OUT OF PLACE. ARTE E STORIE DAI CAMPI RIFUGIATI NEL MONDO

MOHAMED KEITA (Costa d’Avorio, Italia), Il cammino 1, 2023. Fotografia digitale stampata su tela, 10x12 cm.

 

Dal 9 June 2025 al 31 July 2025

Padova

Luogo: Palazzo Moroni I Palazzo del Bo

Indirizzo: Sedi varie

Orari: tutti i giorni dalle ore 10.00 alle ore 23.00

Costo del biglietto: ingresso gratuito

Telefono per informazioni: +39 340 3963398

Sito ufficiale: http://www.fondazioneimagomundi.org


Fondazione Imago Mundi con Università di Padova e Assessorato alla Cultura del Comune di Padova presentano da lunedì 9 giugno in due sedi espositive – Cortile Antico di Palazzo del Bo e Giardino Pensile di Palazzo Moroni a Padova – la mostra Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo.
L’esposizione prende le mosse dalla più recente collezione di Imago Mundi, curata da Claudio Scorretti, Irina Ungureanu e Aman Mojadidi, che ha coinvolto artisti che vivono o hanno vissuto in campi per rifugiati, invitati a realizzare opere nel formato di 10x12 cm, distintivo della Imago Mundi Collection, esposte in mostra.
L’essenza del progetto sta nella pluralità di storie provenienti da cinque continenti; storie che testimoniano come la condizione di rifugiato sia un fatto accidentale e che rivendicano ciascuna la propria unicità. In questo modo, i rifugiati non sono una massa indistinta di persone senza volto, assumono invece i contorni nitidi di singoli individui, ciascuno con la propria vicenda unica e irripetibile, affidata alla tela.  Le aree di provenienza degli artisti vanno dall’Afghanistan al Myanmar e al Vietnam, dalla Palestina al Kurdistan e alla Siria, dal Burundi all’Etiopia e alla Somalia, dalla Costa d’Avorio al Sudan, dall’Europa al Sud America e molte altre zone ancora – tutti luoghi che ci parlano di crisi multiformi, che siano conflitti armati, persecuzioni etniche o religiose, catastrofi naturali, cambiamento climatico, violenza o altro. I Paesi di accoglienza sono allo stesso modo distribuiti ovunque, dall’Uganda al Kenya, dal Nord America alla Germania, dal Bangladesh al Regno Unito, all’Italia.
 
La mostra ha ottenuto il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
 
Cristina Basso, Prorettrice alle Relazioni Internazionali, Università di Padova
       “Soltanto il 3% dei rifugiati a livello globale, secondo le stime dell’UNHCR, ha accesso all’istruzione superiore a fronte di una media pari al 37% a livello globale. Nel novembre 2019 la nostra Università ha aderito al Manifesto dell’Università Inclusiva e, dopo le campagne Unipd4Afghanistan e Unipd4Ukraine, ha deciso di intervenire in maniera ancor più profonda con il programma People at Risk, caratterizzato da servizi mirati all’accoglienza e supporto, non solo per rifugiati e richiedenti asilo, ma anche per altri soggetti considerati a rischio per situazioni che impediscono la libertà di studio e ricerca nei propri Paesi. Inoltre supporta con fellowship di ricerca studiosi/studiose titolari di asilo politico o protezione internazionale, o considerati in situazione di rischio. La fellowship viene finanziata congiuntamente dall’Ateneo e dal Dipartimento/Centro che garantisce l’accoglienza del Visiting Scholar, unitamente alla disponibilità di spazi, biblioteche, strumentazioni e laboratori necessari allo svolgimento delle sue attività. Alle spalle di queste attività esiste l’idea di una università che accoglie, condivide spazi e saperi, come per la mostra che s’inaugura oggi: aperta nei luoghi, che raccoglie storie e le restituisce a tutti”.
 
Andrea Colasio, Assessore alla Cultura Comune di Padova
“Il numero di persone costrette alla fuga nel mondo continua a crescere, raggiungendo la cifra
record di 122,6 milioni a fine giugno 2024, secondo l’UNHCR. Questo significa che, ogni 67 persone nel mondo, una è costretta a fuggire dalla propria casa a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o violazioni dei diritti umani. Questa fotografia dei rifugiati nel mondo è impressionante, ma ha un grandissimo limite. Parla di loro come numeri, 1,2 milioni di siriani, 4,3 milioni di ucraini, 6 milioni di palestinesi e via dicendo. Ma i rifugiati sono persone, uomini donne, bambini con una dignità che va difesa e, se possibile, restituita. L’arte, con il suo linguaggio universale che supera frontiere e culture può contribuire a farlo, e questo è il grandissimo merito di questa mostra ideata e organizzata da Fondazione Imago Mundi che con orgoglio insieme all’Università ospitiamo a Padova.
Una mostra che restituisce la parola simbolicamente a tutti i rifugiati del mondo, e che mostra come l’arte sia più forte di qualsiasi violenza e limite che viene posto agli esseri umani”.
 
