Alfonso Talotta. Forma Unica
Dal 15 Gennaio 2021 al 04 Febbraio 2021
Mantova
Luogo: Galleria d’Arte Arianna Sartori
Indirizzo: Via Cappello 17
Orari: dal Lunedì al Sabato 10.00-12.30 / 15.30-19.30. Chiuso Festivi
Curatori: Gianni Garrera
Telefono per informazioni: +39 0376 324260
La Galleria d’Arte “Arianna Sartori”, di Mantova, presenta, dal 15 gennaio al 4 febbraio 2021, la mostra, “Forma Unica”, opere di Alfonso Talotta, a cura di Gianni Garrera.
L’apertura si terrà Venerdì 15 gennaio alle ore 16.30.
Saranno esposti una dozzina di lavori dell’ultimo ciclo pittorico dell’artista, denominato, “Forma unica”, del 2019, e quattro ceramiche. L’artista viterbese torna ad esporre nella città lombarda dopo 12 anni, infatti, nel 2008, partecipò alla mostra storica sull’astrattismo italiano, “Pittura Aniconica, arte e critica in Italia, 1968/2007”, a cura di Claudio Cerritelli, alla “Casa del Mantegna”.
Inoltre Talotta è presente, sempre su questo territorio, con un’opera in ceramica al Museo di Scultura Ceramica “Terra Crea Sartori” di Castel d’Ario (MN) all’interno di Casa Museo Sartori.
I quadri di Alfonso Talotta, anche in questo caso, mantengono la costante dell’essenzialità formale, rigorosa nell’individuare strutture facenti parte, appunto, di un’unica grande “Forma”, che viene analizzata, studiata, sezionata, nelle molteplici potenzialità spaziali, ma anche cromatiche, per offrire, ogni volta, nuove soluzioni e nuove possibilità.
L’assoluto di Arlecchino
Nella pittura, ormai, essere un’immagine non significa necessariamente essere a immagine di qualcosa, ma anche godere di indipendenza iconica, senza rinviare o rimandare ad altro da sé. Così si annulla il tipo di soggezione che l’immagine mantiene in relazione a un modello o a una realtà anche solo intelligibile (ad esempio in obbedienza della geometria ortodossa), l’immagine chiusa in sé, può essere assoluta, non in rapporto ad altro, anzi, se l’immagine congegnata apparisse sempre a tal punto prossima ad un modello da essere confusa con esso perderebbe la sua specialità per la banale identità: la riconoscibilità impoverisce l’immaginazione. Una figura limite si ottiene dall’identificazione di una figura solo con se stessa, per certi versi non essere ad immagine e somiglianza di altro significa essere indipendente dal mondo riconosciuto e condiviso, perciò essere un mistero formale. In Talotta è più di un tracciato visivo, l’attenzione si concentra su una figura, più su una zona configurata, che nel caso dei dittici si può raddoppiare o ripetere, come pura tautologia visiva, ma l’unità linguistica di ogni immagine dedotta è sempre l’elemento primario per ogni divagazione combinatoria, che sviluppa le regole della figura nei vari poli della superficie. Attenzione, sono figure non figurative, né ordinarie dal punto di vista della propria coerenza geometrica. In cicli precedenti proprio il campo configurato poteva coincidere preferibilmente con la concretezza fisica della tela (il neutro rimaneva una qualità materiale, la soppressione del colore una soluzione). Nell’odierna forma unica, senza smentire la dialettica interna ad ogni quadro e le reciproche connessioni, Talotta elabora colori intrinseci alla figura, a volte splendenti, spesso in strette combinazioni, che in realtà sono mescolanze: color rame traslucido combinato con porpora lattiginosa, oro spazzolato unito a un rosso o a un verde galvanizzato. Si superano le collisioni di tinte sempre a vantaggio di un monocromo, per quanto disparato. Come una pezza sublime di un Arlecchino astratto, cioè come una toppa assoluta dai colori vivaci, alla maniera delle toppe che decorano l’abito di Arlecchino, secondo una lunga genealogia della pittura moderna da Picasso a Severini, tali sono le losanghe della ricerca cromatica e formale di Talotta. C’è un assoluto anche in Arlecchino e nell’astrazione del suo vestito. Dal costume di Arlecchino, con pezze di forme e colori diversi, ma di preferenza rombi o losanghe e a colori alterni, Talotta ha da tempo individuato e assolutizzato la forma romboidale in cui ora ha sviluppato una digressione asimmetrica, non più di un modesto slittamento nel piano della figura, una dissociazione, analoga a un minimo spaiarsi dell’intermedio della losanga, come uno scherzo, un lazzo geometrico vagamente biforcuto e sbilanciato, perciò compromettente, in una silhouette che dovrebbe essere integralmente chiara e distinta, perché la deviazione o anomalia formale è il principio geniale, la pietra d’inciampo di ogni costruzione in spirito geometrico rigoroso. Sono