L’identità dei corpi e degli spazi di Marilisa Pizzorno
Dal 10 Febbraio 2015 al 07 Marzo 2015
Milano
Luogo: Spazio Tadini
Indirizzo: via Niccolò Jommelli 24
Telefono per informazioni: +39 02 26829749
E-Mail info: ms@spaziotadini.it
Sito ufficiale: http://www.spaziotadini.it
All’interno di un percorso espositivo che esplora l’evoluzione del concetto di identità individuale e sociale nell’era contemporanea l’opera di Pizzorno si colloca in una visione surrealista e di forte impatto visivo.
Nel suo mondo figurale c'è sempre un intreccio incantato tra il dato autobiografico e la realtà fenomenica, tra cronaca personale e storia universale. È un intreccio che si collega alle cose in maniera indiretta, per allusione e non per dichiarazione esplicita, per metafora e non per racconto. Tanto che è proprio qui, nella distanza che passa tra il detto e il sottaciuto di questi corpi angelici d’uomo e di donna, nell’aria lieve di nubi sognanti in cui sono immersi, nella loro consistenza anatomica insieme sensuale e disincarnata, che Marilisa crea un mistero quasi metafisico di poesia e di silenzio, sospeso a un equilibrio incerto, a un tremito di indeterminatezza riempito di accadimenti minimi, di gesti emblematici e fascino lirico. Dove le sue figure giocano con l’ambiente, con gli elementi architettonici di una sorta di spazio vitale surreale, comunque antropizzato, che segna la definitiva precarietà identitaria delle relazioni tra l’uomo contemporaneo e l’ambiente della sua vita. Marilisa Pizzorno è per me una delle artiste d’immagine della sua generazione tra le più suggestive, singolari e autonome oggi presenti in Italia. E non sembri iperbolica o di circostanza una tale definizione. Da Franco Solmi a Mario De Micheli, da Rossana Bossaglia a Emilio Tadini e Roberto Sanesi, da Floriano De Santi a Gabriele Simongini e quant’altri di lei si sono occupati negli anni, tutti ne hanno sottolineato a più riprese e in vario modo il vigoroso, sovrano, atipico talento nell’intreccio tra pienezza formale e intensità lirica, tra pittura piena, soda, luminosamente risolta, e riflessione nutrita di assorte metafore e immaginazioni simboliche, di traslati, addensamenti e slargamenti poetici. Le sue allegorie, i suoi sogni ricorrenti, i garbati enigmi delle loro sostanze rappresentano qualcosa di magicamente composto in una dimensione fuori dal tempo e dalla cronaca, qualcosa che increspa appena un limbo ovattato della coscienza e che tuttavia, per interiori riconoscimenti, per intimi e minuziosi rimbalzi lirici, per seduzioni sottili quanto misteriosamente efficaci, giunge ogni volta ad alludere proprio al Tempo e al Mondo, ad evocare l’eterna ambiguità del rapporto dell’uomo con la sua identità. Come può accadere con i personaggi silenziosi di un Savinio o per altri versi di un Balthus, i corpi e gli spazi di Marilisa, i suoi angeli innamorati e perplessi dinnanzi alla vita, per la loro luce inorganica e interiore, rendono palpabile l’impalpabilità dei sentimenti, svelano i colori velati delle emozioni: narrano la dolcezza di un melanconico, ludico e insieme assorto naufragare tra le onde lente dell’onirico. E anche quando l’immagine si traduce nella concreta tridimensionalità della scultura, nell’ideale “plastico” di questo suo villaggio-tempio-agorà, il calore della terracotta fissa ogni volume in una tattile emblematicità, come appeso al proprio stupore, stralunato tra le quinte d’aria di uno spazio inquieto. È come una sorta di écriture automatique, di surreale “scrittura” di figure? Forse. Ma credo piuttosto a una riflessione solo apparentemente distaccata dal filo della realtà. Un rinvenimento di idee figurali sedimentate ed embricate l’una nell’altra sul fondo dell’animo e della memoria, che la poesia di Marilisa riordina in ogni loro misura, rimettendo al centro dell’immaginazione il tema dell’identità sentimentale, del viluppo di emozioni e passioni e convinzioni, disillusioni e speranze che fanno di un uomo o di una donna una persona.