Fondazione Imago Mundi
“Con questa mostra, Fondazione Imago Mundi prosegue un percorso espositivo e di ricerca che si interroga sulle possibilità di leggere il mondo attraverso le pratiche artistiche contemporanee. Non si tratta di descrivere la realtà, ma di provare a comprenderla, dando spazio a una pluralità di voci e sguardi, spesso provenienti da contesti di margine o da geografie di confine. La collezione di opere realizzate nei campi rifugiati e parte di Imago Mundi Collection rappresenta in questo senso un atto potente di sconfinamento che interroga le logiche dell’esclusione e al tempo stesso afferma dignità, resistenza e capacità espressiva. Le opere che compongono questa mostra raccontano di frontiere attraversate, ma anche di identità in movimento, e ci invitano a considerare il confine non come una barriera ma come uno spazio vivo, da abitare criticamente. È questa tensione tra centro e margine, tra visibilità e invisibilità, a nutrire il lavoro della Fondazione: un laboratorio aperto in cui l’arte diventa uno strumento per pensare il presente e immaginare altri futuri possibili.”
 
La collezione in mostra
Basata su una ricerca realizzata all’interno di 18 tra i più grandi campi rifugiati esistenti oggi, la collezione in mostra Out of Place. Arte e storie dai campi rifugiati nel mondo presenta le testimonianze – opere e storie – di 264 artisti che risiedono in questi insediamenti o che hanno vissuto una simile esperienza in passato.
Insieme alle 284 opere da loro realizzate sul formato 10x12 cm, vengono proposti un intervento video e un’installazione  per offrire una riflessione più ampia sull’attuale crisi globale dei rifugiati. 
Dopo Kutupalong, in Bangladesh, la mostra presenta diverse testimonianze dall’Africa con  due grandi campi del Kenya – Dadaab e Kakuma – due rappresentativi insediamenti in Uganda – Nakivale e Bidibidi –, il campo di Dzaleka in Malawi, quello di Nyabiheke in Rwanda, e l’insediamento di Smara con gli adiacenti El Aaiun, Awserd, Boujdour, Dakhla, in Algeria. 
Le tele offrono poi testimonianze dal Medio Oriente, da Za’atari, il più esteso campo per siriani, e da altri cinque campi per palestinesi: Baq’a, Hittin, Irbid, Madaba e Souf, tutti in Giordania. 
A questa cartografia si aggiungono artisti che hanno vissuto, dagli anni Ottanta ad oggi, situazioni analoghe in altre aree geografiche, inclusi artisti curdi e yazidi che raccontano la complicata storia del loro popolo, e 40 artisti afghani che, all’indomani della ripresa di potere da parte dei talebani nell’agosto 2021, hanno lasciato il Paese oppure sono rimasti in patria.
Completano la mostra le analisi delle migrazioni che giungono in Europa dall’Ucraina e tramite le rotte del Mediterraneo, e una selezione che racconta i corridoi di migrazione in America del Sud e Centrale, con un focus sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti.
“Esuli, migranti, rifugiati e apolidi, sradicati dalle proprie terre, sono costretti a fare i conti con un nuovo paesaggio – affermava Edward Said, critico e scrittore, in Nel segno dell’esilio – e la creatività, come del resto la profonda infelicità che si attribuisce al modo di fare di tali soggetti fuori posto, costituisce di per sé una delle esperienze che devono ancora trovare una loro narrazione”. Prendendo a prestito la definizione dei rifugiati proposta da Said – out of place – l’obiettivo della mostra è quello di offrire loro uno spazio di espressione, artistica e narrativa, e presentarli in primo luogo come artisti, considerando l’attuale o passato status di rifugiati come accidentale nella loro biografia. 
Alla luce delle storie e testimonianze raccolte, i campi ci appaiono non solo come realtà abitative fragili e temporanee, ma come entità in evoluzione, città accidentali, conglomerati urbani destinati a durare nel tempo. Un solo esempio come prova di un approccio che, invece di isolare, tende a integrare i campi nei paesi di accoglienza: nel 2023 il Kenya ha annunciato che i due insediamenti più grandi del Paese – Dadaab e Kakuma – si sarebbero integrati con le comunità locali.
Riuscire a raggiungere i campi è stato in sé un percorso iniziatico e una rottura di barriere: geografiche, linguistiche e amministrative. Realizzato con l’aiuto di artisti contattati direttamente all’interno dei campi e con il supporto di collaboratori esterni, il progetto è una testimonianza della funzionalità e della comunicazione aperta e dinamica che caratterizza i campi rifugiati presentati in mostra. 
Nonostante le vicissitudini, che l’arte sia ancora possibile all’interno di queste strutture e che gli artisti continuino a fare gli artisti rimane una scoperta straordinaria. Pittori, scultori, fotografi, registi nati e formatisi nei campi, raggruppati in piccole comunità, grazie al sostegno di organizzazioni umanitarie, con le loro storie insegnano lezioni potenti di determinazione e fiducia nella forza dell’arte. 
Raccontare la creatività che nasce nelle “città delle spine” – per riprendere il titolo del libro di Ben Rawlence sulla vita nel complesso di Dadaab – rimane lo scopo della mostra. 
Trovare, cioè, l’energia creativa in grado di trasfigurare l’insostenibile realtà, per poter trasmettere un messaggio come quello di Aminah Rwimo, regista multipremiata proveniente dal campo di Kakuma: “Volevo dare l’esempio e dire ai miei compagni sopravvissuti che qualunque cosa ci sia accaduta, fa parte sì della nostra vita. Ma non ne costituisce la fine”.
 
