Vittorio Pescatori. Stravedere
Dal 13 Dicembre 2012 al 10 Gennaio 2013
Napoli
Luogo: Museo Archeologico Nazionale
Indirizzo: piazza Museo Nazionale 19
Orari: tutti i giorni 9-19.30
Curatori: Marco De Gemmis, Michele Iodice
Costo del biglietto: intero ? 8, ridotto ? 4
Telefono per informazioni: +39 081 4422149
E-Mail info: ssba-na@beniculturali.it
Sito ufficiale: http://cir.campania.beniculturali.it/museoarcheologiconazionale/
Stravedere, come mi è sembrato giusto intitolare la mostra di Vittorio Pescatori (anche perché, così, i visitatori non potranno neppure per un momento equivocare…), è sia “vedere cose che non esistono” che “amare fortemente qualcuno, qualcosa”. Entrambe le “attività” sono dentro questi lavori di Pescatori, ma sono, anche, più generalmente tipiche del suo atteggiamento verso ciò che rappresenta.
Il suo è un accostarsi “innamorato”: quando quel che ha di fronte lo attrae, quando è irresistibilmente rapito dall’ispirazione, corre, come lo ho visto fare, alla piccola digitale e scatta in rapida successione una, due, tre volte. E il suo è, poi, un accostarsi estremamente soggettivo: quel che ha di fronte gli dice cose che gli altri non colgono, perché lui, mentre vede, sta già ben oltre l’evidenza, già nel quadro che la foto diverrà dopo la sua poetica manipolazione: cioè dopo che i colori di invenzione, dati per lo più a pastello, avranno modificato o stravolto la realtà oppure fatto emergere inattese possibilità di lettura; o che un titolo sorprendente avrà qualificato diversamente il soggetto della ripresa; o che la messa in successione di tante immagini giocosamente commentate da brevi didascalie avrà costruito uno di quei suoi eleganti libri di foto-racconti…
Così, allora, viene spesso da chiedergli “Ma come lo hai visto, come hai fatto a pensarci?”; e questa volta, dinanzi al suo “stravedere” preistorici e talvolta impertinenti interventi scultorei su innocenti sassolini capresi, gli osservatori meno inclini a fantasticare gli chiederanno “Ma dove ce lo/la vedi?” e “Qual è Venere fra queste gobbe della pietra?” e “Ma davvero ti sembrano i Faraglioni?”.
Nell’allestimento abbiamo voluto porre in relazione Capri, forse il luogo dell’artista (e narratore) milanese, con i ciottoli che vi ha raccolto e con le foto da lui scattate con il macro alle minuscole rappresentazioni che in essi ha voluto scorgere (“visioni” che il pubblico cercherà di condividere con l’autore anche grazie alle lenti di ingrandimento, che invitano esplicitamente l’osservatore a far parte del gioco): sullo sfondo, quindi, l’isola nello sguardo incantato e arguto di Pescatori, che da anni la percorre e scruta: fermandosi a contemplare gli incomparabili panorami, i turisti al sole, le copie delle statue classiche disseminate nelle ville e ridotte a incompresi ornamenti lussuosi.
Un bel giorno, per la lunga consuetudine, tutto questo dovrà essergli sembrato troppo noto: senza probabilmente saperne molto dell’importante preistoria del luogo, l’idea di una antichissima frequentazione di Capri da parte dell’uomo, propostagli dalla sua mobile curiosità, la avrà raccolta come l’occasione per un’avventura non rischiosa, da vivere restando comodamente seduto in riva al mare.
Marco De Gemmis
OCCHI LESTI E MALIZIOSI
Ma che bel salotto è Capri fotografata da Vittorio Pescatori! Un grande salotto all’aperto, eterogeneo e ibrido, dove sfilano autoctoni e attori della mondanità internazionale; memorie antiche – busti, capitelli, colonne, erme – venerate e derise allo stesso tempo, come richiede lo stile camp, e tracce della più trasandata contemporaneità (e non sai se le prime nobilitano le seconde, o se le seconde corrompono le prime).
E poi la pretenziosità borghese e la nostalgia estetica e i paesaggi, specialmente, sono soggetti a questo doppio trattamento; le emozioni che salgono spontaneamente alle labbra e inumidiscono gli occhi sono ricercate per essere subito respinte, poiché il camp ha orrore delle sabbie mobili del sentimentalismo (a rose is a rose!), ma solo per ragioni estetiche – come già chiedevano Sterne e Flaubert – e non ciniche.
Una particolarità di Vittorio Pescatori è di pervertire o distorcere le immagini più ordinarie e correnti.