figure nate, piuttosto, da proibizioni pitagoriche, che non provengono dall’esterno, né hanno alcuna relazione mimetica rispetto al mondo stabilito. Alla forma unica pseudo-variopinta così è conferita una specie di comicità nuova, come fosse possibile per l’astrazione riconoscere una commedia dell’arte della pittura, al di là dell’univoca interpretazione seriosa di ciò che è astratto. Perciò Talotta ha abolito tutte le tinte mimetiche e terrene, connaturali alla natura, ha sostanziato la perizia classicista di un’unità chiusa in se stessa, una figura perfettamente formata, rigorosamente delimitata, con minime escrescenze, che costituiscono più le diramazioni di una sutura che di una cesura, perché il corpo non esce mai dai suoi limiti e non forma mai un altro corpo, ma resta individuale e rigorosamente modellato, chiuso e impenetrabile come un involucro. Ciò accade anche quando, sottostante, si riconosce la congiunzione dei poli di un ex-dittico, che ha ridotto a zero il grado distinguibile di specularità, divenendo, appunto, una forma unica. L’unione del disegno e del colore garantisce che Talotta inventi la sua forma per il colore affinché la forma sia dominata dal proprio colore, eppure non si verifica il predominio del colore a scapito del disegno, perché il disegno, come insegnavano sue precedenti opere, sopporta anche la mancanza del colore (dell’attrattiva del colore) ed è l’unica realtà permanente che garantisce l’impossibilità dell’inondazione del colore, che è alla base della qualità di questa coscienza cromatica. L’artefatto paradigmatico dei dittici si risolve così nella sintesi plastica delle forme uniche, per di più dai colori allusivamente plastificati. La forma immaginata e intelligibile, la quale è immutabile, è il livello omonimo alle figure di partenza di cui adesso restituiscono una sola immagine. Certamente è una forma unica ma sempre nella dialettica tra interno ed esterno, tra tuorlo e albume, anche quando accade il rovesciamento delle gerarchie e delle precedenti convezioni del dipinto. D’altronde in Talotta un dipinto è sempre un’associazione di parti o elementi correlati e disposti. Si tratta di un congiunto differenziato ma dotato di unità che dipende, pur nella forma congegnata, dalla varietà (mai arbitraria) di contorno che l’immagine assume. È un fenomeno legato alla creazione di immagini analoghe che sono sempre intelligibili, attraverso i giochi minimi di prospettiva e di somiglianze, nonostante il diverso punto di osservazione adottato. Nella mostra si passa dalla presenza di forme uniche alla comunione tra le forme e alla loro reciproca partecipazione, esattamente al dilemma della loro partecipazione, perché la forma unica è congegnata come un dilemma e non in maniera monolitica, in quanto ha al suo interno l’alternativa di se stessa che potrebbe anche compromettere l’unità della forma (più sfingea che poliedrica). In realtà scissura e unità coesistono nella forma unica, in modo tale che l’alternativa non si può dare come conflitto ma con il ritmo fra i corni dell’alternativa e dell’ambiguità dell’intermedio. Quest’unità ricopre il rischio di molteplicità di un tale ente formale, perché una forma può moltiplicarsi in una molteplicità di parti distinte. Nei dittici Talotta manteneva l’unità della forma della figura che si limitava a raddoppiare o sdoppiare, anche facendola esistere in modo separato, benché nella contraddizione di asimmetrie ben temperate, in modo da mantenere sempre inalterato il paradigma germinale. I dittici, infatti, ripetono il gioco della linea spartita, in cui si immagina una linea divisa in due parti ciascuna delle quali rappresenta rispettivamente il genere visibile e il genere invisibile, ossia l’intelligibile e l’inintelligibile, l’ombra e l’idea. Una delle due parti rientra nel genere visibile da cui sarà costituita l’immagine dell’invisibile, infatti il pittore riproduce solo una delle molteplici prospettive dell’ente, ossia una parte di esso osservata da uno specifico punto di vista, perciò quella parte di ciascun ente che è colto come un simulacro ossia come un paradigma che è colto da un particolare punto di vista dell’arte quando essa non vuole esercitare né gestire una mimesi, ma comunque una coerente astrazione. Nelle forme uniche il visibile e l’invisibile sono appaiati e congiunti, alla maniera della figura e della sua ombra che mai si discosta dalla figura, come insegna la lezione sull’ombra di John Donne, quando dalle due ombre opposte a noi rifacciamo l’ombra necessaria proiettata da ogni ente figurato.