Le storie
Tra le storie che veniamo a conoscere: Famakinka Olunafemi, pittore nigeriano che vive in Francia e, lontano dalla sua terra natale, si sente come un re senza trono; l’opera fotografica di Youssef Al-Shuwaili, dall’Iraq, presenta una madre in una posa simile a quella della Madonna della Pietà, ma, a guardar bene, la donna con un braccio culla un neonato e nell’altra mano tiene una granata, generando un cortocircuito di amore e odio; nel lavoro di MyLoan Dinh, artista di origine vietnamita residente negli Stati Uniti, una foto di famiglia è incorniciata dai ritagli di un’economica borsa per la spesa che spesso i rifugiati impiegano come valigia, mentre sul retro dell’opera frammenti di gusci d’uovo formano una busta, a simboleggiare la  fragilità della loro condizione e il desiderio di restare in contatto con i familiari; Somaya Abdelrahman è una fotografa documentarista e artista nata in Egitto che ora vive in Germania e lavora su temi sociali e diritti umani; Chinar Hassan, artista curda nata in Siria, rappresenta, nell’essenzialità del suo lavoro, il senso di profonda incertezza verso il futuro che è proprio di chi non ha casa.  In mostra viene presentato il campo di  Kutupalong in Bangladesh, ritenuto oggi il più popoloso al mondo, dove trovano accoglienza i rohingya, protagonisti di un tragico esodo forzato; lo slide-show del fotografo Abir Abdullah cattura alcuni momenti della drammatica migrazione di questa comunità. Al visitatore viene proposto poi un approfondimento sul campo di Dadaab in Kenya, con il cortometraggio di Dennis Munene sulla convivenza nello stesso campo di tre comunità etniche – somala, sudanese ed etiope. Le opere in mostra raccontano anche le realtà dei campi della Giordania: Za’atari, il più esteso campo per rifugiati siriani al mondo, Baq’a, Hittin, Irbid, Madaba e Souf, che accolgono rifugiati palestinesi e sono tra i primi ad essere stati istituiti, negli anni Cinquanta e Sessanta. Gli insediamenti di Nakivale e Bidibidi si trovano invece in Uganda e ospitano persone che provengono da Repubblica Democratica del Congo, Burundi, Ruanda, Sud Sudan, Somalia. Si giunge così alla sezione dedicata al popolo afghano. Le testimonianze qui raccolte raccontano le storie di artisti che, dopo la ripresa del potere da parte dei talebani nel 2021, sono fuggiti e di altri che sono rimasti in patria, insieme alle storie di artisti, ora stabilitisi in Europa o in America, per cui il campo è un elemento fondante del proprio passato. Ci spostiamo poi in Malawi, con il campo di Dzaleka, e il Algeria, con il campo di Smara, che ospita rifugiati Saharawi; da lì lo sguardo si sposta sul Mar Mediterraneo e le sue rotte dirette verso i confini meridionali dell’Europa, in particolare verso Spagna, Italia, Grecia, Malta; restando in Europa, una sezione è dedicata ai rifugiati ucraini, che nel febbraio 2022 sono stati costretti a lasciare le loro case; si attraversa infine l’Atlantico, per percorrere i corridoi di migrazione dell’America Centrale e meridionale, in particolare lungo i confini tra Colombia, Panama, Venezuela e lungo le frontiere che separano il Messico da Guatemala e Stati Uniti.  Conosciamo così ad esempio l’ucraina Olena Pronkina, che rappresenta l’esperienza di abbandonare la casa attraverso uno sguardo che esprime impotenza e solitudine; e Mario Antonio Rivas, nato in Guatemala e ora rifugiato in Messico, che ha realizzato un piccolo diario e invita il visitatore a sfogliarlo, per accompagnare l’artista nelle complicate tappe della sua vita nomade, segnata dall’insicurezza.
 
La raccolta “Out of Place” è corredata dall’omonimo catalogo della Imago Mundi Collection che viene presentato in occasione di questa mostra. 
Nella ricorrenza della Giornata mondiale del rifugiato Fondazione Imago Mundi e Università degli Studi di Padova organizzano giovedì 19 giugno in Aula Magna dell’Università “Tessere la pace” incontro con il fotoreporter Giles Duley.  Attivista e fotografo, Duley, è fondatore della ONG Legacy of War Foundation. Per “Tessere la Pace” Duley racconta di come la resilienza può diventare un filo nel tessuto della pace, sia dentro di noi che nel mondo.
 

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