Così la matrona invecchiata e immusonita che fulmina, truce, un uomo pingue, nascosto da un quotidiano spalancato davanti a lui, ove campeggia l’immagine di una radiosa fanciulla che reclamizza qualcosa, si intitola Muto rimprovero, e l’istantanea diventa l’allegoria di un invecchiare invidioso. Un giovane corpo maschile, nudo e snello, che esita davanti all’ingresso buio di una grotta peccaminosa, ha per titolo Dubbi al confine, e i dubbi alludono a incerte preferenze sessuali. E un altro giovanotto, addormentato a pancia sotto su uno scoglio, viene sottratto all’ovvietà dal titolo Spiaggia dura, e l’aggettivo rende la fotografia maliziosa.
Un tronco di pino, con escrescenze malate, diventa una Venere vegetale, alludendo i gonfiori del tronco a due seni e a una rigonfia vagina; per non dire, poi, del trittico romano antico degli Zatteroni augustei, dell’Infradito gladiatorie e degli Imperatori in attesa di collocazione, un’eccellente combinazione di venerando e di frusto. Nel camp la volgarità è come un’edera che avvolge il sublime e lo decanta.
Come le mosche, Vittorio Pescatori ha molti occhi e lo conferma il titolo di questa Mostra. Uno dei suoi occhi più lesti e maliziosi è l’occhio antropologico.
Questo sguardo scruta l’eccentricità negli umani, sapendo che non è più un appannaggio dei vecchi dandies o dei grandi eccentrici di tradizione inglese, ma che ormai si è democratizzata e disseminata, ed è reperibile dovunque. Gli occorre, per far questo, un occhio allenato, da collezionista, e goloso di bizzarrie. Qui interviene il suo talento di linguista funambolo. Tra calembours, giochi di parole, equivoci mirati, allusioni, reticenze, ironie e preterizioni, i titoli tutti da leggere, che Vittorio Pescatori dà ai suoi “oggetti” li completano, li pervertono e li caricano di un sovrasenso.
L’altro occhio di Vittorio Pescatori è l’occhio surrealista (da intendere alla lettera). È così che ha reperito un’intera collezione di storie paleolitiche, incise su ciottoli raccolti un po’ dovunque sull’isola.
La litomanzia – divinazione con le pietre – è un’arte antica, ma Vittorio Pescatori non è sollecitato dal demone della profezia, decifrando forme e venature delle pietre, bensì è sollecitato da una “stralettura” di storie immaginarie archiviate su quei ciottoli, che narrano di culti feroci, sacrifici umani, maternità sovrabbondanti, di accoppiamenti plurimi e perversi, di ambigui cannibalismi, e di un’imponente presenza del fallo.
È la vita simbolica di un villaggio caprese preistorico, dunque, rischiosa, temibile, assoggettata a un sacro sanguinario, dedita a un eros polimorfo e insidiata da una natura aggressiva. E non sai più se sia una Capri preistorica o postmoderna.
Come accade spesso, le visioni più esuberanti, quelle che stravedono, rivelano il mondo fantasmatico dell’autore più di quanto non diano conto della “filologia” degli oggetti.
E qui c’è l’arte.
Giuseppe Merlino
Il suo è un accostarsi “innamorato”: quando quel che ha di fronte lo attrae, quando è irresistibilmente rapito dall’ispirazione, corre, come lo ho visto fare, alla piccola digitale e scatta in rapida successione una, due, tre volte. E il suo è, poi, un accostarsi estremamente soggettivo: quel che ha di fronte gli dice cose che gli altri non colgono, perché lui, mentre vede, sta già ben oltre l’evidenza, già nel quadro che la foto diverrà dopo la sua poetica manipolazione: cioè dopo che i colori di invenzione, dati per lo più a pastello, avranno modificato o stravolto la realtà oppure fatto emergere inattese possibilità di lettura; o che un titolo sorprendente avrà qualificato diversamente il soggetto della ripresa; o che la messa in successione di tante immagini giocosamente commentate da brevi didascalie avrà costruito uno di quei suoi eleganti libri di foto-racconti…
Così, allora, viene spesso da chiedergli “Ma come lo hai visto, come hai fatto a pensarci?”; e questa volta, dinanzi al suo “stravedere” preistorici e talvolta impertinenti interventi scultorei su innocenti sassolini capresi, gli osservatori meno inclini a fantasticare gli chiederanno “Ma dove ce lo/la vedi?” e “Qual è Venere fra queste gobbe della pietra?” e “Ma davvero ti sembrano i Faraglioni?”.
Nell’allestimento abbiamo voluto porre in relazione Capri, forse il luogo dell’artista (e narratore) milanese, con i ciottoli che vi ha raccolto e con le foto da lui scattate con il macro alle minuscole rappresentazioni che in essi ha voluto scorgere (“visioni” che il pubblico cercherà di condividere con l’autore anche grazie alle lenti di ingrandimento, che invitano esplicitamente l’osservatore a far parte del gioco): sullo sfondo, quindi, l’isola nello sguardo incantato e arguto di Pescatori, che da anni la percorre e scruta: fermandosi a contemplare gli incomparabili panorami, i turisti al sole, le copie delle statue classiche disseminate nelle ville e ridotte a incompresi ornamenti lussuosi.