Gianni Garrera
Alfonso Talotta inizia l’attività espositiva nel 1978 e, da allora, numerosissime sono le mostre, collettive e personali, che l’artista ha fatto su tutto il territorio nazionale.
Nel 1988, Filiberto Menna, uno dei maggiori teorici e critici d’ arte italiani, segnala Talotta sul Catalogo Nazionale dell’Arte Moderna, Mondadori, come artista italiano di quell’ anno. Sempre un altro importante storico e critico d’arte, Enrico Crispolti, inserisce l’artista viterbese nella prestigiosa opera enciclopedica, “La pittura in Italia”, nel volume, “Il Novecento/3, le ultime ricerche”, edita da Electa nel 1994.
Nel 2008, il critico d’arte Claudio Cerritelli, invita Alfonso Talotta alla mostra storica sulla pittura astratta in Italia, “Pittura Aniconica, arte e critica in Italia, 1968/2007”, presso il Museo di Mantova, “Casa del Mantegna”.
La prima antologica, con 60 opere, dal 1979 al 2011, è curata da Marco Tonelli, al Palazzo degli Alessandri di Viterbo, nel 2012. Oltre che nelle collezioni private, le opere dell’artista si trovano anche nei seguenti Musei: Museo delle Arti di Nocciano (PE), Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, Museo della Ceramica di Ascoli Piceno, Museo dell’Arte di Gallarate (VA), Museo di Scultura Ceramica “Terra Crea Sartori” di Castel d’Ario (MN) all’interno di Casa Museo Sartori e Museo d’Arte Contemporanea di Anagni. L’artista, è presente, con una scultura in ceramica, al Museo, Duca di Martina, di Napoli, alla Biennale, “Keramikos”, curata da Lorenzo Fiorucci, mentre, è in preparazione una mostra sull’ Arte Italiana degli anni ’60 e ’70, dalla collezione Gianni e Giuseppe Garrera, in collaborazione con l’Accademia d’Ungheria, da tenersi al Museo Nazionale di Budapest, dove Talotta parteciperà con un “Tracciato Urbano” del 1979.
Alfonso Talotta, dal 2017 al 2019, è stato titolare della cattedra di “Pittura” all’Accademia di Belle Arti, “Lorenzo da Viterbo”
L’apertura si terrà Venerdì 15 gennaio alle ore 16.30.
Saranno esposti una dozzina di lavori dell’ultimo ciclo pittorico dell’artista, denominato, “Forma unica”, del 2019, e quattro ceramiche. L’artista viterbese torna ad esporre nella città lombarda dopo 12 anni, infatti, nel 2008, partecipò alla mostra storica sull’astrattismo italiano, “Pittura Aniconica, arte e critica in Italia, 1968/2007”, a cura di Claudio Cerritelli, alla “Casa del Mantegna”.
Inoltre Talotta è presente, sempre su questo territorio, con un’opera in ceramica al Museo di Scultura Ceramica “Terra Crea Sartori” di Castel d’Ario (MN) all’interno di Casa Museo Sartori.
I quadri di Alfonso Talotta, anche in questo caso, mantengono la costante dell’essenzialità formale, rigorosa nell’individuare strutture facenti parte, appunto, di un’unica grande “Forma”, che viene analizzata, studiata, sezionata, nelle molteplici potenzialità spaziali, ma anche cromatiche, per offrire, ogni volta, nuove soluzioni e nuove possibilità.