Giorgio Seveso
Nel suo mondo figurale c'è sempre un intreccio incantato tra il dato autobiografico e la realtà fenomenica, tra cronaca personale e storia universale. È un intreccio che si collega alle cose in maniera indiretta, per allusione e non per dichiarazione esplicita, per metafora e non per racconto. Tanto che è proprio qui, nella distanza che passa tra il detto e il sottaciuto di questi corpi angelici d’uomo e di donna, nell’aria lieve di nubi sognanti in cui sono immersi, nella loro consistenza anatomica insieme sensuale e disincarnata, che Marilisa crea un mistero quasi metafisico di poesia e di silenzio, sospeso a un equilibrio incerto, a un tremito di indeterminatezza riempito di accadimenti minimi, di gesti emblematici e fascino lirico. Dove le sue figure giocano con l’ambiente, con gli elementi architettonici di una sorta di spazio vitale surreale, comunque antropizzato, che segna la definitiva precarietà identitaria delle relazioni tra l’uomo contemporaneo e l’ambiente della sua vita. Marilisa Pizzorno è per me una delle artiste d’immagine della sua generazione tra le più suggestive, singolari e autonome oggi presenti in Italia. E non sembri iperbolica o di circostanza una tale definizione. Da Franco Solmi a Mario De Micheli, da Rossana Bossaglia a Emilio Tadini e Roberto Sanesi, da Floriano De Santi a Gabriele Simongini e quant’altri di lei si sono occupati negli anni, tutti ne hanno sottolineato a più riprese e in vario modo il vigoroso, sovrano, atipico talento nell’intreccio tra pienezza formale e intensità lirica, tra pittura piena, soda, luminosamente risolta, e riflessione nutrita di assorte metafore e immaginazioni simboliche, di traslati, addensamenti e slargamenti poetici. Le sue allegorie, i suoi sogni ricorrenti, i garbati enigmi delle loro sostanze rappresentano qualcosa di magicamente composto in una dimensione fuori dal tempo e dalla cronaca, qualcosa che increspa appena un limbo ovattato della coscienza e che tuttavia, per interiori riconoscimenti, per intimi e minuziosi rimbalzi lirici, per seduzioni sottili quanto misteriosamente efficaci, giunge ogni volta ad alludere proprio al Tempo e al Mondo, ad evocare l’eterna ambiguità del rapporto dell’uomo con la sua identità. Come può accadere con i personaggi silenziosi di un Savinio o per altri versi di un Balthus, i corpi e gli spazi di Marilisa, i suoi angeli innamorati e perplessi dinnanzi alla vita, per la loro luce inorganica e interiore, rendono palpabile l’impalpabilità dei sentimenti, svelano i colori velati delle emozioni: narrano la dolcezza di un melanconico, ludico e insieme assorto naufragare tra le onde lente dell’onirico. E anche quando l’immagine si traduce nella concreta tridimensionalità della scultura, nell’ideale “plastico” di questo suo villaggio-tempio-agorà, il calore della terracotta fissa ogni volume in una tattile emblematicità, come appeso al proprio stupore, stralunato tra le quinte d’aria di uno spazio inquieto. È come una sorta di écriture automatique, di surreale “scrittura” di figure? Forse. Ma credo piuttosto a una riflessione solo apparentemente distaccata dal filo della realtà. Un rinvenimento di idee figurali sedimentate ed embricate l’una nell’altra sul fondo dell’animo e della memoria, che la poesia di Marilisa riordina in ogni loro misura, rimettendo al centro dell’immaginazione il tema dell’identità sentimentale, del viluppo di emozioni e passioni e convinzioni, disillusioni e speranze che fanno di un uomo o di una donna una persona.
Giorgio Seveso
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