viadotti.
Come sarà poi nelle foto del Parco Lambro e in qualche altra occasione, l’autore sembra attribuire un valore particolare alla presenza dei bambini, come fossero attori più naturali e veloci di altri della scena urbana, interpreti perfetti di quella incerta trasformazione cominciata col dopoguerra e ancora in atto che Gabriele si è dedicato a raccontare per tutta la vita. I piccoli abitanti di Glasgow trasformano con indifferenza in spazio da gioco le rovine di un quartiere, la serranda di un negozio atavicamente chiuso, un marciapiede o un viadotto. Sanno by heart che ogni angolo di spazio urbano ha un uso alternativo che loro individuano rapidamente, e sfruttano fino in fondo a fini “sociali”. Già sulla soglia tra architettura e fotografia, Basilico individua il carattere di una città colta “alla sprovvista”, nell’atto di passare dalla prima alla seconda metà del secolo – e quindi da una cultura urbana a un’altra - e la racconta sovrapponendo alla resa sapiente degli spazi e degli edifici la presenza delle persone, che si muovono veloci in uno spazio lento, che abitano già la Glasgow successiva. Siamo in Inghilterra alla fine degli anni ’60, non c’è resistenza al futuro, non c’è nostalgia, e le crepe nella fiducia nella modernità sono ancora visibili a pochi. Tutt’altra cosa rispetto a quello che accade in un lavoro praticamente coevo e legato da mille fili all’opera di Basilico, quello di Paolo Monti su Bologna. Che viene svuotata, allestita, messa in scena, proprio per spettacolarizzare una sfiducia già consolidata nei confronti della cultura spaziale moderna, giudicata inadeguata e incapace di dialogare con il patrimonio storico. Rispetto al quale non si può che adottare un atteggiamento di protezione (“salvaguardia”). Basilico raccoglie l’eredità di Monti e la capovolge completamente, ibridandola con quella dei Becher, dei fotografi americani e francesi, della tradizione pittorica italiana, e trasformandola infine in una macchina per monumentalizzare tutto ciò che monumento non è: le fabbriche milanesi, i paesaggi marginali e incompiuti, i palazzi crivellati di Beirut, le brutte torri di Shangai. Mettendo insieme la sapienza nello scegliere le visioni ravvicinate (i blow up) della trasformazione delle città (in questo caso di Glasgow) e la naturalezza nel ridefinire i criteri estetici dello spazio urbano Basilico ci ha insegnato non solo a comprendere ma a vivere le città del nostro tempo.
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