L’assoluto di Arlecchino
Nella pittura, ormai, essere un’immagine non significa necessariamente essere a immagine di qualcosa, ma anche godere di indipendenza iconica, senza rinviare o rimandare ad altro da sé. Così si annulla il tipo di soggezione che l’immagine mantiene in relazione a un modello o a una realtà anche solo intelligibile (ad esempio in obbedienza della geometria ortodossa), l’immagine chiusa in sé, può essere assoluta, non in rapporto ad altro, anzi, se l’immagine congegnata apparisse sempre a tal punto prossima ad un modello da essere confusa con esso perderebbe la sua specialità per la banale identità: la riconoscibilità impoverisce l’immaginazione. Una figura limite si ottiene dall’identificazione di una figura solo con se stessa, per certi versi non essere ad immagine e somiglianza di altro significa essere indipendente dal mondo riconosciuto e condiviso, perciò essere un mistero formale. In Talotta è più di un tracciato visivo, l’attenzione si concentra su una figura, più su una zona configurata, che nel caso dei dittici si può raddoppiare o ripetere, come pura tautologia visiva, ma l’unità linguistica di ogni immagine dedotta è sempre l’elemento primario per ogni divagazione combinatoria, che sviluppa le regole della figura nei vari poli della superficie. Attenzione, sono figure non figurative, né ordinarie dal punto di vista della propria coerenza geometrica. In cicli precedenti proprio il campo configurato poteva coincidere preferibilmente con la concretezza fisica della tela (il neutro rimaneva una qualità materiale, la soppressione del colore una soluzione). Nell’odierna forma unica, senza smentire la dialettica interna ad ogni quadro e le reciproche connessioni, Talotta elabora colori intrinseci alla figura, a volte splendenti, spesso in strette combinazioni, che in realtà sono mescolanze: color rame traslucido combinato con porpora lattiginosa, oro spazzolato unito a un rosso o a un verde galvanizzato. Si superano le collisioni di tinte sempre a vantaggio di un monocromo, per quanto disparato. Come una pezza sublime di un Arlecchino astratto, cioè come una toppa assoluta dai colori vivaci, alla maniera delle toppe che decorano l’abito di Arlecchino, secondo una lunga genealogia della pittura moderna da Picasso a Severini, tali sono le losanghe della ricerca cromatica e formale di Talotta. C’è un assoluto anche in Arlecchino e nell’astrazione del suo vestito. Dal costume di Arlecchino, con pezze di forme e colori diversi, ma di preferenza rombi o losanghe e a colori alterni, Talotta ha da tempo individuato e assolutizzato la forma romboidale in cui ora ha sviluppato una digressione asimmetrica, non più di un modesto slittamento nel piano della figura, una dissociazione, analoga a un minimo spaiarsi dell’intermedio della losanga, come uno scherzo, un lazzo geometrico vagamente biforcuto e sbilanciato, perciò compromettente, in una silhouette che dovrebbe essere integralmente chiara e distinta, perché la deviazione o anomalia formale è il principio geniale, la pietra d’inciampo di ogni costruzione in spirito geometrico rigoroso. Sono figure nate, piuttosto, da proibizioni pitagoriche, che non provengono dall’esterno, né hanno alcuna relazione mimetica rispetto al mondo stabilito. Alla forma unica pseudo-variopinta così è conferita una specie di comicità nuova, come fosse possibile per l’astrazione riconoscere una commedia dell’arte della pittura, al di là dell’univoca interpretazione seriosa di ciò che è astratto. Perciò Talotta ha abolito tutte le tinte mimetiche e terrene, connaturali alla natura, ha sostanziato la perizia classicista di un’unità chiusa in se stessa, una figura perfettamente formata, rigorosamente delimitata, con minime escrescenze, che costituiscono più le diramazioni di una sutura che di una cesura, perché il corpo non esce mai dai suoi limiti e non forma mai un altro corpo, ma resta individuale e rigorosamente modellato, chiuso e impenetrabile come un involucro. Ciò accade anche quando, sottostante, si riconosce la congiunzione dei poli di un ex-dittico, che ha ridotto a zero il grado distinguibile di specularità, divenendo, appunto, una forma unica. L’unione del disegno e del colore garantisce che Talotta inventi la sua forma per il colore affinché la forma sia dominata dal proprio colore, eppure non si verifica il predominio del colore a scapito del disegno, perché il disegno, come insegnavano sue precedenti opere, sopporta anche la mancanza del colore (dell’attrattiva del colore) ed è l’unica realtà permanente che garantisce l’impossibilità dell’inondazione del colore, che è alla base della qualità di questa coscienza cromatica. L’artefatto paradigmatico dei dittici si risolve così nella sintesi plastica delle forme uniche, per di più dai colori allusivamente plastificati. La forma immaginata