Un bel giorno, per la lunga consuetudine, tutto questo dovrà essergli sembrato troppo noto: senza probabilmente saperne molto dell’importante preistoria del luogo, l’idea di una antichissima frequentazione di Capri da parte dell’uomo, propostagli dalla sua mobile curiosità, la avrà raccolta come l’occasione per un’avventura non rischiosa, da vivere restando comodamente seduto in riva al mare.
Marco De Gemmis
OCCHI LESTI E MALIZIOSI
Ma che bel salotto è Capri fotografata da Vittorio Pescatori! Un grande salotto all’aperto, eterogeneo e ibrido, dove sfilano autoctoni e attori della mondanità internazionale; memorie antiche – busti, capitelli, colonne, erme – venerate e derise allo stesso tempo, come richiede lo stile camp, e tracce della più trasandata contemporaneità (e non sai se le prime nobilitano le seconde, o se le seconde corrompono le prime).
E poi la pretenziosità borghese e la nostalgia estetica e i paesaggi, specialmente, sono soggetti a questo doppio trattamento; le emozioni che salgono spontaneamente alle labbra e inumidiscono gli occhi sono ricercate per essere subito respinte, poiché il camp ha orrore delle sabbie mobili del sentimentalismo (a rose is a rose!), ma solo per ragioni estetiche – come già chiedevano Sterne e Flaubert – e non ciniche.
Una particolarità di Vittorio Pescatori è di pervertire o distorcere le immagini più ordinarie e correnti.
Così la matrona invecchiata e immusonita che fulmina, truce, un uomo pingue, nascosto da un quotidiano spalancato davanti a lui, ove campeggia l’immagine di una radiosa fanciulla che reclamizza qualcosa, si intitola Muto rimprovero, e l’istantanea diventa l’allegoria di un invecchiare invidioso. Un giovane corpo maschile, nudo e snello, che esita davanti all’ingresso buio di una grotta peccaminosa, ha per titolo Dubbi al confine, e i dubbi alludono a incerte preferenze sessuali. E un altro giovanotto, addormentato a pancia sotto su uno scoglio, viene sottratto all’ovvietà dal titolo Spiaggia dura, e l’aggettivo rende la fotografia maliziosa.
Un tronco di pino, con escrescenze malate, diventa una Venere vegetale, alludendo i gonfiori del tronco a due seni e a una rigonfia vagina; per non dire, poi, del trittico romano antico degli Zatteroni augustei, dell’Infradito gladiatorie e degli Imperatori in attesa di collocazione, un’eccellente combinazione di venerando e di frusto. Nel camp la volgarità è come un’edera che avvolge il sublime e lo decanta.
Come le mosche, Vittorio Pescatori ha molti occhi e lo conferma il titolo di questa Mostra. Uno dei suoi occhi più lesti e maliziosi è l’occhio antropologico.
Questo sguardo scruta l’eccentricità negli umani, sapendo che non è più un appannaggio dei vecchi dandies o dei grandi eccentrici di tradizione inglese, ma che ormai si è democratizzata e disseminata, ed è reperibile dovunque. Gli occorre, per far questo, un occhio allenato, da collezionista, e goloso di bizzarrie. Qui interviene il suo talento di linguista funambolo. Tra calembours, giochi di parole, equivoci mirati, allusioni, reticenze, ironie e preterizioni, i titoli tutti da leggere, che Vittorio Pescatori dà ai suoi “oggetti” li completano, li pervertono e li caricano di un sovrasenso.
L’altro occhio di Vittorio Pescatori è l’occhio surrealista (da intendere alla lettera). È così che ha reperito un’intera collezione di storie paleolitiche, incise su ciottoli raccolti un po’ dovunque sull’isola.
La litomanzia – divinazione con le pietre – è un’arte antica, ma Vittorio Pescatori non è sollecitato dal demone della profezia, decifrando forme e venature delle pietre, bensì è sollecitato da una “stralettura” di storie immaginarie archiviate su quei ciottoli, che narrano di culti feroci, sacrifici umani, maternità sovrabbondanti, di accoppiamenti plurimi e perversi, di ambigui cannibalismi, e di un’imponente presenza del fallo.
È la vita simbolica di un villaggio caprese preistorico, dunque, rischiosa, temibile, assoggettata a un sacro sanguinario, dedita a un eros polimorfo e insidiata da una natura aggressiva. E non sai più se sia una Capri preistorica o postmoderna.
Come accade spesso, le visioni più esuberanti, quelle che stravedono, rivelano il mondo fantasmatico dell’autore più di quanto non diano conto della “filologia” degli oggetti.
E qui c’è l’arte.
Giuseppe Merlino
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