e intelligibile, la quale è immutabile, è il livello omonimo alle figure di partenza di cui adesso restituiscono una sola immagine. Certamente è una forma unica ma sempre nella dialettica tra interno ed esterno, tra tuorlo e albume, anche quando accade il rovesciamento delle gerarchie e delle precedenti convezioni del dipinto. D’altronde in Talotta un dipinto è sempre un’associazione di parti o elementi correlati e disposti. Si tratta di un congiunto differenziato ma dotato di unità che dipende, pur nella forma congegnata, dalla varietà (mai arbitraria) di contorno che l’immagine assume. È un fenomeno legato alla creazione di immagini analoghe che sono sempre intelligibili, attraverso i giochi minimi di prospettiva e di somiglianze, nonostante il diverso punto di osservazione adottato. Nella mostra si passa dalla presenza di forme uniche alla comunione tra le forme e alla loro reciproca partecipazione, esattamente al dilemma della loro partecipazione, perché la forma unica è congegnata come un dilemma e non in maniera monolitica, in quanto ha al suo interno l’alternativa di se stessa che potrebbe anche compromettere l’unità della forma (più sfingea che poliedrica). In realtà scissura e unità coesistono nella forma unica, in modo tale che l’alternativa non si può dare come conflitto ma con il ritmo fra i corni dell’alternativa e dell’ambiguità dell’intermedio. Quest’unità ricopre il rischio di molteplicità di un tale ente formale, perché una forma può moltiplicarsi in una molteplicità di parti distinte. Nei dittici Talotta manteneva l’unità della forma della figura che si limitava a raddoppiare o sdoppiare, anche facendola esistere in modo separato, benché nella contraddizione di asimmetrie ben temperate, in modo da mantenere sempre inalterato il paradigma germinale. I dittici, infatti, ripetono il gioco della linea spartita, in cui si immagina una linea divisa in due parti ciascuna delle quali rappresenta rispettivamente il genere visibile e il genere invisibile, ossia l’intelligibile e l’inintelligibile, l’ombra e l’idea. Una delle due parti rientra nel genere visibile da cui sarà costituita l’immagine dell’invisibile, infatti il pittore riproduce solo una delle molteplici prospettive dell’ente, ossia una parte di esso osservata da uno specifico punto di vista, perciò quella parte di ciascun ente che è colto come un simulacro ossia come un paradigma che è colto da un particolare punto di vista dell’arte quando essa non vuole esercitare né gestire una mimesi, ma comunque una coerente astrazione. Nelle forme uniche il visibile e l’invisibile sono appaiati e congiunti, alla maniera della figura e della sua ombra che mai si discosta dalla figura, come insegna la lezione sull’ombra di John Donne, quando dalle due ombre opposte a noi rifacciamo l’ombra necessaria proiettata da ogni ente figurato.
Gianni Garrera
Alfonso Talotta inizia l’attività espositiva nel 1978 e, da allora, numerosissime sono le mostre, collettive e personali, che l’artista ha fatto su tutto il territorio nazionale.
Nel 1988, Filiberto Menna, uno dei maggiori teorici e critici d’ arte italiani, segnala Talotta sul Catalogo Nazionale dell’Arte Moderna, Mondadori, come artista italiano di quell’ anno. Sempre un altro importante storico e critico d’arte, Enrico Crispolti, inserisce l’artista viterbese nella prestigiosa opera enciclopedica, “La pittura in Italia”, nel volume, “Il Novecento/3, le ultime ricerche”, edita da Electa nel 1994.
Nel 2008, il critico d’arte Claudio Cerritelli, invita Alfonso Talotta alla mostra storica sulla pittura astratta in Italia, “Pittura Aniconica, arte e critica in Italia, 1968/2007”, presso il Museo di Mantova, “Casa del Mantegna”.
La prima antologica, con 60 opere, dal 1979 al 2011, è curata da Marco Tonelli, al Palazzo degli Alessandri di Viterbo, nel 2012. Oltre che nelle collezioni private, le opere dell’artista si trovano anche nei seguenti Musei: Museo delle Arti di Nocciano (PE), Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, Museo della Ceramica di Ascoli Piceno, Museo dell’Arte di Gallarate (VA), Museo di Scultura Ceramica “Terra Crea Sartori” di Castel d’Ario (MN) all’interno di Casa Museo Sartori e Museo d’Arte Contemporanea di Anagni. L’artista, è presente, con una scultura in ceramica, al Museo, Duca di Martina, di Napoli, alla Biennale, “Keramikos”, curata da Lorenzo Fiorucci, mentre, è in preparazione una mostra sull’ Arte Italiana degli anni ’60 e ’70, dalla collezione Gianni e Giuseppe Garrera, in collaborazione con l’Accademia d’Ungheria, da tenersi al Museo Nazionale di Budapest, dove Talotta parteciperà con un “Tracciato Urbano” del 1979.
Alfonso Talotta, dal 2017 al 2019, è stato titolare della cattedra di “Pittura” all’Accademia di Belle Arti, “Lorenzo da Viterbo”
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